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Tacchetti in ferro - #destini
Tacchetti in ferro - #destini
Tacchetti in ferro - #destini
E-book394 pagine5 ore

Tacchetti in ferro - #destini

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Info su questo ebook

Quattro giovani americani.

Quattro anime determinate.

Quattro destini diversi.

Un unico grande sogno.
LinguaItaliano
Data di uscita10 mar 2016
ISBN9788892564053
Tacchetti in ferro - #destini

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    Anteprima del libro

    Tacchetti in ferro - #destini - Riccardo Riccucci

    Riccardo Riccucci

    Tacchetti in ferro - #destini

    UUID: 13c24f22-16d8-11e6-8e71-0f7870795abd

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write (http://write.streetlib.com)

    un prodotto di Simplicissimus Book Farm

    Indice dei capitoli

    Prefazione

    Michael

    Noah

    John

    Daniel

    Scintille

    Cosa stai facendo Noah?

    Un ragazzo fantastico

    Buone azioni

    Tempo di rivalsa

    Un tipo solitario

    Occasioni particolari

    Berlin meine liebe

    Strani tremori

    Emily nuda

    Impeto e Tempesta

    Paura

    Dura realtà

    Un aiuto divino

    Grandi opportunità

    Carattere ribelle

    Le verità di Daniel

    Il mondo addosso

    Gli occhi fanno quel che devono

    Una piroetta della dea bendata

    Salto di qualità

    Un pericoloso azzardo

    Addio Neil Logan

    Oh mio Dio, Francisco!

    Occhi chiusi

    Oscurità totale

    Prefazione

    Tacchetti in Ferro - #destini

    di Riccardo Riccucci

    Questo libro è un’opera di fantasia.

    Personaggi, nomi, luoghi ed avvenimenti sono frutto esclusivamente dell’immaginazione dell’autore e qualsiasi somiglianza con luoghi, eventi o persone realmente esistiti, è puramente casuale.

    La vita sceglie la musica,

    noi scegliamo come ballarla

    (John Galsworthy)

    Michael

    L’autobus arrancava tra gli alti palazzi bianchi, come un’anguilla, tozza e scura, schivato da automobili e motorini che gli guizzavano accanto in un’isterica corsa. L’uomo alla guida, in un inglese stentato ma efficace, gli aveva confidato che dall’aeroporto di Barajas al centro della città, sarebbero occorsi appena quaranta minuti.

    Michael era seduto dal lato del finestrino e guardava il mondo esterno attraverso i suoi occhi azzurri. La sua mente era in fermento, combattuta tra il lasciarsi travolgere dalla bellezza di quelle immagini e il rimanere concentrata su quello che sarebbe accaduto nei giorni successivi.

    Emily sedeva al suo fianco.

    In volto le aleggiava un radioso sorriso, che quasi permetteva alla sua bocca, così delicata e perfetta, di congiungersi alle orecchie e negli occhi le brillava una luce intensa, colma di speranza. I capelli biondi e lucenti le accarezzavano la fronte, ricadendo morbidi sulle spalle.

    Era bellissima nei suoi diciotto anni.

    Erano coetanei e si erano conosciuti alla scuola superiore, a Los Angeles, circa quattro anni prima. Michael si era subito sentito a suo agio con lei. Non era emersa quella timidezza che lo impacciava sempre nei rapporti con le altre persone, specialmente con le ragazze.

    In verità, era stata Emily a prendere l’iniziativa.

    Una mattina, al primo anno, Michael se l’era ritrovata nel posto accanto al suo, poco prima della lezione di matematica.

    «Ciao! Io sono Emily! Ti dispiace?»

    Michael era rimasto spiazzato da una presentazione tanto diretta, ma con grande sorpresa era riuscito a risponderle senza esitazione.

    «Assolutamente no, anzi...!»

    Non aveva potuto terminare la frase perché il professore, entrato in aula ormai da qualche minuto, aveva iniziato la lezione, ma quella sua risposta sospesa aveva avuto un bell’effetto su Emily, che aveva sorriso compiaciuta.

