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Il segreto di Florian Kant
Il segreto di Florian Kant
Il segreto di Florian Kant
E-book550 pagine7 ore

Il segreto di Florian Kant

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Info su questo ebook

Jeremy Larenzi, un biologo italo-americano acquista in Italia un’antica abbazia bombardata alla fine della seconda guerra mondiale. Il ritrovamento di un vecchio manoscritto tra le rovine, cambierà radicalmente la vita dello scienziato. Tornano i fantasmi del passato, il suo orizzonte si riempie di minacce, rimorsi, accuse e ricatti. Sconvolto da alcuni delitti, si dibatte tra interrogativi etici e problemi scientifici. Qualcuno vuole sabotare o carpire il segreto di quello che sta realizzando nel laboratorio in cui lavora?
LinguaItaliano
Data di uscita7 gen 2014
ISBN9788879805780
Il segreto di Florian Kant

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    Anteprima del libro

    Il segreto di Florian Kant - Loredana Reppucci

    Indice

    Il segreto di Florian Kant

    I L SEGRETO DI F LORIAN K ANT

    Copyright

    © copyright 2011

    by Greco&Greco editori

    Via Verona, 10 - 20135 - Milano

    www.grecoegrecoeditori.it

    ISBN 978-88-7980-529-2

    Copertina: Studio Graphicus

    Titolo

    Loredana Reppucci

    Il segreto di Florian Kant

    Febbraio 1944

    Gli alberi d’ulivo sibilavano torcendosi sotto il furioso temporale, l’orizzonte squarciato dai fulmini s’accendeva, a intervalli regolari, su di un panorama scheletrico, quasi macabro, nel fragore terrificante dei tuoni che scuoteva la terra schiantando le nubi.

    L’uomo avanzava a stento, trascinandosi dietro una grossa borsa di tela, infradiciata dal fango, ansimava e vacillava attraversando orti miseri e campagne avvizzite dalla stagione e dalla guerra. Camminava in salita e, ad un tratto, comprese che ormai tutto era inutile: non ce l’avrebbe mai fatta. Si lasciò cadere a terra, rassegnato, passandosi le mani sul viso umido di pioggia e di pianto.

    Padre Lino, l’economo del convento, rientrava da una infruttuosa escursione nelle botteghe del paese quando vide quel mucchio di ossa e stracci accasciato sotto un albero.

    Togliti di lì! – Gridò al viso smunto che spuntava da quel groviglio – Non sai che è pericoloso stare sotto le piante quando ci sono i fulmini? Il cielo s’illuminava per brevi istanti e poi, subito, precipitava in un buio senza contorni.

    L’altro alzò la testa e lo fissò interrogativamente con uno sguardo tristissimo.

    Il monaco lo aiutò ad alzarsi: Buon Dio! Non sei conciato molto bene… tremi dal freddo! – Lo prese sotto braccio e continuò – Pensi di farcela per un altro chilometro?

    Poi vide quella specie di zaino: È importante?

    L’altro fece cenno di sì, con le poche energie che gli rimanevano.

    Sono… molto stanco… la borsa… Aveva l’accento straniero e faticava a respirare.

    Il monaco capì che aveva la febbre alta, gli passò un braccio sotto l’ascella, prese con l’altra mano il borsone e lo incitò a muoversi Sei fortunato che non ho trovato neanche una patata da portare, perché non avrei potuto aiutarti. – Disse ridendo – Dio ha pensato a te, oggi… e un po’ meno al convento! Sei magro come uno stecco, ma pesi come un manzo!

    Per gli ultimi metri quasi lo trascinò, suonò il campanello e quando il portone si aprì, chiese aiuto per portare il pellegrino nella foresteria.

    Appena entrato nella stanzetta, lui si guardò attorno con lo sguardo stanco, cercando la sua borsa. Padre Lino lo rassicurò indicando la sedia vicino, su cui l’aveva appoggiata.

    Lo fece stendere in un letto alquanto spartano, chiese ad un fratello di cercare l’abate e rassicurò l’uomo: Ora ti cureremo la febbre e ti daremo qualcosa di caldo. Vedrai che andrà subito meglio…

    L’uomo sorrise, con uno sguardo sconfortato ma riconoscente.

    L’abate procuratore giunse assieme al padre medico in un sommesso frusciare di vesti grezze.

    Ha la febbre molto alta, ma non sembra che ci siano complicazioni. Dategli un po’ di latte bollente con dentro un bicchierino di cognac. Poi, fatelo dormire, in un letto ben caldo.

    L’abate fece un cenno a padre Lino che si precipitò a cercare delle coperte di lana e a recarsi in cucina per chiedere un latte corretto.

    Poco dopo averne bevuto, il pellegrino riprese un po’ di colore, aprì gli occhi, sorrise a padre Lino e gli disse: Grazie, amico…

    L’altro gli prese la mano e gli sorrise a sua volta: Domani sarai come nuovo. Ora dormi…

    La mia borsa…

    È qui, sulla sedia. La vuoi più vicino?

    L’altro sembrò voler dire qualcosa, poi ci ripensò e scosse la testa.

    Padre Lino gli chiese, sottovoce: Come ti chiami?

    Florian… Rispose l’altro in un soffio.

    Buonanotte, Florian… a domani.

    Il giorno dopo, il malato era tutto un brivido. Smaniava e delirava. Era magrissimo come padre Lino aveva notato il giorno prima ed ora si stupiva, per quanto gli era sembrato pesante quando l’aveva trascinato al convento.

