Trame oscure
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Terzo romanzo di Alessandro Cirillo, dopo Attacco allo Stivale e Nessuna scelta, anche questo thriller, di ambientazione tutta italiana, regala al lettore intensi e drammatici momenti di azione, e un ritmo rapido, che lo terrà con il fiato sospeso fino alla rivelazione finale di una sconcertante verità.
Il romanzo si è classificato secondo al Premio Letterario e Giornalistico "Piersanti Mattarella" 2015.
Il blog dell’autore: alessandrocirillo.altervista.org
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Anteprima del libro
Trame oscure - Alessandro Cirillo
Schiavo.
PROLOGO
Linea ferroviaria Alessandria-Novara, 28 giugno 2008
Il convoglio, formato da tre vetture, procedeva lungo i binari viaggiando a una velocità di ottanta km/h. La linea era a singolo binario e attraversava campagne verdi baciate da un caldo sole estivo. Il cielo era azzurro e limpido, come se nessuna nuvola avesse avuto il coraggio di rovinare quella splendida mattinata di fine giugno. Sul treno si trovavano appena sei persone, sedute tutte nelle prime due carrozze del convoglio.
Il macchinista, un ferroviere prossimo alla pensione, iniziò ad azionare il freno della motrice vedendo avvicinarsi la stazione dove era prevista la fermata successiva. Accanto a lui si trovava il capotreno Achille Mandelli, un ragazzo di trentuno anni originario dell’hinterland milanese. Mandelli si alzò dal seggiolino con fare scocciato e recuperò la chiave quadra che gli avrebbe permesso di chiudere le porte del treno. Si sistemò un lembo di camicia scivolato fuori dal pantalone e si diresse verso la porta di accesso più vicina. Nonostante qualche chilo di troppo che si era depositato intorno alla vita, Mandelli poteva ancora vantare un buon fisico, frutto degli anni in cui aveva praticato la boxe a livello professionistico. A venti anni era stato additato come una delle giovani promesse del pugilato, vincendo svariati titoli. Tutto sembrava filare liscio fino a quando la sua carriera era stata stroncata da quel maledetto incidente in moto. Era successo per evitare di investire un ragazzino che aveva avuto la brillante idea di attraversare la strada all’improvviso. Mandelli aveva sbandato a sinistra e aveva perso il controllo del mezzo, rovinando a terra. Rottura dei legamenti del ginocchio destro, fine dei giochi. Il ragazzino era sparito velocemente così come la sua possibilità di fare carriera come pugile. Il ginocchio era tornato quasi a posto ma rendendogli impossibile sostenere i ritmi degli allenamenti che richiedeva la carriera di un professionista. Dopo un paio di anni era riuscito a entrare in ferrovia, superando gli esami per diventare capotreno. Il lavoro non lo aveva mai entusiasmato molto ma gli dava da mangiare e comunque, a dirla tutta, non era la cosa peggiore che si poteva trovare in giro.
Il convoglio si arrestò; Mandelli aprì la porta azionando la maniglia e scese a terra. La stazione aveva solo tre binari e un fabbricato viaggiatori. Come accadeva per molte altre piccole stazioni, nessun ferroviere lavorava in quel luogo. I progressi della tecnologia avevano permesso di controllare intere linee utilizzando una manciata di persone situate in un’unica stanza a decine di chilometri di distanza. Un bel risparmio in termini di personale; d’altro canto, senza il buon vecchio capostazione, quei luoghi erano diventati terra di nessuno. Lo dimostrava il fatto che il fabbricato viaggiatori era decisamente fatiscente. I muri esterni erano ricoperti per la maggior parte da murales, a volte anche piuttosto osceni. I vetri delle finestre della sala d’aspetto erano sfondati a causa di ripetuti lanci di pietre. Le macchinette obliteratrici erano state tutte vandalizzate, così come uno dei lampioncini che fornivano illuminazione durante le ore notturne.
Mandelli osservò un gruppo di ragazzi intenti a salire nella carrozza di coda, alcuni di loro stringevano in mano delle bottiglie di birra. Accarezzandosi il pizzetto che gli circondava la bocca, il capotreno scommise con se stesso che nessuno di loro fosse in possesso del biglietto. Le scuole erano ormai finite e i ragazzi si riversavano in giro senza sapere esattamente cosa fare. Non si stupì neanche di vederli già con la birra a metà mattinata.
