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Binari di sangue
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E-book593 pagine7 ore

Binari di sangue

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Info su questo ebook

È passato quasi un anno dall'Angelus di sangue. Il Vaticano sta cercando ancora di riprendersi da uno dei più sanguinari attentati della storia, avvenuto proprio tra le mura di casa. Quel giorno il mondo intero si accorse che il JOA, spietata e potente organizzazione terroristica, non era stata sconfitta quando era stato ucciso il suo leader Omar Abdallah Hassan. Una nuova testa è cresciuta sul mostro del JOA. Si chiama Samir ed ha riorganizzato le attività del gruppo terroristico. Dopo il successo dell'Angelus di sangue vuole mettere a segno un nuovo colpo, ancora più eclatante. Il suo obbiettivo è Enea Zanoni, politico emergente che ha fatto del nazionalismo e della xenofobia i suoi cavalli di battaglia. Nel progetto di Samir, insieme al politico, moriranno migliaia di persone. Un piano ben studiato ma che non ha previsto due incognite: Alex Torrisi, agente dell'intelligence vaticana e Nicholas Caruso, ex operatore del GIS dei carabinieri ed ex agente dei servizi italiani. Una nuova sfida sta per iniziare. Scene d'azione a raffica da leggere con il fiato sospeso...
LinguaItaliano
Data di uscita9 gen 2020
ISBN9788855390415
Binari di sangue

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    Anteprima del libro

    Binari di sangue - Giancarlo Ibba

    Alessandro Cirillo, Giancarlo Ibba

    Binari di sangue

    Edizioni Tripla E

    Alessandro Cirillo, Giancarlo Ibba, Binari di sangue

    © EEE - Edizioni Tripla E, 2020

    ISB: 9788855390415

    Prima edizione e-book

    Collana Adrenalina, n. 15

    EEE - Edizioni Tripla E

    di Piera Rossotti

    www.edizionitriplae.it

    Tutti i diritti riservati, per tutti i Paesi.

    Copertina di Irma Panova Maino.

    Questa è un’opera di fantasia: ogni riferimento a fatti o persone esistenti o esistite è da considerarsi casuale.

    Per Andrea,

    siamo sicuri che ti sarebbe piaciuto.

    Questi treni italiani hanno quasi l’andatura di un funerale americano.

    Henry James

    TITOLI DI TESTA

    Gialo (Libia), 24 gennaio 2020, ore 02.05

    La morte è la risposta a tutte le domande.

    Con questo pensiero nel cervello, l’uomo in camice bianco si portò la penna alla bocca e mordicchiò il cappuccio di plastica. Non era certo un sentimentale, però, stare lì a osservarli era uno strazio.

    Lo spettacolo davanti ai suoi occhi, infatti, era deprimente.

    Dieci uomini. Nudi. Impauriti. La testa rasata a zero con una lametta arrugginita. Chiazze di peluria scura spiccavano ai lati del cranio. Cinque avevano la carnagione più chiara, nordafricana. Esibivano gambe e braccia abbronzate, come se per giorni avessero indossato solo maglietta e pantaloni corti sotto il sole cocente del deserto. I piedi erano sporchi, piagati, coperti di vesciche. La pelle degli altri cinque era del color ebano tipico degli stati centrali. Dopo aver dato di matto per buona parte della giornata, adesso si erano calmati. Qualcuno stava in piedi, appoggiato con la schiena alle pareti spoglie. La maggior parte accovacciata negli angoli. Un paio sdraiati sul pavimento. Tutti avevano gli occhi annebbiati dall’eroina.

    Lo stesso sguardo delle bestie condotte al mattatoio.

    L’attesa del carnefice era quasi finita.