    Ora, a distanza di molto tempo, la osservava innamorato, ancora una volta seduta al suo fianco, anche se in un luogo lontanissimo da quell’aula di scuola.

    L’effetto su di lui, era sempre lo stesso.

    Mano a mano che si avvicinavano al centro della città, l’autobus si andava riempiendo sempre più di passeggeri: alcuni parlavano tra loro, altri erano intenti in una telefonata, ma la maggior parte era assorta nei propri pensieri, giocherellando con lo smartphone in attesa della prossima fermata. Erano vicinissimi eppure erano molto distanti gli uni dagli altri, ciascuno immerso nelle proprie alienanti riflessioni.

    Un uomo, seduto di fronte a lui, scese alla fermata di Plaza Mayor, lasciando scivolare un quotidiano a terra. Il ragazzo lo raccolse. Conosceva solo alcune sporadiche parole di spagnolo, imparate da autodidatta poco prima di partire dagli Stati Uniti. Non riuscì a decifrare quasi nulla.

    In alto era riportato: Madrid, 05 augusto 2019.

    Questo, almeno, era riuscito a capirlo.

    «Pensi a qualcosa di bello?» chiese Michael, fissandola con i suoi occhi carichi di amore.

    Emily si voltò senza perdere quella sua espressione appagata, come se stesse lì con gli occhi, ma da tutt’altra parte con la mente.

    «Come fai a sapere che sto pensando a qualcosa di bello?»

    «Semplice, ti leggo nella mente!»

    «Addirittura?» disse lei stupita.

    «È un dono di natura!» si pavoneggiò il ragazzo.

    «Beh… è vero!»

    «Cosa? Il mio dono di natura?»

    «No, scemo! È vero che sto pensando a qualcosa di bello!»

    «Allora stai pensando a me?»

    Lei rise contenta e lo baciò, lasciandogli un’impronta di rossetto sulla guancia.

    «Perché me lo chiedi? Non sapevi leggere nella mente?»

    «Beh… non è che riesca a vedere proprio tutto!»

    Emily sorrise ancora. Era il ritratto della spensieratezza.

    «Pensavo al passato, Mike! Pensavo al mio passato!»

    Si fermò come per trovare le parole più appropriate.

    «E…?» intervenne ansioso il ragazzo, trovando singolare che sorridesse al pensiero dei suoi ultimi anni a Los Angeles.

    «Pensavo che quel passato non esisterà mai più per me! D’ora in poi voglio un futuro diverso! Oggi inizia una nuova vita!».

    Non aggiunse altro e si voltò di nuovo a fissare la strada. Ora il sorriso era sparito, ma gli occhi le brillavano più di prima, invasi da una luce diversa. Quella che Michael vedeva non era più speranza, ma assoluta determinazione.

    La corsa dell’autobus terminò secondo i termini previsti dal conducente e i due giovani si ritrovarono a terra con le valige al seguito. Il sole era alto nel cielo e la temperatura rimandava alle sensazioni di tepore di Los Angeles nei giorni migliori.

    Madrid, però, era molto lontana da Los Angeles.

    Una lontananza non solo geografica. Era un distacco ideologico, una separazione netta. Michael sapeva che d’ora in avanti molte cose sarebbero cambiate nella sua vita: già sentiva che gli sarebbe mancata quella sicurezza che solo la sua casa e la sua famiglia potevano infondergli.

    Ora sarebbe stato solo.

    C’era Emily certo, ma lei non sembrava provare le sue stesse emozioni, né la sua stessa preoccupazione per ciò che li avrebbe attesi in quella nuova città. Lei vedeva solo il bello di quella nuova avventura e Michael avvertiva tutta la responsabilità addosso.

    «Muoviamoci, dai! Dobbiamo trovare un posto dove sistemarci!» la incalzò il ragazzo con apprensione.