Dopo che il gruppo fu salito a bordo, Mandelli si voltò per osservare la disposizione del segnale. Un color verde acceso gli diede la conferma che il convoglio era autorizzato a partire. Azionò il nottolino per chiudere le porte tramite la chiave in dotazione. La porta da cui erano saliti i ragazzi si richiuse. Rimaneva solo da chiudere la sua porta.
Vai maestro
ordinò al macchinista con la sua r
leggermente accentuata.
Subito dopo richiuse la sua porta e il convoglio si avviò.
In realtà la procedura richiedeva che il capotreno ordinasse la partenza esponendo una bandiera verde ma Mandelli si trovava a due passi dalla cabina di guida e riteneva superfluo seguire il manuale alla lettera.
È salito un gruppo di ragazzi carichi di birra
annunciò entrando in cabina di guida.
Già a quest’ora?
chiese ridendo il macchinista.
Staranno facendo colazione. Sta’ sicuro che quelli sono senza biglietto.
Direi che è molto probabile.
Mandelli armeggiò nel suo borsello tirando fuori il blocchetto per emettere i biglietti e la pinza per forarli.
Hai intenzioni bellicose?
domandò ancora il macchinista.
Vado a insegnargli come ci si comporta.
Dai, lascia perdere, che tra un po’ siamo arrivati alla fine della corsa. Tanto non pagheranno mai, ti fai solo il sangue amaro per niente.
No, è una questione di principio. Devono capire che non possono fare quello che vogliono.
Si sistemò gli occhiali dalla spessa montatura nera e uscì dalla cabina di guida. Attraversò le prime due carrozze ed entrò nella terza. Quello che vide gli provocò un brivido di rabbia. In fondo alla vettura il gruppo di ragazzi si era comodamente sistemato. C’era chi beveva birra e chi fumava semisdraiato sui sedili. Tutti quanti ridevano con allegria.
Mandelli avanzò nella vettura con sguardo minaccioso. I ragazzi erano cinque e non potevano avere più di sedici anni, stimò il capotreno.
Ehi controllore!
lo salutò quello che sembrava il capetto del gruppo. Era un marocchino magro come un chiodo che portava capelli rasati ai lati e una cresta alta un paio di centimetri piena di gel.
Metti giù i piedi dal sedile
ordinò secco Mandelli.
Ma certo, il capo sei tu
rispose il ragazzino mimando un saluto militare.
Gli altri sghignazzarono di gusto, alcuni già ebbri a causa della birra ingerita. Uno di loro era alto un metro e ottantacinque, come Mandelli, ed era piuttosto massiccio, anche se in maggior parte si trattava di grasso. Anche lui era marocchino, mentre gli altri tre erano italiani.
Spegni subito quella sigaretta
ordinò al ragazzo più robusto.
Il ragazzo spense la sigaretta nel cestino portarifiuti, non prima di aver sbuffato in faccia a Mandelli una nuvola di fumo.
L’avete fatto il biglietto?
chiese il capotreno, sapendo che era una domanda inutile.
No, mi spiace. Avevamo finito i soldi
affermò lo smilzo con la cresta in tono canzonatorio.
Già, lo immaginavo. Per caso li avete finiti con le bottiglie di birra?
Forse. In ogni caso non sono cazzi tuoi
rispose lo smilzo diventando improvvisamente serio.
Io invece sono convinto che qualche soldo vi è rimasto. Che ne dite di tirarli fuori?
Allora non hai proprio capito un cazzo
disse lo smilzo alzandosi in piedi. I suoi amici lo imitarono. Il ragazzo robusto si piazzò dietro il capotreno bloccando la via di fuga.
Levati dai coglioni e tornatene da dove sei venuto
ordinò perentorio il ragazzone.
Senti, ciccione, è meglio che ti levi dalle palle perché oggi non è giornata
gli consigliò Mandelli senza perdere la calma.
Perché sennò, che fai?
Già, che fai?
incalzò un altro ragazzino dando una spinta al capotreno.