    Accigliato, il dottor Ismael Rashad tolse la penna dalla bocca e prese alcuni appunti frettolosi sulla cartella che stringeva in mano. Ricontrollò l’ora sullo smartphone e poi spostò la sua attenzione dalla grande parete di vetro rinforzato, dietro cui erano imprigionati i dieci uomini, per rivolgerla alla finestra aperta sul cortile centrale, dove si trovava la pompa del pozzo. Il macchinario, da un paio di settimane, produceva un cigolio preoccupante.

    Rashad lasciò cadere la sua cartella sulla scrivania, accanto alla lampada da lettura e si avvicinò alla finestra. Poggiò le mani sul davanzale, raddrizzò la schiena indolenzita dalla tensione accumulata e dal troppo lavoro, inalando una boccata di aria fresca e pulita. Sopra di lui, immensa, la cupola del cielo era piena di stelle.

    Una di quelle luci pulsanti, forse, è un satellite spia americano, rifletté Rashad. Sospirò. Non era affatto preoccupato. Le numerose precauzioni e contromisure prese dal suo padrone lo rassicuravano. Il complesso, sotto il limpido firmamento del deserto, era silenzioso a quell’ora. Guardie armate pattugliavano il perimetro della recinzione: un muro alto tre metri che formava un quadrato intorno all’edificio.

    Organizzare l’incontro nel cuore nero della notte era una stronzata, per quanto lo riguardava. Tuttavia, gli ordini erano ordini. E se voleva rivedere la sua famiglia, avrebbe dovuto obbedire senza sollevare alcuna protesta o critica. Quel test era inutile, lo sapeva, eppure le richieste del suo padrone andavano sempre soddisfatte. Per quanto crudeli. In ogni caso, ribellarsi era fuori discussione. Tra la sua morte e quella di perfetti estranei, la scelta era facile.

    Demoralizzato, Rashad si massaggiò le tempie con i pollici, tentando di allontanare un principio di emicrania. Il silenzio della sonnolenta cittadina fu disturbato dal rombo di un motore.

    Il padrone era in ritardo. D’altronde non era certo famoso per la sua puntualità. Sollevando una nuvola di polvere, subito dispersa dal vento, l’enorme fuoristrada frenò davanti al cancello. Le sentinelle si avvicinarono, armate di torce e degli immancabili fucili AK, per verificare l’identità dei passeggeri. Il controllo si concluse in breve tempo, senza intoppi: non era la prima volta che Farouk Benharti e i suoi truci bodyguard si presentavano alle porte del complesso. Il trafficante d’armi marocchino possedeva l’edificio, comprese le persone che ci lavoravano. Nonostante, o forse proprio grazie alla guerra al terrore, gli affari andavano a gonfie vele. Sia Stati Uniti che Russia si servivano delle sue competenze per fare arrivare armi in posti dove non potevano arrivare legalmente. In cambio, chiudevano un occhio sulle sue losche attività, rendendolo di fatto intoccabile. L’unica regola era niente armi ai terroristi, ma Benharti non era abituato a seguire ordini.

    Il cancello d’accesso stridette sulle guide e il fuoristrada ripartì, a bassa velocità, percorrendo il breve sterrato che separava il cortile dall’edificio a due piani con il tetto piatto. Da fuori sembrava un’abitazione, in realtà all’interno c’era un attrezzato laboratorio.

    Dalla sua posizione, le dita serrate al davanzale, Rashad seguì il percorso del veicolo e lo vide parcheggiare nei pressi di una palma dal fogliame più marrone che verde. Nella quiete della notte, udì gli sportelli sbattere. I fari si spensero e il borbottio del motore cessò.

    Quattro uomini scesero dal fuoristrada: alti e robusti, in completo nero. Ispezionarono i paraggi, con aria attenta e professionale.

    Quando furono soddisfatti, dopo un breve conciliabolo, uno di loro si accostò allo sportello posteriore e aiutò a scendere dal predellino un quinto uomo, grassoccio e in abiti chiari. Quest’ultimo portava un antiquato cappello, tipo Humphrey Bogart in Casablanca. Un attimo dopo, Benharti venne affiancato da un sesto individuo, aitante e con la barba folta. Rashad non l’aveva mai visto prima. Con i due uomini al centro del rombo formato dalle guardie del corpo, il gruppo si avviò a passo svelto verso l’ingresso del laboratorio.