    C’era qualche sprazzo di cielo azzurro, adesso, da cui sgusciava di quando in quando un raggio di sole e spalancò le finestre, affinché quella luminosità amena desse un po’ di energia al malato.

    La mia borsa… – chiese Florian tremante – puoi portarmela? Ed anche la mia giacca…

    Padre Lino portò la borsa e la mise vicino al letto. Poi, si avviò a prendere la giacca sdrucita di Florian.

    Che hai nelle tasche? Pesa un accidente!

    Ci sono… ci sono delle bombe a mano… ed un lingotto d’oro. Sarebbe dovuto servire a raggiungere… l’America. – L’uomo stentava a parlare. – Vorrei dare… l’oro all’abate: forse può dar da mangiare ai monaci!

    L’oro, non è proprio commestibile…

    … ma può aprire molte dispense… fece Florian, pronunciando le parole con difficoltà.

    Entrò il procuratore e padre Lino gli comunicò quanto gli aveva detto il giovane tedesco.

    Vorrei restare solo con lui. Disse l’altro.

    Padre Lino uscì silenziosamente. L’abate procuratore, sedette accanto al letto.

    Di dove sei? Chiese con dolcezza.

    Di Norimberga.

    Come ti chiami?

    Florian Kant.

    Kant? Come il celebre filosofo?

    Esatto, ma ora sono… un disertore, in questa guerra. Sono scappato dalla linea Gustav… ero con il generale Kesselring…

    Hai famiglia?

    Tutti morti… bombardamenti...

    Cosa posso fare per te?

    Ho un grosso… peso, di cui liberarmi.

    Parli delle bombe?

    Florian tentò un sorriso: Quelle vi possono servire, non si sa mai… anche l’oro, può esservi utile…

    L’oro non è cosa da monaci. È tuo. E ti servirà perché guarirai…

    Devo confidarle un segreto, prima…

    Il procuratore era pallido come la cera. Aveva passato la notte nella masseria. Quanto gli aveva confidato Florian era troppo inquietante. Gli aveva dato in consegna la sua borsa perché la nascondesse in un posto sicuro. Sarebbe tornato a riprenderla a guerra finita, se… fosse sopravvissuto.

    In caso contrario, chiedeva che ne fosse distrutto il contenuto.

    L’abate l’aveva sistemata nel vano grezzo di una parete in cui c’erano stati da sempre, su rudimentali scaffali di legno, piccoli attrezzi da lavoro. Poi, con mattoni e calce, aveva personalmente murato quella specie di ripostiglio e affinché non attirasse l’attenzione, vi aveva sistemato davanti una scansia metallica, riempiendola di attrezzi e di ciarpame.

    Infine era andato nella cappella e vi era rimasto a lungo, davanti all’altare. Pregava Dio che quanto gli aveva detto Florian non dovesse mai accadere, ma il suo pensiero correva ormai in una traiettoria di paura animalesca, istintiva, accompagnata da un senso d’impotenza primordiale.

    Alcune ore dopo, all’alba, il rumore sinistro di un aereo ruppe il silenzio.

    " Achtung! – Gridò Florian, febbricitante e uscendo nel corridoio per allertare gli altri – Questo è un bombardiere!"

    Alcuni monaci uscirono dalle loro stanzette, ma quello che seguì fu un vero e proprio finimondo.

    Ma cosa sta succedendo? Chiedeva qualcuno rantolando mentre le schegge roventi lo trapassavano spruzzando sangue tutt’attorno.

    Rifugiamoci nella cappella! Ordinò concitato l’abate procuratore.

    Florian scoppiò in lacrime: Che Dio mi perdoni! – Fece fra tremiti e singhiozzi – Non sarei dovuto venire qui…

    Non hai avuto fortuna: di solito i conventi sono rispettati… Fece l’abate, mentre un nuovo boato scosse la terra.

    L’abbazia fu bombardata ininterrottamente per oltre mezz’ora. Si sentiva il rombo del motore dell’aereo allontanarsi e poi riavvicinarsi, descrivendo dei cerchi sopra di loro.

    Gli alberi bruciarono rovinando al suolo, sui monaci che correvano di qua e di là, tra i muri che si sgretolavano come castelli di carte. Si udivano solo urla di paura e di dolore.

    Il caccia bombardiere mirava proprio lì, le bombe scendevano giù come confetti durante un matrimonio, precise e senza via di scampo.

    Rimase solamente un cumulo di macerie e di fumo.

    La masseria fu colpita di striscio, solo una parte del tetto era arsa in fretta, mentre attorno precipitavano scheletrici tronchi in fiamme.

    Per due giorni e due notti si videro tutt’attorno dei piccoli incendi e braci di roghi che combattevano contro una pioggia fittissima.

    Capitolo 1

    Maddie Coldwell, prossima a laurearsi in economia, stava dando un’ultima scorsa alla tesi, quando sua madre le comunicò che stava per arrivare da loro Jeremy Larenzi.

    Lei posò il fascicolo sul tavolino: lo zio Jeremy! In realtà, non era proprio uno zio nel vero senso della parola, era un cugino di sua madre, Emilia, che aveva studiato negli Stati Uniti assieme a Jeremy ed al suo amico Mark Coldwell. Poi Emilia e Mark s’erano innamorati, sposati a San Francisco ove era nata anche Maddie ed avevano soggiornato lì per alcuni anni. Infine Emilia, americanizzata in Emily, convinse Mark a venire in Italia, precisamente a Roma dove lei era nata. Jeremy s’era perso di vista e Maddie aveva sempre sentito parlare di lui in casa, ma lo aveva visto di rado.

    Lo aveva sempre chiamato zio, perché di zii non ne aveva neppure uno.