Mandelli lo fulminò con lo sguardo ma non reagì ancora. In fondo si trattava di ragazzi, ci doveva essere un modo per uscire da quella situazione senza venire alle mani. La sua esitazione fu presa per paura, cosa che esaltò il gruppo. Due ragazzi cominciarono a spingerlo e fu in quel momento che la situazione degenerò senza rimedio. Il ciccione, volendo mostrare la propria forza, tentò di sferrare un pugno al volto del capotreno. Mandelli, che aveva ancora buoni riflessi, schivò il pugno e contemporaneamente colpì il ragazzo allo stomaco, facendo attenzione a dosare la potenza. Il ciccione si piegò in due dal dolore. Lo smilzo venne spaventato dalla fulminea reazione del ferroviere e commise l’ultimo errore della sua vita. Estrasse dalla tasca un coltello a serramanico mentre Mandelli era ancora voltato verso il suo amico. Premette il tasto di apertura facendo scattare fuori una lama di otto centimetri. Tentò di colpire il fianco del capotreno. Mandelli istintivamente vide il movimento del braccio e la lama luccicante che sia avvicinava. Fu veloce a ruotare il busto di novanta gradi e a colpire il ragazzo con un diretto alla tempia sinistra. La paura che gli aveva procurato la vista della lama gli impedì di dosare la potenza come aveva fatto con l’altro.
Lo smilzo fu sbalzato a terra dalla potenza del colpo. Cadde sul pavimento sbattendo la testa e perse i sensi. Il coltello atterrò poco distante da lui.
Seguirono attimi di silenzio in cui nessuno si mosse. Mandelli era pietrificato. Fu uno dei ragazzi, dopo trenta interminabili secondi, ad avvicinarsi all’amico. Si chinò su di lui tentando di svegliarlo con degli schiaffetti sul volto.
Non si muove
disse.
Il treno nel frattempo si fermò in un’altra stazione.
Andiamo via di qua
propose un altro del gruppo.
I quattro scesero a terra senza che il capotreno muovesse un muscolo. Il ragazzo che si era chinato sullo smilzo fu scaltro a recuperare il coltello senza farsi notare. Finalmente Mandelli riuscì a riprendersi, chinandosi a sua volta sul giovane. Gli tastò il polso sentendo un leggero battito cardiaco. La cosa riuscì a dargli fiducia. Prese il telefono di servizio e digitò il numero 118.
CAPITOLO 1
Torino, carcere delle Vallette, 4 novembre 2017
La pioggia cadeva fitta su tutta la provincia da ormai tre giorni. In città il livello del fiume Po aveva raggiunto il livello di guardia, destando preoccupazione tra i torinesi. Alcuni ponti erano già stati chiusi a scopo precauzionale, presidiati da pattuglie della Polizia Municipale.
Achille Mandelli varcò il cancello della Casa circondariale, comunemente nota come carcere delle Vallette, dal nome dello storico quartiere della città. Camminando con le mani sprofondate nelle tasche di un impermeabile nero, Mandelli giurò a se stesso che non sarebbe mai più tornato in prigione. Piuttosto si sarebbe ammazzato.
Nove anni e qualche mese passati in una cella sovraffollata, circondato da personaggi poco raccomandabili. Non passava giorno senza che pensasse al ragazzo che aveva ucciso. Si chiamava Abdel. Aver spezzato una vita lo lacerava dentro ma riteneva di aver pagato fin troppo per ciò che era successo.
Quel maledetto giorno i Carabinieri accorsi sul posto l’avevano fermato. Aveva ammesso subito di avere colpito Abdel, che era stato trasportato urgentemente in ospedale in stato di coma. Dopo otto giorni il ragazzo era morto e Mandelli era stato arrestato. Al processo, la difesa aveva puntato sulla legittima difesa ma il coltello non era mai stato trovato. Gli amici di Abdel avevano confermato di avere provocato il capotreno ma avevano tutti negato che fosse stata estratta un’arma da taglio. L’accusa per Mandelli era stata pesante. Omicidio preterintenzionale, dieci anni di condanna. Aveva passato il suo tempo cercando di farsi notare il meno possibile, intrattenendo pochi rapporti con gli altri detenuti. Aveva seguito un corso per imparare il lavoro di elettricista. La sua condotta era stata impeccabile, cosa che gli aveva fatto guadagnare uno sconto sulla pena.