    Nessuno vigilava su di loro, in apparenza, ma ogni movimento era monitorato dalle decine di telecamere di sorveglianza installate nei punti strategici del complesso.

    Con un gemito di rassegnazione, Rashad si staccò dalla finestra, lasciandola aperta. Un po’ d’aria fresca l’avrebbe aiutato a sopportare la vista di quello che sarebbe accaduto da lì a poco. O, perlomeno, così gli piaceva credere. Bussarono alla porta, con delicatezza.

    Rassettandosi il camice liso e il ciuffo di capelli che gli copriva la fronte, Rashad andò ad aprire, nervoso. Nonostante i cinquant’anni, il suo viso era ancora liscio e fresco come quello di un ragazzino. Soltanto una rada peluria scura offuscava il pallore delle sue guance.

    Ritto sulla soglia, con il cappello in mano, trovò un sorridente Farouk Benharti. «Perdona il tremendo ritardo, Ismael» esordì, indicando con un cenno della testa l’uomo con la barba al suo fianco. Il suo alito odorava di menta e vodka. «Non è facile arrivare in questo schifo di cittadina, vero Hashim?»

    Lo sconosciuto con la barba storse le labbra. «Possiamo entrare?»

    Il tono gelido della sua voce fece rabbrividire Rashad.

    «Scusatemi» disse. «Prego, accomodatevi.»

    «Voi restate qui fuori» ordinò Benharti ai suoi uomini.

    «Sì, signore» rispose uno di loro, senza battere ciglio.

    Per quanto fossero in una zona sicura, abbassare troppo la guardia poteva risultare fatale per il loro padrone. Rashad si scostò. Benharti e Hashim avanzarono nello spazio asettico della stanza, attrezzata per l’occasione, guardandosi intorno con curiosità. Gli strumenti di analisi brillavano sotto la luce pulsante dei neon. L’elettricità era fornita da generatori a gasolio, collocati in un sotterraneo.

    Lo sguardo dei nuovi arrivati si soffermò sulla parete trasparente, oltre la quale erano prigionieri i dieci uomini nudi e strafatti.

    «Non possono vederci» spiegò Rashad, chiudendo a porta. «È una lastra di plexiglass unidirezionale e antisfondamento.»

    Benharti tirò fuori un fazzoletto di seta e si asciugò la fronte.

    Hashim infilò le mani nelle tasche dei pantaloni.

    «Questa dimostrazione è proprio necessaria, Farouk?» s’informò Rashad, titubante, avvicinandosi a un pannello di controllo. «Come sai bene, abbiamo già sperimentato con successo il prodotto.»

    «Lo so» replicò il trafficante d’armi. «Ma, vedi, il mio amico Hashim è un uomo diffidente. Non gradisce le sorprese e, capisci, non vuole deludere il suo boss. Come te, d’altronde». Tossicchiò, asciugandosi le labbra con il fazzoletto. «Mi hai sempre garantito la tua piena e totale collaborazione. Ora c’è forse qualche problema?»

    Rashad trasalì e deglutì un grumo di saliva. «Nessun problema.»

    Hashim lo fissò con sguardo penetrante e non disse nulla.

    «Splendido» commentò Benharti, rigirandosi il cappello tra le mani. «Basta chiacchiere. Hashim deve ripartire all’alba. Illustraci il potenziale di questa tua nuova variante del gas nervino, Rashad.»

    «Il gas nervino è una scoreggia al vento, paragonata al Mot!» replicò il chimico, sollevando il mento, punto nel suo orgoglio di scienziato. Amava il suo lavoro, per quanto ormai deviato.

    «Per questo ti ho messo a capo della ricerca» affermò Benharti.