    «Te l’ho ripetuto cento volte!» sbottò Emily «Questa ansia ti consumerà prima o poi!» La ragazza sembrava molto sicura di sé «Non ti devi preoccupare! Troveremo un ostello a buon prezzo e nel giro di tre o quattro giorni avremo il nostro piccolo appartamento! Andrà tutto bene Michael, fidati!»

    La fissò allontanarsi ad ampie falcate verso una meta ancora sconosciuta. Fece un sospiro e si mosse anche lui.

    Avrebbe tanto voluto avere la sua stessa sicurezza.

    La città, nelle stradine che si snodavano sinuose nella zona centrale, brulicava di persone: due giovani che camminavano avvinghiati, incrociarono il passo di Michael proprio mentre, dalla parte opposta, sbucava a passo svelto un uomo sulla trentina, in abito nero e cravatta, tenendo stretta in mano una ventiquattrore, probabilmente in ritardo per una riunione. Erano da poco passate le undici e il caldo iniziava a farsi sentire, mentre i vestiti si impregnavano di sudore e si appiccicavano alla pelle.

    Arrivarono all’altezza di una stretta viuzza, assai distante da Plaza Mayor. Emily notò l’insegna sbilenca di un ostello e si precipitò in quella direzione. Michael la seguì, accelerando il passo per non perdere contatto.

    Giunto di fronte l’entrata, si bloccò.

    L’insegna, consunta e scolorita, poteva essere considerata addirittura una bella presentazione del locale, se confrontata con l’interno: appena dietro la porta, si apriva un atrio stretto ed angusto, con il pavimento in legno usurato da molti anni di calpestio e annerito da pochi lavaggi; in fondo, quasi appiccicato alla parete, si ergeva uno spoglio bancone sgraziato, con due sedie, secche e scurite, ammassate alla meglio in un angolo.

    Michael era scioccato da tanto luridume.

    Il proprietario, un uomo basso e tarchiato sulla cinquantina, si presentò dopo qualche minuto. Indossava una maglietta sudicia che, dal bianco, ora aveva acquisito un colore non ben definito, tendente al beige. Era troppo stretta per la sua mole. Sudava copiosamente anche da fermo.

    Guardò la ragazza, appoggiata al bancone, sorridente e in trepidante attesa, poi spostò lo sguardo su Michael, pallido e sgomento a cavallo dell’entrata.

    «O entri, o esci! Non puoi restare bloccato lì! Fai entrare il caldo!» gli urlò scontroso in lingua spagnola.

    Il ragazzo non fece una mossa.

    Intuendo che il giovane non avesse capito nemmeno una parola, l’uomo sbuffò ed imprecò prima di ripetere lo stesso avvertimento, questa volta emettendo suoni incomprensibili che avevano un vago retrogusto di lingua inglese. Michael, con un rapido movimento, si spostò dalla porta ed entrò, trascinandosi dentro i bagagli, che badò bene di non appoggiare a terra.

    «Vorremmo una camera matrimoniale! Quanto costa?» irruppe Emily eccitata. Cercò di esprimersi lentamente e con decisione, per attirare l’attenzione dell’uomo e farsi capire.

    «Venti euro per una notte e cento euro per una settimana!» rispose l’altro alla sbrigativa «C’è un bagno unico per piano, in comune con gli altri ospiti!»

    Emily si voltò verso Michael.

    Il ragazzo sembrava implorarla con lo sguardo, affinché rifiutasse e si allontanasse più possibile da quella topaia. Ma conosceva quell’espressione. Lei si girò di nuovo verso l’uomo ed esclamò sicura: «Bene! La prendiamo per una settimana!»

    «Cazzo!» pensò Michael, lasciando trasparire tutto il suo disappunto in una smorfia, non accorgendosi che il proprietario lo stava fissando ed aveva colto quel gesto insofferente.

    Doveva parlare immediatamente con Emily e chiarire alcuni punti chiave della loro permanenza in Spagna: prima di prendere le decisioni più importanti avrebbero dovuto confrontarsi. Anzi, lei probabilmente necessitava di supporto per qualsiasi decisione, vista la sua capacità di valutazione.