    Ripensando a lui, un’ondata di ricordi le si riversò nella mente. Non tutti erano proprio gradevoli, anzi. Jeremy era un biologo, lavorava per una grossa azienda farmaceutica che aveva la sede principale negli USA e diverse filiali in tutto il mondo.

    Dopo l’impiego nella sede svizzera agli inizi della sua carriera, aveva trascorso alcuni anni presso i laboratori della centrale di Berkeley e infine era tornato in Europa.

    Aveva costruito una bella casa sull’Appennino e faceva più o meno il pendolare tra Svizzera e Italia.

    Apparteneva al mondo delle ricerche, era stato in molti paesi del sud America, aveva viaggiato in lungo e in largo per trovare strani animali ed altrettanto strane piante su cui sperimentare rispettivamente incroci ed innesti.

    Non si sapeva molto della sua vita, un po’ perché aveva soggiornato nei luoghi più disparati ed un po’ perché si faceva vedere di rado, impegnato com’era. Tuttavia ogni volta che arrivava a Roma era una festa per i suoi genitori e, a parte qualche prevenzione iniziale, anche per Maddie.

    Riandò con la mente alle poche volte che era stato da loro, in particolare la prima visita, quando lei aveva solo sei anni…

    All’inizio, non era assolutamente ben disposta verso questo signore che s’era presentato proprio quando stava per aprire il suo regalo di compleanno, interrompendo la festa e dando alla giornata una piega imprevista. Lui aveva monopolizzato l’attenzione dei suoi genitori, parlava in fretta come una mitragliatrice automatica e rendeva impossibile qualsiasi interruzione. Inoltre, gesticolava come un mulino a vento, raccontava avventure mirabolanti, esperienze da far accapponare la pelle, ridendo e facendosi alternativamente serio con un tono decisamente sgangherato.

    Tra una risata e l’altra la guardava, le tirava bonariamente i capelli e la sbaciucchiava spalmandole sulla faccia la puzza di un sigaro di pessima qualità.

    Lei era frastornata, non sapeva se ridere per le battute di Jeremy o piangere per la festa di compleanno interrotta. Poi aveva incominciato a prenderlo in considerazione. Era alto e prestante, ma con uno sguardo buffo simile a quello di una bertuccia incuriosita ed un tono di voce un po’ sopra il tenore, privo di particolari accenti, come certe segreterie telefoniche dai messaggi preparati con il sintetizzatore.

    Improvvisamente lui aveva preso una borsa di tela scura ed aveva tirato fuori un bel pacchetto dalla carta lucente, mettendoglielo vigorosamente tra le mani.

    Credevi che avrei potuto dimenticarmi del tuo compleanno? Le aveva detto poi, movendo l’indice come un ipnotizzatore e incurante del fatto che quella era comunque la prima volta che s’era ricordato di avere una nipote. Maddie aveva trovato nella scatola una deliziosa giacchettina di pelle bianca e si era completamente ricreduta su di lui.

    I suoi genitori insistevano perché Jeremy si fermasse qualche giorno a Roma da loro, ma lui poteva al massimo restarci per quella sera. Però aveva suo figlio con sé, l’aveva lasciato in macchina al parcheggio.

    Mark ed Emily, i genitori di Maddie, avevano cominciato a smaniare, non erano mai stati messi al corrente che lui si fosse sposato e che avesse anche un figlio.

    Due, aveva precisato Jeremy.

    Il più grande era rimasto a casa con la governante, Margarita, una ragazza che Jeremy aveva incontrato anni prima quando lei faceva più o meno la barista.

    Fu esortato ad andare a prendere il bambino in macchina e portarlo da loro.

    Era tornato tenendo per mano un ragazzetto di sette o otto anni che aveva lasciato tutti a bocca aperta: era di una bellezza sconvolgente. Lineamenti perfetti, occhi verde cupo e penetranti, ombreggiati da ciglia tanto fitte da sembrare due piccole spazzole, una chioma folta e bionda che gli incorniciava il viso, il fisico snello e forte.

    È un bambino stupendo, Jeremy! – Aveva detto Emily attirando a sé il riluttante Mathias e abbracciandolo. – Ha preso da sua madre? È bella?

    Sì… bellissima.

    Non l’hai portata con te? Aveva chiesto Mark.

    Siamo separati… ma i ragazzi stanno con me.

    Cosa fa tua moglie?

    Lavora nel mondo della moda. È sempre a Parigi o in giro per il mondo…

    E com’è successo che…

    Al solito modo. Ha preferito andarsene con un altro. Jeremy rispose secco.

    Ah! Fecero entrambi imbarazzati.

    Mathias aveva un’aria astratta, indifferente ai complimenti. Accennò un inchino con la testa e diede la mano a tutti, educatamente.

    Sorrideva, eppure sembrava serio ugualmente.

    C’era un che d’inquietante nel suo sguardo, qualcosa di transitorio che ti irrompeva dentro come un flash e non potevi dimenticare, ma nello stesso tempo ti soggiogava. Maddie ne era rimasta ammaliata.

    Jeremy intanto aveva incominciato a raccontare alcuni episodi di quel viaggio in Sud America che lo aveva tenuto lontano da casa molti anni prima. Aveva parlato di animali con una corazza ripugnante, squamosa e ruvida come certi sauri preistorici e, nonostante le prevenzioni, Maddie aveva trovato i suoi racconti affascinanti.

    Cosa ci trovi di bello in queste bestiacce? Aveva chiesto.