    Hashim mostrò interesse per la prima volta. Osservò le dieci cavie umane, poi inarcò un sopracciglio. «Cosa significa il nome Mot

    «Era il nome di una antica divinità cananea» spiegò lui, eccitato, gli occhi lucidi per la stanchezza. «Un demone del caos e del male.»

    «Mi sembra un nome appropriato, dottore.»

    «Grazie. L’ho scelto personalmente.»

    «Come funziona?»

    Proprio in quel momento, nella stanza sigillata, uno degli uomini si mise a pisciare contro il vetro, tenendo gli occhi chiusi. Un rivolo di urina colò sul pavimento, formando una pozza. A quella vista, un suo compagno di prigionia si mise a ridere e lo imitò, spruzzando ovunque. Era dotato di un membro di notevoli dimensioni.

    «Che schifo!» sbottò Benharti. «Sono come animali selvaggi!»

    Ignorandolo, Rashad si rivolse ad Hashim, che lo ascoltò con attenzione. «Sono partito dal Sarin, che il signor Benharti è riuscito a procurarsi da uno dei magazzini dell’esercito libico dopo la caduta di Gheddafi» raccontò il dottore, gesticolando e infervorandosi. Parlare lo aiutava a distrarsi. «Io già da tempo, quando risiedevo ancora in Iran, stavo studiando la formula chimica di un agente catalizzatore che… beh, insomma, tagliando corto, ho sviluppato un formidabile additivo. È incredibile! Aggiunto al C4H10FO2P…»

    «Calma. Non so nulla di armi chimiche.»

    «Mi perdoni.»

    «Quali sono le differenze, in pratica?»

    «Al contrario del Sarin, a temperatura ambiente e nei contenitori, si presenta come un gel. Esposto all’aria, sublima in una nube di vapore incolore e inodore. L’intossicazione può avvenire sia per semplice inalazione, sia per contatto, attraverso la pelle. È efficace anche a minima concentrazione. Con il Mot, l’atropina è inutile.»

    «Tempo di azione?»

    «Dieci secondi. Il decesso sopraggiunge ai sessanta.»

    «Bene. Come agisce?»

    «Oh, beh, quasi come al solito. Principalmente colpisce il sistema nervoso. Neutralizzando l’aceticolinesterasi. L’additivo, però, ha introdotto diversi effetti collaterali.»

    «Parli semplice, dottore…» lo rimbeccò Hashim.

    A quel punto, intervenne Benharti. «Fai prima a farglielo vedere.»

    Infastidito per l’interruzione, Hashim serrò le dita a pugno.

    Rashad impallidì. «Certo, lo so, ma…»

    Dentro la cella, intanto, scoppiò il finimondo.

    «Dannazione!» sbottò Benharti, indicando i dieci derelitti, ora impegnati a defecare e lanciarsi la merda addosso, come bambini. «Premi quel pulsante e facciamola finita, Ismael! È disgustoso!»

    «Non capisco proprio, sono stati calmi tutta la sera» piagnucolò Rashad, mentre un tizio con gli occhi strabuzzati leccava con gusto una manciata di feci dal vetro. «Forse l’eroina era tagliata male.»

    «Chissenefrega!» ribatté Benharti.

    Rashad tornò al pannello e posò l’indice su un interruttore.

    «La camera a gas è del tutto stagna» annunciò, con voce grave. La sua espressione diventò di pietra. Non vedeva l’ora di congedare i suoi sgradevoli ospiti. «Qui non corriamo alcun pericolo.»

    «Va bene, va bene…» mugugnò Benharti, irrequieto.

    Hashim gli indirizzò un sorrisetto sadico. «Proceda, dottore.»

    La bocca ridotta a una fessura e le borse sotto gli occhi stanchi, Rashad premette l’interruttore, sopra il quale si accese una luce rossa intermittente. Da qualche parte, sul retro del laboratorio, un involucro pressurizzato di Mot si spezzò e il sistema di ventilazione a circuito chiuso convogliò i micidiali vapori nella camera stagna.