    Michael tiro fuori il passaporto in modo riluttante e attese che l’uomo finisse di compilare il foglio del check-in. Quindi ricevette le chiavi.

    «Le camere sono al piano di sopra! L’ascensore si è rotto due anni fa!» bofonchiò, in un inglese che andava leggermente migliorando. Chissà, forse col tempo, avrebbe potuto anche farci una bella chiacchierata.

    Percorrendo le scale che portavano alla camera, Michael si stava preparando al peggio: ormai era sicuro che avrebbe trovato l’essenza delle nefandezze umane in quelle stanze.

    Aprì la porta e rimase allibito.

    La camera era uno splendore.

    Era ammobiliata con gusto e qualcosa faceva intendere che pochissimi ospiti avevano alloggiato lì in passato, probabilmente scoraggiati dall’impatto con la reception, ma era molto luminosa e ordinata.

    E poi, era pulita.

    Emily sembrava invasata di felicità, tanta era l’eccitazione che la pervadeva e parlava a velocità supersonica senza alcun nesso logico.

    Michael la osservava ed il nervosismo provato fino a pochi minuti prima per quella decisione avventata, si smorzò in un attimo e si trasformò in un profondo sentimento di amore, misto a tristezza: era chiaro che Emily volesse affrontare la chance in Spagna con grande determinazione. Voleva lasciarsi alle spalle al più presto tutto quello che aveva patito a Los Angeles, in particolare negli ultimi anni.

    Ce l’aveva scritto nello sguardo.

    Avrebbe fatto di tutto per un nuovo futuro.

    Dormirono abbracciati quella notte.

    Michael in verità non dormì molto.

    Aveva migliaia di pensieri in testa e domande a cui non riusciva ancora a dare una risposta. Restò così, in silenzio, per molte ore, tenendosi stretta al petto quella bella ragazza bionda che riposava serena ed incosciente al suo fianco.

    Poteva essere fiducioso, ma non era spensierato.

    Dovevano al più presto trovare un abitazione più consona e regolarizzare la loro posizione di soggiorno, dopo di che, la parte più facile poteva considerarsi fatta.

    Allora avrebbero potuto affrontare quella più complicata.

    Dare un senso al loro viaggio in Europa.

    Noah

    L’aereo della British Airwais sarebbe atterrato all’aeroporto di Heathrow alle dodici e dieci circa: il lungo viaggio era ormai quasi concluso e Noah non stava più nella pelle.

    Sul sedile di fianco a lui, Matt dormiva placidamente: era talmente abituato agli aerei, che ormai li considerava quasi la sua prima casa. Ad un tratto, risuonò, come da un’altra dimensione, la voce del pilota che invitava i passeggeri ad accomodarsi sui sedili e ad allacciare correttamente le cinture di sicurezza. Si stavano accingendo all’atterraggio.

    La manovra si concluse nel migliore dei modi e i due americani, raccolti i bagagli in tutta fretta, si ritrovarono a camminare a passo celere all’interno dell’immenso aeroporto. Un dirigente del London Wolves F.C. sarebbe già dovuto essere lì ad attenderli.

    Continuarono a seguire le linee guida verso l’uscita per almeno una decina di minuti, finché giunsero all’ultima porta prima del grande atrio centrale: un uomo sulla cinquantina, li stava aspettando impaziente.

    «Molto piacere Noah, io sono Alan Swiffer! Sono un dirigente della tua nuova squadra!»

    L’uomo salutò informalmente Matt.

    «Buon… giorno, signore!» rispose il ragazzo balbettando, bloccato dalla sua solita timidezza.

    «Andiamo, forza! La strada per il centro sportivo è piuttosto lunga! Faremo conoscenza in auto!»

    Noah non parlava, ma il suo cuore palpitava agitato mentre seguiva quell’uomo nei meandri dell’immenso aeroporto londinese. Fortuna che Matt era sempre al suo fianco.