    Loro conoscono il segreto dell’immortalità… – aveva spiegato Jeremy – Sono al mondo dalla preistoria, hanno superato tutti i drammi del pianeta e sono ancora lì.

    Ma poi era passato il tempo, tanto, anni addirittura. Maddie intanto s’era fatta una ragazza molto carina, s’era iscritta all’università, aveva sofferto e gioito per le sue piccole storie d’amore, aveva deciso di pensare solo allo studio rimandando i flirt a dopo la laurea.

    Sporadicamente, tuttavia, si avevano notizie frettolose di Jeremy, o per telefono o perché lui passava di corsa tra un aereo e l’altro.

    Maddie si era chiesta spesso come fosse diventato nel frattempo il cugino Mathias.

    Studiava ed era bravissimo in tutto. Adam si dedicava a scolpire il legno e faceva bellissime statuette. Aveva assicurato una volta Jeremy.

    Quando ormai la famiglia Larenzi le era uscita dalla mente in maniera quasi definitiva, era successa una cosa molto strana. Circa quattro o cinque anni prima.

    Lei era sola in casa e Jeremy aveva telefonato.

    Era stato festoso e simpatico, s’era interessato di tutti i componenti della famiglia, aveva riso e scherzato. E lei s’era fatta improvvisamente curiosa, le sarebbe piaciuto rivederlo, ed anche i suoi cugini, nella loro casa sull’Appennino…

    Zio Jeremy, vengo a trovarti. Vuoi? Aveva chiesto ad un certo punto, tutto d’un fiato, provando quasi un senso di nostalgia per quel parente così singolare.

    Dopo qualche istante di silenzio in cui si era severamente interrogata se non avesse commesso un errore facendogli quella richiesta a bruciapelo, lui: Certo che lo voglio! Puoi fermarti da noi per tutto il tempo che credi, ma non pretendere che ci sia sempre anch’io! Aveva risposto ridendo, da mago delle gaffe quale era.

    Stai partendo di nuovo? – Era rimasta alquanto delusa – In verità, desideravo proprio poter ascoltare ancora quelle tue magiche storie…

    Grazie! Beh, mi vedrai… di quando in quando! Vado e vengo da Ginevra, ma tu non preoccuparti: per il weekend sono quasi sempre a casa… E i tuoi genitori?

    Se ne staranno a Londra per due settimane, poi andranno negli Stati Uniti. Non so esattamente quanto si tratterranno là!

    Come ha fatto tuo padre a convincere quella pigrona di tua madre a lasciare la cuccia?

    Forse non dovrei dirlo a nessuno, ma il primo volume del famoso trattato semi filosofico di papà è finito e lui ha avuto alcune proposte da eccellenti editori scientifici e da alcune università. Credo siano partiti con la speranza di cogliere molti allori. Aveva detto lei timidamente.

    Ma bene! Tuo padre è sempre stato molto in gamba… forse è un po’ sognatore, ma le cose le sa fare! – Aveva fatto una lunga pausa – Quando pensi di venire?

    Venerdì sera! La risposta era uscita in fretta.

    Bene… credo che ci sarò. Portati qualche golfino. Quando scende il sole qui fa fresco. Siamo in collina e circondati dalla campagna.

    Sei sicuro che ti faccia piacere la mia visita?

    Qualcosa ti fa pensare che potrebbe dispiacermi rivedere la piccola Maddie?

    No… no… Solo che, beh, non è molto educato autoinvitarsi in casa d’altri. No?

    L’educazione a volte smorza la spontaneità. Non pensarci proprio. Ti ho detto un’infinità di volte che avrei avuto piacere di avervi qui. Poi… fate passare secoli e non ci venite mai. Tua madre è troppo snob. Su! Ti aspetto.

    Evidentemente lo zio Jeremy non si ricordava di quanto erano stati improbabili i suoi inviti e chi, in realtà, faceva passare gli anni senza dare segni di vita. Aveva pensato Maddie, però le sue parole erano state gradevoli.

    Non ho l’indirizzo preciso di casa tua… Aveva aggiunto titubante.

    Jeremy s’era prodigato a spiegarle la strada da prendere, raccomandandole di fare attenzione al chilometro cinquantanove subito dopo le rovine dell’abbazia. Lì avrebbe dovuto svoltare per una piccola strada di campagna in cui era bene procedere lentamente e, dopo seicento metri, si sarebbe trovata sulla destra un grande cancello. C’erano un campanello ed un citofono, vicino al muro. La proprietà si chiamava «San Celestino».

    Così era partita spavalda, portando con sé una valigia abbastanza capiente, jeans e magliette di tutti i colori, qualche golfino, una giacca a vento, alcune riviste e libri da leggere. Aveva seguito puntualmente le indicazioni e riconosciuto subito le macerie del vecchio convento.

    Poi, recintata da reti metalliche, una collinetta scoscesa cosparsa di mucchi di pietre sparse attorno tra cui, qua e là, si ergevano residui di muri sbrecciati ed un pezzo di costruzione semicircolare che probabilmente era stata l’abside di una chiesa, annerita dal fumo di un probabile incendio.

    Un pezzo di muro della chiesa distrutta luccicava nel sole con il suo rosone azzurro rimasto miracolosamente intatto. Doveva essere la tenuta di San Celestino.

    Poco più avanti infatti s’intravedeva un portone di ferro, verniciato di rosso cupo, con due ante simmetriche su ognuna delle quali, in prossimità della maniglia, c’era un semicerchio con delle sbarre a raggiera. A porte chiuse, quella sorta di oblò sembrava un sole stilizzato.