    Impassibile, Hashim fece partire il cronometro sul suo orologio.

    Benharti ammutolì di colpo.

    Dalle bocchette di aerazione, invisibile, il gas iniziò a riversarsi sulle cavie umane. I letali sintomi non si fecero aspettare a lungo.

    Dieci secondi.

    Difficoltà respiratoria. Spasmo delle pupille. Vomito.

    Venti secondi.

    Perdita del controllo delle funzioni motorie.

    Trenta secondi.

    Blocco respiratorio. Soffocamento. Convulsioni.

    Quaranta secondi.

    Emorragia acuta da bocca, cavità nasali, orecchio, ano.

    Cinquanta secondi.

    Stato comatoso e danni neurologici irreversibili.

    Sessanta secondi.

    Morte.

    Il silenzio nella stanza, dopo quella drammatica rappresentazione, venne spezzato da Hashim. Fermò il cronometro, annuì soddisfatto e rimise le mani in tasca: «Ottimo lavoro, dottore» dichiarò. «La sua dimostrazione mi ha convinto. Quanto ci vorrà per averlo?»

    La gola secca, Rashad biascicò: «È tutto già pronto».

    Più sconvolto di quanto volesse ammettere, Benharti si tamponò di nuovo la fronte con il fazzoletto, prima di indossare il cappello.

    «Il minuto più lungo della mia vita» commentò, raggiungendo la porta a passo spedito. «Non immaginavo che…»

    «Da quando sei così sensibile, Farouk?» ironizzò Hashim. «A proposito, quanto ti devo per il disturbo?»

    «Quello che abbiamo pattuito.»

    «Posso assicurarti che faremo buon uso del tuo prodotto.»

    «Non voglio sapere nulla.»

    «Hai paura che gli americani possano risalire a te?»

    «Samir farà tutto il possibile affinché ciò non accada.»

    «Già, perché tu sei in affari con quei miscredenti!» lo punzecchiò.

    Benharti mostrò il suo fastidio, abboccando all’amo. «Il prodotto hai acquistato è anche frutto della mia collaborazione con loro.»

    «Certo» ridacchiò Hashim. «Non scaldarti.»

    Il paffuto trafficante d’armi sbuffò e si immerse nella fresca notte.

    Prima di uscire anche lui dall’edificio, Hashim si fermò sulla soglia e si voltò verso Rashad, immobile nei pressi della vetrata piena di cadaveri contorti, sporchi di sangue, vomito e merda.

    «Mi tolga una curiosità, dottore» disse. «Chi erano quei tizi?»

    «Non erano nessuno…» rispose Rashad. «Nessuno

    «Naturalmente» Hashim annuì. «Come tutti noi.»

    E se ne andò via, con il suo carico di morte, diretto chissà dove.

    PRIMO TEMPO - DUE MESI DOPO

    Palazzo Apostolico (Vaticano), 25 marzo 2020, ore 18.00

    Dopo gli eventi di quello che i media di tutto il mondo avevano denominato «Angelus di sangue», il cardinale Torrisi aveva trasferito la sua residenza: dall’alloggio di Palazzo San Carlo all’appartamento privato al primo piano del Palazzo Apostolico. Non era facile, per certi versi, andare a vivere sulla scena del crimine. A quasi un anno dai fatti, nei corridoi e nelle stanze dell’antico edificio sembravano ancora risuonare urla, spari ed esplosioni. Erano morte molte persone, senza che il cardinale potesse fare nulla per impedirlo.

    Ma non sarebbe accaduto un’altra volta.