    Il London Wolves F.C. Training Center sorgeva una decina di miglia fuori Londra e si estendeva su quasi trenta ettari di terreno, attraversato in lungo e in largo da sentieri in erba, ghiaia e asfalto, che collegavano le diverse strutture presenti. Al suo interno c’erano cinque campi da calcio in erba naturale di dimensioni regolamentari più altri due ridotti. Al coperto c’erano due campi da tennis, una piscina ed altri quattro edifici adibiti a struttura residenziale per i giocatori, tra cui aule per le lezioni, una sala mensa che avrebbe fatto invidia a qualsiasi college statunitense, spogliatoi per gli atleti, comprensivi di sala pesi e locali medici per fisioterapia e riabilitazione ed un bagno turco. Era una città a sé stante, costata alla società più di dieci milioni di sterline.

    L’automobile guidata dal signor Swiffer, oltrepassò il cancello e Noah si trovò di fronte quello spettacolo incredibile: era talmente entusiasta di ciò che stava vedendo che aveva quasi difficoltà a riprendere fiato.

    Alan spense il motore davanti agli alloggi.

    «Scendi qui figliolo ed entra in quell’edificio! Troverai alcuni impiegati che prenderanno le tue generalità e ti assegneranno una stanza!»

    Il ragazzo guardò Matt, come per ricevere una conferma.

    L’uomo annuì e lo salutò con affetto.

    «Grazie mille, signore!»

    «Spero che tu abbia ragione, Matt!» esclamò Alan non appena Noah fu ad una certa distanza «Mi pare troppo mingherlino per giocare a calcio in questo maledetto Paese!»

    Matt non rispose. Non c’era molto da dire se non sperare, con tutto il cuore, che la sua intuizione fosse stata corretta. Solo il campo avrebbe dato le risposte necessarie.

    Il ragazzo ricevute le chiavi della sua camera, salì le scale portandosi dietro il pesante bagaglio: la stanza era ammobiliata in maniera sobria ed essenziale e sembrava piuttosto confortevole a prima vista.

    Noah si richiuse la porta alle spalle.

    Il lungo viaggio l’aveva provato. Si gettò a peso morto sul letto accanto alla finestra, da dove poté osservare ancora meglio ciò che lo circondava: vide due armadi a muro larghi poco più di un metro, un altro letto singolo ed una scrivania a due posti.

    Il ragazzo fece una smorfia, come se la semplice visuale del tavolo dove avrebbe dovuto trascorrere il tempo a studiare, gli desse fastidio. Prese in mano il foglio con il programma settimanale, che gli avevano consegnato di sotto ed iniziò a leggere.

    Ore 08:15 sveglia

    Ore 08:40 colazione

    Ore 09:00 lezioni in aula

    Ore 12:00 pranzo

    Ore 13:30 lezioni in aula

    Ore 16:30 allenamento

    Ore 19:00 cena

    Noah fu colto da un attacco d’ansia.

    Di allenamenti ne avrebbe potuti fare anche tre a giorno ed era impaziente di confrontarsi con i nuovi compagni di squadra, ma tutte quelle ore di lezione lo spaventavano non poco. A Denver, la scuola non era mai stata in cima ai suoi interessi e spesso non disdegnava saltare le lezioni, andandosene in giro con gli amici a bighellonare.

    Ma qui, sapeva che non poteva permetterselo.

    Il signor Swiffer era stato molto chiaro durante il tragitto in macchina: i risultati calcistici sarebbero andati di pari passo con quelli scolastici. Se questi ultimi non fossero stati all’altezza delle aspettative, la possibilità di avere un contratto da giocatore professionista sarebbe svanita e lui sarebbe stato rispedito a casa.

    Si mise a pensare alla sua famiglia a Denver.

    Gli tornò in mente, in particolare, sua sorella Alison, che gli mancava da morire. Se fosse stata lì, gli avrebbe fatto una bella ramanzina esortandolo a trovare il modo di impegnarsi anche nella scuola, perché era quello che doveva fare.

    Noah non voleva assolutamente deluderla.