Mandelli si fermò per respirare una boccata di aria fresca. Sollevò la testa verso il cielo e chiuse gli occhi. Grandi gocce di pioggia picchiettavano sul cranio rasato a zero appena il giorno prima. Piccoli rivoli d’acqua scivolavano sulle lenti degli occhiali e sul pizzetto ben rasato. Finalmente riassaporava la libertà, bagnata ma pur sempre libertà. Riprese a camminare calpestando una pozzanghera che si era formata sull’asfalto, tanto era già bagnato fradicio. Proseguì attraverso il parcheggio riflettendo sulla nuova vita che stava iniziando. Non aveva né un lavoro, né una casa. Non aveva neanche nessuna relazione sentimentale. Prima di finire in carcere aveva frequentato per alcuni mesi una sua coetanea. Quando era finito dentro, il rapporto ancora fragile si era spezzato definitivamente. Per fortuna aveva ancora i genitori che, durante tutti quegli anni, avevano continuato a sostenerlo. Vivevano in un piccolo paese in provincia di Milano. Sarebbe stato per un po’ di tempo da loro, in attesa di trovare un lavoro e un alloggio dove stare. Ovviamente sapeva che non sarebbe stato facile, in pochi sarebbero stati disposti ad assumere un uomo condannato per omicidio. Nonostante tutto Mandelli era ottimista, forse anche per merito della libertà appena ritrovata.
Superato il parcheggio si ritrovò su un marciapiede che affiancava uno stradone a due corsie. Lo percorse per un centinaio di metri fino a quando individuò la fermata di un autobus. Suo padre si era offerto di venirlo a prendere fuori dal carcere ma lui si era opposto. Con i quaranta euro che aveva in tasca poteva benissimo raggiungere la casa dei genitori usando autobus e treni.
Acquistò un biglietto per l’autobus in una vicina edicola, stupendosi di quanto fosse aumentato il prezzo in quei nove anni. Dopo un quarto d’ora, un moderno autobus alimentato a metano si fermò davanti a lui. Salì a bordo salutando educatamente l’autista, che borbottò qualcosa di poco comprensibile in risposta. Mandelli obliterò il biglietto senza riuscire a trattenere un leggero sorriso. Era un gesto semplice e quotidiano ma che per lui, rinchiuso quasi dieci anni in una cella, sapeva di libertà. Il pullman era mezzo vuoto ma verso il fondo c’erano una dozzina di ragazzini e ragazzine stravaccati che si davano da fare per creare disturbo. Il loro vociare sboccato rimbombava in tutto il mezzo. Alcuni di loro appoggiavano delle scarpe sporche e bagnate di pioggia sui sedili. Mandelli ebbe un brivido di rabbia, tentato di andare a dire loro qualcosa. Lo fece desistere il ricordo di cosa era successo l’ultima volta.
Si sedette accanto a un’anziana signora salutandola.
Buongiorno anche a lei giovanotto
rispose la donna presa in contropiede. Di certo non si aspettava che quell’omaccione dal cranio rasato si rivelasse una persona educata.
L’autobus ripartì immettendosi nel traffico. Dopo un paio di minuti le narici di Mandelli captarono un odore dolciastro che aveva sentito altre volte, specialmente in carcere. Marjuana. Si voltò e vide uno dei ragazzini che fumava una canna. Sorrideva come un idiota. L’ex capotreno ebbe un altro brivido di rabbia. Incrociò lo sguardo con l’anziana signora che scrollò desolata le spalle.
Che possiamo farci. Questi ragazzi non sanno cos’è il rispetto
affermò.
Vero, ma si può sempre tentare di insegnarglielo.
Si alzò di scatto e si raggiunse il fondo del pullman. I ragazzi smisero per un attimo di fare baccano. Il ragazzetto con la canna squadrò il nuovo arrivato.
Beh, vuoi una foto?
chiese con tono arrogante. I suoi amichetti risero di gusto.
Puoi spegnere quella schifezza e mettere i piedi giù dal sedile, per favore?
Eh, fammi pensare… No, direi di no. Fatti i cazzi tuoi.
Giù altre risate.
Era la classica goccia che fa traboccare il vaso. Il volto di Mandelli diventò una maschera di rabbia, gli occhi ridotti a due fessure. Alcuni ragazzini smisero di ridere intimoriti. Con un gesto fulmineo afferrò la mano del ragazzino e la strinse in una morsa d’acciaio strappandogli un gemito di dolore. Afferrò la canna con la mano libera e la gettò da un finestrino che era stato leggermente aperto per fare uscire il fumo.