    Sbirciando dentro, attraverso quelle fessure, aveva notato un sentiero o meglio quasi un piccolo viale che scendeva verso una casa molto estesa e bianca, con parti in vetro a specchio, immersa in uno spiazzo irregolare fiancheggiato da alberi di ulivo e di viti.

    L’impressione era stata piacevole, i raggi del sole all’orizzonte sgusciavano tra il fogliame lussureggiante ed i prati sembravano ricamati da ombre e luci.

    Margarita l’accolse con una certa curiosità e Maddie notò che era una bella donna, anche se il tempo le aveva disegnato delle piccole rughe attorno alla bocca. Le aveva indicato un posto per parcheggiare la macchina sotto una tettoia nel retro del casale.

    Maddie s’era guardata attorno. L’insieme, un po’ caotico ma gradevole, evidenziava che la casa era stata ristrutturata aggiungendo di volta in volta nuove parti, senza alcun progetto integrato, ma piuttosto espandendola dov’era più semplice trovare posto.

    Alcune zone della costruzione denunciavano la loro antichità o magari anche solo una certa vecchiaia, pure si adattavano egregiamente alla contiguità con quelle moderne di cemento e cristallo.

    Maddie si era chiesta ancora una volta se non era stata troppo precipitosa a proporsi con quell’autoinvito allo zio Jeremy.

    Lo zio non c’è? Aveva chiesto a Margarita e lei aveva allargato le braccia.

    Non mi dice mai se c’è o non c’è, se parte o resta qui… Vieni, ti faccio vedere la tua stanza.

    Margarita si muoveva con aria padronale e l’aveva spinta confidenzialmente in casa. Doveva essere stata una bella ragazza, qualche anno prima, aveva pensato Maddie. Ora era forse un po’ appesantita nel corpo, il viso appena involgarito da un trucco usato con molta approssimazione, ma le sue lievi rughe le conferivano quello strano fascino che aleggia nel volto di chi ha amato e sofferto.

    Erano entrate in una stanza immensa, asimmetrica, fatta di angoli acuti ed angoli ottusi probabilmente per assecondare le irregolarità del terreno. Un’intera parete era stipata di libri sistemati in una scaffalatura di metallo. Negli angoli c’erano poltrone e tavolini, al centro un’immensa fratina di noce, con molte sedie attorno, un grosso camino di pietra, alcune porte che davano in locali del piano terra (cucina e sala da pranzo oltre a una dispensa e una stanza da stiro) ed infine una scala in legno che portava al piano superiore.

    Maddie aveva salito i gradini silenziosamente dietro Margarita che ansimava un poco, avevano percorso il ramo destro di un corridoio abbastanza lungo ed erano arrivate alla sua stanza. Margarita aprendone la porta, le aveva fatto un cenno con la mano invitandola ad entrare.

    Anche se i soffitti alti la facevano sembrare più piccola, era una camera ariosa in cui c’erano, oltre ad un vecchio letto che aveva l’aria d’essere molto comodo, anche un piccolo scrittoio con la sedia in pelle, un armadio immenso né antico né moderno, ed un bagno con ogni comfort.

    Margarita s’era premurata di dirle che, quando e se voleva, poteva scendere di sotto e muoversi a suo piacimento.

    Dopo una passeggiata nel perimetro della proprietà adagiata sul suolo scosceso e in cui era stato tracciato un rozzo sentiero a ghiaia che saliva, scendeva, curvava lungo il profilo della collina, aveva notato stupefatta nel prato incolto che stava al di là d’un rudimentale orto, delle pietre strette e lunghe conficcate a terra come menhir, in un ordine che, almeno a prima vista, non rispondeva a nessuna logica. Sette cippi dall’aria funerea.

    Poi s’era spinta cinque o sei scalini più in alto dove era sistemato il giardino. Si stava facendo buio e nel portico della casa erano state accese delle luci che, assieme al tenue chiarore della luna, davano all’insieme un’aria molto romantica.

    In una fontana che non vedeva l’acqua da molti anni, troneggiava una sorta di cavallo asessuato coperto di verderame. Singolare scultura moderna assemblata di parti distinte, come per certe vecchie armature, il cavallo era impennato sulle zampe posteriori, il muso rovesciato all’indietro, le orbite vuote che foravano l’oscurità e trasmettevano un evidente senso di terrore. In mezzo alla gola era conficcata in profondità una lancia destinata ad emettere lo zampillo d’acqua. Era un’immagine crudele ed inquietante e a Maddie parve l’unica vera stonatura in quel panorama che, almeno per quanto riguardava madre natura, era quasi perfetto.

    Malgrado la schematica semplicità del luogo, infatti, l’atmosfera era pacata e suggestiva, forse struggente, anche se lei aveva un nodo in gola per quel cavallo, espressione di un dolore profondo e irrimediabilmente senza fine.

    S’era aspettata qualcosa di totalmente diverso, un disordine naturale, come erba non rasata o viali pieni di foglie. L’atmosfera era statica ma soprattutto creava un disagio di cui non si riusciva a individuare il motivo.

    D’un tratto le era parso che si accendesse una luce in una finestra ad ovest del casale, poi tutta la casa, eccetto il porticato, era piombata nel buio.

    Era arrivato lo zio Jeremy che l’aveva accolta con gridolini di gioia. I due cugini non si erano visti neppure un attimo e Maddie si era chiesta dove mai si fossero cacciati.

    Cercava di convincersi che lo zio era un uomo molto impegnato con il lavoro e non quel sognatore malandrino che andava a cercare iguane in Africa e in America.