    In quel momento, desiderò ardentemente prendere il telefono e chiamare i suoi genitori ma sapeva che se l’avesse fatto, avrebbe solo aumentato il senso di nostalgia che lo attanagliava. Non poteva assolutamente lasciarsi andare a questo tipo di debolezze. Doveva essere forte, altrimenti non avrebbe mai raggiunto il suo sogno.

    Una cosa, però, se la sarebbe potuta permettere.

    Avrebbe scritto alla sorella una lettera a settimana per raccontarle i suoi progressi calcistici ed i miglioramenti a scuola, così che potesse essere veramente orgogliosa di lui. Sì, quello non sarebbe stato un segno di debolezza.

    Di colpo, sentì aprire la porta.

    Un ragazzo più o meno della sua stessa età, non molto alto, scuro di carnagione e dalla corporatura esile, lo stava fissando incuriosito.

    «Ciao! Sono Francisco Velasco!» disse allungando una mano verso di lui.

    «Piacere, Noah Reyes! Primo giorno anche per te?»

    «Si, sono arrivato ora da Siviglia!»

    «Io sono di Denver!»

    «Ammazza! Un bel viaggetto?»

    «Eh si! Non sono venuto da solo! Con me c’è il mio procuratore!» rispose Noah.

    Hai già un procuratore?»

    La domanda di Francisco lo mise in imbarazzo.

    «No, no!» si affrettò a rispondere, non volendo dare un’idea sbagliata di sé «È più un amico di famiglia, diciamo! Mi ha dato una mano per il viaggio e per l’inserimento qui a Londra!»

    Francisco sembrò non fare caso al suo disagio.

    «Hai visto il programma delle attività settimanali?» disse quindi, ansioso di cambiare argomento «Qui non si scherza! È tutto organizzato al minimo dettaglio!»

    «Già!» rispose Francisco preoccupato «Più che altro mi spaventano le lezioni a scuola!»

    «Non me ne parlare!» disse l’americano, rincuorato di aver trovato un punto in comune.

    «Che ne dici se usciamo a fare un giro qua intorno?» disse Francisco «Voglio proprio capire quanto è grande questo posto!»

    «Ottima idea!»

    Noah era fiducioso. In poco, si stava già rendendo conto della situazione che stava vivendo: molti altri ragazzi come lui, della sua età e con i suoi stessi timori, avrebbero affrontato le sue stesse difficoltà e fatto i suoi stessi sacrifici. Non sarebbe stata una passeggiata di salute, ma ne valeva la pena.

    «Qui si decide tutto!» pensò.

    Guardò Francisco che lo precedeva lungo le scale.

    Avrebbero dovuto creare subito un forte spirito di collaborazione: adesso era lui la sua famiglia. Ci sarebbero stati momenti difficili e molti sacrifici da fare, ma almeno c’era qualcuno a cui appoggiarsi ed a cui chiedere aiuto in ogni momento.

    E poi chissà, un giorno ci sarebbe stata gloria per entrambi.

    Magari in uno stadio, di fronte a ottantamila spettatori.

    John

    La metro arrestò la sua corsa alla fermata Piazza di Spagna e John si incamminò, con lo zaino in spalla, lungo il tunnel sporco e maleodorante che dava sulla piazza omonima.

    Una mendicante di razza rom, con una borsa di stoffa a tracolla dalla quale usciva una piccola testa di bambino, gli si avvicinò tagliandogli la strada, con la mano protesa per chiedere qualche spicciolo. Aveva un cartoncino in mano, scritto in italiano e con una grafia illeggibile, che John non riuscì a leggere in quella frazione di secondo. Alzò veloce la mano per farsi scudo e allontanò la donna con un colpo secco che la fece quasi cadere. Lei, lo guardò di traverso in malo modo ed inveì in una lingua incomprensibile, ma ormai il ragazzo l’aveva oltrepassata, senza degnarla nemmeno di uno sguardo.

    John superò l’angolo del tunnel.

    Un ultimo passo e si immerse nella luce abbagliante.