Senti un po’, testina di cazzo, forse non sai da dove sono appena uscito. In questo caso te lo dico io: carcere delle Vallette. Ti consiglio di imparare a non rompere i coglioni alle persone sbagliate.
Lasciò la mano del ragazzino e per dieci secondi buoni nel pullman non volò una mosca. Il bulletto tirò giù i piedi dal sedile senza dire una parola, subito imitato dagli alcuni amici.
Ecco, così va bene.
Mandelli tornò al suo posto e trovò l’anziana signora con gli occhi sbarrati, sul volto un misto tra riconoscenza e paura.
Le sorrise. Ogni tanto ci vuole qualcuno che ricordi le buone maniere a questi ragazzi.
La donna annuì senza riuscire a rispondere mentre il pullman proseguiva la sua corsa.
Napoli, clinica privata, 5 novembre 2017
La camera assomigliava a quelle che si possono trovare in qualsiasi ospedale. Indubbiamente il fatto che la struttura fosse privata presentava alcuni vantaggi. Ad esempio la stanza era ampia e occupata da una sola paziente, il bagno era confortevole ed arredato con gusto, la vista dalla finestra offriva un parco ben curato. Per il resto poco differiva dagli ospedali. Un letto reclinabile, una serie di macchinari medici, il bianco come colore dominante. Anche l’atmosfera cupa e triste era la stessa che si può provare quando sul letto si trova una persona malata di cancro in fase terminale. In particolare se si tratta della propria figlia.
Il senatore Pasquale De Rosa, seduto su una sedia, osservava il respiro regolare della sua unica figlia Anna Maria. Vedeva il torace sollevarsi e abbassarsi, temendo a ogni respiro che potesse essere l’ultimo. Avrebbe dato la sua vita per salvarla, se fosse stato possibile. Aveva anche pregato Dio con intensità perché sua figlia fosse risparmiata ma ormai ci voleva solo un miracolo, ed era sicuro che non si sarebbe mai realizzato. Sapeva di non essere uno stinco di santo, in oltre quarant’anni di politica ne aveva combinate di cotte e di crude. Sapeva anche che le generose donazioni elargite alla Chiesa non l’avrebbero aiutato, erano servite solo a lavarsi la coscienza.
Un movimento sul volto di Anna Maria. Gli occhi della donna si aprirono lentamente e con fatica. De Rosa avvicinò la sedia al letto e prese la pallida mano della figlia.
Papà.
Come ti senti, piccola mia?
Sto morendo.
Non dire questa cosa.
Invece la dico. Devi abituarti all’idea. Ed è stata colpa tua.
Al senatore per poco non venne un colpo.
Ma che cosa dici, figlia mia?
chiese aggrottando le ispide sopracciglia bianche.
Sto morendo per gli accordi che hai fatto con la camorra in passato. Per i rifiuti che hanno sepolto nel terreno.
Non è vero, io non ho mai fatto accordi con la camorra
protestò De Rosa.
Non mentirmi, perché ormai so tutto.
Alcuni violenti colpi di tosse scossero il corpo della donna. Il padre le fece una carezza sulla fronte sudata.
Circa quindici anni fa la camorra ha sepolto dei rifiuti tossici intorno alla zona in cui abito
riprese Anna Maria.
D’accordo, è vero che ho fatto degli accordi con la camorra, ma i luoghi scelti erano sempre lontani da dove viviamo noi
ammise il senatore sistemandosi una bianca ciocca di capelli.
Che differenza fa? Altre persone hanno autorizzato al tuo posto. Tu hai comunque sulla coscienza le morti di tanta gente innocente. Per me è come se fossi stato tu a uccidermi.
La voce di Anna Maria era ormai udibile solo a pochi centimetri di distanza dalla sua bocca.
Ti prego, non dire così
supplicò De Rosa, mentre lacrime salate cominciavano a bagnare il suo volto rugoso scivolando sui baffi bianchi ben curati. Aveva appreso da alcuni mesi che erano stati fatti degli accordi a sua insaputa per seppellire dei rifiuti proprio nella zona in cui abitava anche sua figlia. Se solo l’avesse saputo non le avrebbe mai comprato la casa in quel luogo. Si era infuriato molto con i responsabili ma non era servito a nulla, perché il danno ormai era