    Dentro di sé però, malgrado tutto, nasceva il sospetto che lui volesse in realtà occultare qualcosa della sua casa. Cosa esattamente? Quella sua esistenza sregolata e bizzarra non dava molto affidamento. Non aveva rivisto Mathias, né conosciuto Adam, quei figli nati da una donna di cui Jeremy non aveva parlato mai, di cui non c’era neanche una fotografia in giro per la casa.

    Fra le tante cose, pensò perfino che fosse Margarita la madre dei due ragazzi, una passione inconfessata e giovanile dello zio, ma si convinse subito che non era possibile. Quella donna doveva essere bellissima, bionda e raffinata, per come ricordava Mathias. E Margarita era stata sicuramente una splendida bruna.

    S’andava a dormire presto in campagna. Maddie aveva spento la luce e lasciato le finestre socchiuse, quando le era parso di sentire un rumore di passi in giardino. Uno scricchiolio regolare sulla ghiaia. Era corsa a guardare da dietro le persiane, ma non aveva visto nessuno, solo la sagoma minacciosa e lugubre del cavallo imbizzarrito e stiracchiato verso l’alto, inchiodata nel bronzo verdastro.

    Era scesa in punta di piedi e aperto il portone con cautela avviandosi verso il giardino. Aveva accostato l’uscio… sulla superficie lucida e scura di quercia, nel vago chiarore di un’esile falce di luna, era disegnato con una tinta fosforescente, un teschio e due ossa incrociate. Una scritta: Larenzi, finiscila!

    Con il cuore in gola, era tornata rapidamente in casa, cercando di non fare rumore, s’era chiusa a chiave in camera.

    Non riusciva a calmarsi, faticava a respirare, temeva d’essere vittima di una allucinazione… forse aveva bevuto troppo vino a cena.

    Era seguita una delle notti più lunghe della sua vita. Le sembrava che la mattina non sarebbe mai arrivata. E aveva paura. Non sapeva di cosa, ma non vedeva l’ora di andarsene via da lì. Nonostante la sua innata razionalità, era arrivata a pensare che potessero esistere i fantasmi e che, se c’erano, avrebbero certo scelto di abitare in un posto come quello.

    Si era assopita e svegliata molte volte dopo brevissime pause di un sonno agitato. Infine, aveva rifatto velocemente la valigia e, in punta di piedi, era scesa a metterla nel bagagliaio della sua auto. Aveva guardato tremando la superficie esterna del portone, per vedere che cosa fosse quell’orrendo simbolo, il teschio fosforescente con le due ossa incrociate… e la scritta. Non c’era assolutamente nulla.

    Si era sentita, se possibile, ancora più frastornata.

    Non riusciva a capire cosa fosse accaduto, aveva visto chiaramente qualcosa di macabro su quella porta la notte appena trascorsa? Poteva la paura creare una figura fosforescente dal nulla? Cosa avrebbe detto allo zio Jeremy?

    Pensava a delle scuse per quella fuga, ma aveva la testa praticamente vuota. Qualcosa avrebbe inventato. Messa la roba nel bagagliaio, era tornata in camera, aveva rifatto il letto, sempre con il cuore che andava all’impazzata, infine era scesa nel salone al pianterreno. Un angolo della fratina era apparecchiato e su un carrello erano allineate le vivande: caffè, latte, pane, miele, formaggio, frutta.

    Aveva scelto un po’ di frutta ed una tazza di caffè.

    Era comparsa Margarita: Jeremy rientra stasera – aveva detto subito – ti prega di scusarlo.

    Pazienza… lo vedrò un’altra volta. Ora devo ripartire subito per Roma…

    Quanta fretta! Aveva commentato Margarita.

    A proposito… – aveva tentato Maddie – sono scesa stanotte. C’era un disegno sul portone… l’hai visto tu?

    Un disegno? La porta non è certo una lavagna.

    Non hai visto un… un teschio?

    Margarita era apparsa un tantino imbarazzata, poi: Avrai fatto un brutto sogno. – Aveva detto – Perché mai ci sarebbe dovuto essere un teschio?

    C’era scritto qualcosa anche.

    Io credo che tu sia ancora addormentata. Stai attenta a guidare. Aveva concluso.

    Anche ora, ripensando a quella gita in Abruzzo, nonostante l’istintiva gioia di rivedere lo zio Jeremy, Maddie provò un disagio profondo. Lui era nuovamente a Roma e lei si augurava di cancellare quei brutti ricordi. Maddie era una ragazza ipersensibile, ma la vita a San Celestino le era apparsa così ermetica… come un lavoro teatrale kafkiano in cui nessuno comunica con gli altri e forse neppure con se stesso.

    Per Maddie era stato un tuffo al cuore, voleva molto bene a quello zio imprevedibile ma non riusciva a comprenderlo, razionalmente.

    Quando arrivò a casa apparve a tutti un po’ invecchiato. Il suo sorriso s’era fatto un po’ storto e forzato e gli occhi erano secchi, senza fluidità.

    Maddie pensò che non aveva il diritto di pretendere che lui si comportasse come avrebbe preferito lei. Aveva i suoi problemi, le sue preoccupazioni, i suoi guai di lavoro o di famiglia. Era evidente che s’era sempre tenuto tutto dentro e che nessuno, qualunque fosse il suo turbamento, avrebbe potuto aiutarlo.

    In casa si generò il solito trambusto come per ogni arrivo di Jeremy e Maddie ne provò un passeggero fastidio, proprio perché le sembrava esagerato aspettarlo come se arrivasse il messia, quando a casa sua non era stato di certo altrettanto ospitale.