    Ci mise qualche secondo a riprendere il pieno controllo della vista. La piazza straripava di persone: gente di ogni razza ed età che accalcava quasi ogni centimetro quadrato dello spazio disponibile. Alcuni erano seduti sull’imponente scalinata, altri fermi a fotografare le bellezze millenarie della Città Eterna, altri imboccavano Via del Babuino e Via Condotti, buttando una sbirciatina veloce alle vetrine delle griffe dell’alta moda. Anche un gelataio ambulante aveva il suo bel da fare per soddisfare le richieste dei clienti che si ammassavano esigenti davanti al suo carretto bianco e rosso.

    Era caldo a fine agosto, ma Roma era una meta ambita in ogni stagione.

    John si sentiva bene ed era ottimista.

    Aveva mille motivi per essere lì, ma in cuor suo sapeva che solo uno avrebbe fatto veramente la differenza: doveva diventare un calciatore professionista.

    Vide, ai margini della strada, una bottega per il cambio delle valute ed entrò. Doveva cambiare quel piccolo gruzzolo di dollari che era riuscito a racimolare negli ultimi mesi a New York.

    «Buongiorno!» disse l’uomo, vedendolo entrare.

    «Parla inglese?»

    John aveva bisogno di sentirsi a suo agio nella discussione. Non voleva assolutamente essere fregato.

    «Ma certo!» rispose l’altro in modo affabile, esibendo un sorriso esagerato «Come posso aiutarla?»

    «Vorrei cambiare il mio denaro!»

    «Bene! È venuto nel posto giusto!»

    John odiava quel genere di persone, compiacenti ed esageratamente disponibili. Non si fidava di loro.

    Non replicò. Non era lì per fare amicizia.

    «Com’è il tasso di cambio?» chiese sospettoso.

    Sapeva che alcuni cambiavalute erano particolarmente disonesti e si approfittavano dell’inesperienza dei turisti per praticare tassi altamente sfavorevoli. Lui non avrebbe fatto quell’errore.

    «Il tasso attuale è favorevole al dollaro statunitense, però la avverto che dovrà pagare delle commissioni aggiuntive!»

    L’uomo continuava a sorridere.

    John gli avrebbe voluto spaccare il naso con un pugno. Avvertì un principio di collera montargli alla testa ma cercò di calmarsi; era comunque da apprezzare l’onestà che aveva avuto nell’informarlo. Le commissioni aggiuntive avrebbero annullato il maggior valore derivante dal cambio favorevole e il rapporto tra le due valute sarebbe scivolato quasi ad uno a uno. In ogni caso, non aveva altra scelta e da un’altra parte, forse, avrebbe ricevuto condizioni peggiori. Decise di effettuare il cambio.

    Uscì da quella piccola bottega e contò i suoi soldi.

    Aveva quasi mille e cinquecento euro.

    Camminò per un bel pezzo allontanandosi dal centro storico e si immise in una via che sembrava potesse fare al caso suo. C’erano negozi ed uffici da ambo i lati della strada, intervallati da ampie autorimesse sotterranee, che evidenziavano le caratteristiche residenziali e commerciali della zona. Poco più avanti, notò l’insegna di un hotel a tre stelle. A giudicare dall’aspetto esteriore, molto sobrio e senza fronzoli, sembrava adatto alle sue esigenze e soprattutto alle sue tasche. Passò davanti all’ingresso con disinvoltura, buttando un occhio all’interno, senza farsi vedere. Alla reception era seduta una giovane ragazza più o meno della sua età, anche lei molto easy, come la struttura che gestiva.

    Il fatto che ci fosse una ragazza, giocava a suo favore.

    «Ciao!» esordì John in inglese.

    Lei alzò lo sguardo e rimase di sasso.

    Di fronte, si trovò un ragazzo di una bellezza indescrivibile, alto più di un metro e novanta, carnagione scura, occhi verdi e freddi come l’acqua dei laghi alpini, con spalle possenti e muscolose.

    La stava fissando.

    A fatica riuscì a mettere assieme un po’ di fiato.

    «Sì… sì certo! Posso aiutarla?»

    «Parli inglese?»

    «Abbastanza!»