    Quando tempo addietro aveva raccontato ai suoi genitori la permanenza a San Celestino, avevano entrambi minimizzato le sue cupe impressioni rimproverandola per essersi imposta a lui e poi essersi offesa fino al punto di andarsene via come una ladra.

    Non era stato facile descriver loro l’atmosfera che si respirava nel casale di Jeremy. Qualsiasi descrizione sarebbe apparsa, come in effetti avvenne, la fantasia di una ragazza a caccia d’improbabili misteri.

    Non aveva parlato del teschio minaccioso: non avrebbero creduto neppure ad una parola.

    I genitori di Maddie, in quella circostanza erano poi molto eccitati per il successo del libro di Mark. Così, semplicemente, giudicavano le ansie della figlia come manifestazioni di protagonismo.

    L’arrivo di Jeremy fu quindi accompagnato, come nelle poche altre volte che era passato da loro, da manifestazioni di gioia e grande cordialità. Entrò come una folata di vento, abbracciando tutti e poi si fermò a guardare Maddie con aria curiosa. Forse aveva capito che ce l’aveva un po’ con lui, da quel lontano soggiorno a San Celestino.

    Maddie! Sei scappata da casa mia quella volta, come se avessi visto il diavolo! Che cosa t’era successo?

    Lei non seppe cosa dire e scosse la testa ridendo.

    Perdonata! – Fece Jeremy – Io non ci sono sempre, il mio lavoro è a Ginevra e quindi non mi riesce d’essere presente come vorrei… Sai, ho parlato di te ai ragazzi: Adam ha voluto che ti portassi in dono una delle sue statuette di legno.

    Aprì quella sua borsa alla Mary Poppins, che poteva contenere di tutto, e tirò fuori un pacchetto né grande né piccolo, porgendoglielo.

    Dalla carta emerse una testa scolpita nei minimi particolari, quasi capello per capello. Maddie era galvanizzata, ma avrebbe potuto giurare che il modello era stato Mathias. Non immaginava come fosse adesso, da giovanotto, però i lineamenti e gli occhi erano proprio gli stessi che aveva visto da bambina e che mai sarebbe riuscita a dimenticare.

    Ancora una volta, ripensando a quel lontano giorno, fu attraversata da una indescrivibile sensazione di disagio che non sapeva spiegarsi. Chi aveva lasciato quello strano messaggio sulla porta? Era diretto allo zio Jeremy. Perché? Sembrava una minaccia…

    Jeremy la fissava con i suoi occhietti inquieti da scimmia.

    È bellissima… – disse Maddie – è il ritratto di Mathias?

    Sì, sì… – rispose lui – Mathias è il soggetto preferito di Adam.

    Se è come questa scultura lo rappresenta, Mathias non ha perso davvero nulla della sua bellezza!

    Gli somiglia, sì. Mathias è straordinariamente bello. Perfino troppo.

    E Adam? Dicci com’è! Intervenne Emily.

    Lui non è così bello. È taciturno ed ama anche stare da solo. Sono molto diversi tra loro i due ragazzi. Beh, non so. Forse sentono la mancanza di una madre.

    Perché se ne andò via tua moglie? Chiese Maddie, mettendo Jeremy alle corde.

    La solita storia. S’innamorò di un altro. Forse io ero troppo noioso per lei…

    Non provasti a trattenerla?

    Non sarebbe servito a granché. In questi casi, le cose succedono prima che uno possa rendersene conto.

    Peccato! Hai sofferto molto?

    Beh… sai, non ci capivamo più e, quindi…

    Lei ebbe la sensazione che Jeremy fosse in imbarazzo, ma soprattutto che stesse mentendo.

    Hai una sua fotografia? Chiese spudoratamente Maddie.

    Lui la guardò stupito, con aria interrogativa, poi: Oh, sì… ma è piuttosto vecchia. Aprì il portafogli e mostrò un ritratto in bianco e nero, rovinato dalla permanenza in una tasca troppo stretta del borsellino deformato dall’uso.

    S’intravedeva un viso di donna dai grandi occhi bistrati ed un cappello a larga tesa che le copriva metà volto.

    Molto bella. Disse Maddie restituendogli la foto e lui la rimise a posto, dopo averla sbirciata in fretta.

    Aprile 1976

    Il giovane Jeremy Larenzi aveva ereditato una notevole somma da suo padre e si accingeva a convertirla in un’abitazione in Italia, suo paese natale. Si era laureato in biologia all’UCSF, la University of California San Francisco e s’era trattenuto un paio d’anni negli Stati Uniti dove aveva iniziato una brillante carriera di ricercatore.

    Poi era stato assunto da un’azienda farmaceutica americana che aveva una sede anche in Europa in cui lui avrebbe dovuto assumere la posizione di direttore del laboratorio. L’occasione gli era parsa quella giusta per trovarsi una casa nella terra che aveva lasciato fin da quando era bambino.

    Aveva un carattere apparentemente estroverso, ma nella realtà era un giovane riservato, riflessivo e tranquillo. Odiava le costrizioni, gli orari, gli appuntamenti e, fortunatamente, il suo lavoro di biologo gli consentiva di essere abbastanza libero da poter resistere alle poche regole sociali che questo comportava.

    Aveva cercato qua e là, in Toscana, in Umbria, in Abruzzo… voleva una casa immersa nel verde, un po’ di terra attorno che mettesse una certa distanza tra lui ed il resto del mondo. La sua bellissima compagna di studi con cui aveva sempre sperato di allacciare una relazione più intima, s’era sposata con il suo migliore amico e lui s’era rassegnato ad attendere un altro amore. Chissà dove avrebbe incontrato un’altra donna come Betty.