    «Il tuo inglese va più che bene!» disse John, tirando fuori il suo sorriso migliore e strizzandole l’occhio «Credevo che questa città fosse famosa per la bellezza dei suoi monumenti, non per quella delle sue donne!»

    La ragazza cambiò colore diverse volte prima di aprire bocca e formulare una mezza risposta, balbettando.

    «Ehm … grazie!»

    «Sono appena arrivato e vorrei stabilirmi in città! Cercavo una camera per alcune notti!»

    «Ne abbiamo disponibili ancora un paio singole! Sono quindici euro a notte, ma se resta per almeno una settimana posso farle lo sconto! Se le fa piacere…!»

    Era visibilmente scossa da quella presenza, ma John non aveva alcuna intenzione di far valere il suo charme per approfittarsi di lei; sperava solamente di poter avere un buon trattamento, magari la camera a credito, pagando un anticipo e saldando il resto mano a mano che fosse riuscito a guadagnare qualcosa. Aveva bisogno di tempo.

    «Avrei una richiesta!» chiese gentilmente.

    «Certo!»

    «Vorrei poter pagare la stanza al termine della settimana!»

    Decise di essere diretto. Era entrato in confidenza con la ragazza e voleva essere sincero con lei.

    «Sto cercando un lavoro e non ho molti contanti! Tra l’altro mi servirebbero per mangiare! Che ne pensi, si può fare?»

    Lei lo squadrò esitante da capo a piedi.

    Non aveva motivo di fidarsi di un perfetto sconosciuto, ma qualcosa la spingeva a dargli credito. Forse le spalle ed i pettorali.

    «Di solito non facciamo credito ai clienti! Sai, abbiamo paura di prendere qualche fregatura!»

    «Lo immagino! Magari ora posso darti un acconto! Poi salderò il tutto a fine settimana! Ti assicuro che ti puoi fidare!»

    La ragazza sembrava ancora titubante.

    John se ne accorse e si girò per andarsene.

    «Nessun problema!» le disse, afferrando la maniglia della porta per uscire.

    «Una soluzione ci sarebbe…! Se ti va bene, puoi lavorare qui in hotel! Mio padre ha bisogno di due braccia in più! È l’unica garanzia che posso avere per fidarmi di te!»

    John la fissò dritta negli occhi.

    La ragazza spostò lo sguardo imbarazzata.

    «Per me possiamo iniziare anche subito!»

    Non poteva sperare di meglio. Aveva risolto il problema dell’alloggio e con il lavoro avrebbe potuto pagarsi anche il vitto per un po’ di tempo.

    «Ok allora! Ne parlerò a mio padre appena torna! Intanto ecco le chiavi!»

    Salirono le scale insieme, fino alla camera. Lui portava le borse, quindi fu la ragazza ad aprirgli la porta. Lasciò le chiavi appese, poi si allontanò a passo svelto verso la reception. Prima di sparire si voltò di nuovo.

    Aveva un sorriso malizioso e gli occhi furbi.

    «Comunque, se ti può interessare, mi chiamo Francesca!»

    John sistemò con cura le sue cose nella minuta camera e mangiò l’ultima metà di un sandwich che gli era avanzato dal viaggio. Si allungò sul letto e percepì immediatamente la comodità del materasso. Si sentiva a pezzi e probabilmente gli sarebbe sembrato comodo anche il cemento.

    Chiuse gli occhi.

    Doveva riuscire a placare i brutti pensieri che rimbalzavano nella sua mente e magari dormire un po’. Le palpebre erano serrate e il suo corpo si era completamente rilassato, ma i demoni continuavano a tormentarlo: provava ancora una rabbia indescrivibile, per quello che era accaduto a New York solo qualche mese prima e gli apparve davanti il viso dolce della madre. Lei si era sempre sacrificata, amandolo fin quasi ad annullarsi ed ora lui ne sentiva forte la mancanza. Avrebbe dovuto ricompensare il suo amore e la sua dedizione. Sarebbe stata orgogliosa di lui.

    Con il passare dei minuti,

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