    Non s’era mai consolato completamente di quel tradimento.

    Gironzolando sull’Appennino, nel Lazio e in Abruzzo, era arrivato in una piana dominata da un poggio verdissimo, disseminato di ulivi inselvatichiti e dalle rovine di una vecchia abbazia. C’erano i resti di un casale rustico, pochi muri in piedi, qualche vano semidistrutto, un rudere semicircolare dell’abside della chiesa, uno spezzone scalcinato in cui troneggiava l’antico rosone di cristalli color cobalto e per il resto macerie.

    Fu proprio quella specie d’occhio fatto di vetri molati e lucenti rimasto miracolosamente illeso a destare la sua attenzione.

    S’era fermato a guardare il paesaggio: fiocchi di nuvole in un cielo azzurro intenso e le colline stese nel sole ad esibire il loro verde rigoglioso e placido.

    Respirò a pieni polmoni quell’aria appena tiepida, ascoltò il cinguettio degli uccellini intenti a fare i nidi e pensò che proprio lì gli sarebbe piaciuto vivere.

    S’informò della proprietà del luogo. Molta terra era stata venduta a contadini e pecorai dei dintorni, ma poi era stata abbandonata perché ci passavano dei lupi che facevano razzia delle bestie.

    A Jeremy i lupi non facevano paura: gli animali non assalgono l’uomo, se non sono attaccati. Riuscì a comprare quel lotto di terreno in cui c’erano le macerie del convento ed i resti del casale, così da non dover incontrare problemi per le licenze necessarie a costruirvi la sua casa.

    Man mano che il tempo passava, ricostruì l’edificio integrandovi spezzoni dei muri rovinati, utilizzando le vecchie pietre, aggiungendo nuove parti strutturalmente moderne.

    Aveva fatto restaurare il rosone proteggendolo poi con una ghiera di ferro battuto ed anche quello che restava dell’abside della chiesa, in realtà un rudere di forma semicircolare sconsacrato da anni, vi aveva aggiunto parti in vetro e trasformato il tutto in una specie di serra dove alloggiava piante rare che portava a casa dai suoi viaggi in tutti gli angoli del mondo, quando s’interessava delle possibilità di utilizzare erbe medicinali esotiche o rettili velenosi per le sue ricerche. Gli piaceva molto passare del tempo lì, studiando quella vegetazione dagli strani fiori e foglie tropicali.

    L’arredamento della casa invece era spartano, sufficiente per lui che conduceva sostanzialmente una vita quasi da monaco, a parte Margarita. Una grande stanza a fianco della sua camera da letto era utilizzata come studio quando intendeva lavorare senza essere disturbato da nessuno.

    La sua intenzione, però, era quella di farsi anche un piccolo laboratorio per alcuni dei suoi esperimenti. Aveva deciso di costruirlo in fondo alla proprietà, dove erano ancora mezze in piedi le rovine di una specie di officina alquanto rudimentale, che nel tempo s’era sovrapposta alle antiche attività del frantoio. Certamente doveva essere stato un locale molto ampio in cui erano rimaste inutilizzate la vasca circolare e le macine di pietra, di cui una era spezzata a terra.

    Per il resto, quel pezzo di locale senza tetto su cui aveva arrangiato una lamiera, era invaso da attrezzi per giardinaggio, latte vuote, vecchie sedie sgangherate, scatoloni, cassette di legno, pezzi di ringhiera di ferro, arnesi arrugginiti dalla pioggia, scansie piene di barattoli, pennelli, stracci: un vero magazzino di quelle cose inutili che erano state tuttavia conservate parte dai monaci e parte da Jeremy.

    Era lontano oltre trenta metri dal casale: proprio il posto adatto per costruirci un angolo in cui lavorare tranquillamente ed indisturbato.

    Aveva disegnato lui stesso il progetto per la realizzazione del laboratorio, un paio di pareti da rinforzare, il tetto completamente da rifare, un innesto di vetrate per avere luce ed un angolo isolato con ambienti sterilizzati per certi tipi di reazioni. Una stanza quadrata con pareti quasi interamente occupate da librerie ed una scrivania per poter studiare in pace.

    Aveva deciso che sarebbe stato meglio liberarsi delle cianfrusaglie che occupavano la stanza, se voleva dar seguito al progetto.

    Non era cosa da poco. Le avrebbe ammucchiate all’esterno e poi cercato un furgone di robivecchi perché se le portasse via.

    Fu proprio mentre stava valutando il volume del materiale da scartare che, spostando una vecchia mensola alta e traballante, notò i segni di un vano murato. C’era una cassettina di ferro chiusa a chiave e grigia di polvere sullo scaffale più alto, dietro degli annaffiatoi e fiaschi vuoti. Fece saltare la serratura con facilità. Dentro c’era solamente una busta chiusa con ceralacca, in cui era impresso un sigillo rotondo raffigurante una croce greca.

    Aprì la busta, spiegò un foglio di carta ingiallito dal tempo e scritto a mano con bella grafia. Incominciò a leggere:

    Se questa lettera cadrà nelle mani di qualcuno, sia esso uno dei fratelli monaci o un secolare, significherà che la morte mi ha colto di sorpresa o all’improvviso.

    A chiunque esso sia, in ogni caso, rivolgo una preghiera e raccomando la massima prudenza e diligenza nel fare ciò che ora mi accingo a chiedergli, come pietoso favore per la mia modesta persona e per il bene del mondo intero.

    Sono venuto in possesso di materiale delicato appartenente al dottor Florian Kant. Se questa persona, esibendo i dovuti documenti d’identità, si farà avanti a

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