    Da quel fatidico giorno, il Segretario di Stato si era ripromesso di non lasciare più l’iniziativa in mano agli altri, ma, quando possibile, anticipare tutte le manovre degli avversari e neutralizzarle. I nemici di Cristo, della Chiesa Cattolica e della pace erano tanti e agguerriti. L’attacco al Vaticano e il sequestro del Papa, nella primavera del 2019, ne erano la prova evidente. In quell’occasione, soltanto il coraggioso intervento di Bruno Majo aveva impedito che la situazione degenerasse in un’orgia di violenza.

    Dio lo abbia in gloria, pensò il cardinale, bevendo un sorso di tè.

    Alzò gli occhi dal liquido ambrato e incrociò lo sguardo con quello preoccupato di Giulio IV, seduto sulla poltrona di fronte alla sua. Anche lui reggeva una fumante tazza di fine porcellana.

    Il tè delle cinque era un’abitudine recente, ma gradita. Una pausa dalle formalità e la routine giornaliera. Il Papa gli sorrise, con espressione benevola, mentre una ragnatela di rughe gli si formava attorno agli occhi, affaticati ma sempre attenti. Quegli occhi non erano mai cambiati, dai tempi in cui giocavano a rimpiattino nell’aia della fattoria, in mezzo alle galline che beccavano il grano tra le pietre. Nonostante i dieci anni di differenza, erano diventati inseparabili.

    «A che cosa stai pensando, Eugenio?» gli domandò, assestandosi meglio sui cuscini. L’artrite che deformava le sue articolazioni non gli dava tregua. «Ti vedo distante.»

    Il cardinale deglutì. Il tè scivolò nella sua gola, caldo, forte e non zuccherato. «Non sono di molta compagnia questo pomeriggio, Pietro» si scusò lui, lanciando una breve occhiata verso la porta alla sua destra. «Sono in ansia per mio nipote. Le sue condizioni non migliorano. Ed è passato un mese, ormai.»

    Tra di loro, in privato, si chiamavano con il nome di battesimo.

    «Non ricorda ancora nulla?» s’informò il pontefice.

    Il cardinale si pizzicò la radice del naso. Odiava dover nascondere informazioni all’amico, ma in questo caso era solo per il suo bene.

    Scosse la testa. «Niente, purtroppo.»

    Giulio IV annuì. «Cosa dicono i medici?»

    «La diagnosi è amnesia retrograda transitoria.»

    «Mi dispiace. È un danno permanente?»

    «Secondo loro non devo preoccuparmi. La perdita di memoria è stata provocata da una commozione cerebrale» spiegò Torrisi, appoggiando la tazza vuota sul tavolino. «Nell’ultima TAC, l’ematoma si era riassorbito. A questo punto, i sintomi dovrebbero essere già scomparsi o perlomeno ridotti. Ma lui continua a non migliorare.»

    «Non hai nessuna idea di cosa ci facesse Alex in Perù?»

    «No» mentì lui. La bugia gli causò una fitta di dispiacere.

    Il Papa annuì. «Cosa gli può essere capitato?»

    La luce esterna iniziava a scemare e il salotto, arredato con gusto sobrio, era rischiarato da una lampadina a incandescenza protetta da un paralume. Al cardinale non piaceva il bagliore freddo di quelle a risparmio energetico. E preferiva l’ombra al sole.

    «In base alle ricostruzioni, si è trattato di un incidente stradale» raccontò, per l’ennesima volta. «L’automobile su cui si trovava ha sbandato ed è finita in un fiume.»

    «Un guasto ai freni? Oppure… aveva bevuto

    «Lo escludo. Non ho mai visto Alex bere alcolici.»

    «Grazie a Dio è uscito dall’abitacolo, prima di affogare.»

    «Già. La corrente lo ha trascinato a valle per quasi un chilometro. Quando lo hanno trovato in quella chiesa, era in stato confusionale, con gli abiti a brandelli e la faccia coperta di sangue.»

    Giulio IV sbiancò. Dopo l’Angelus, soltanto nominare il sangue lo metteva a disagio. «Rammentava ancora il tuo nome, per fortuna.»

    «Mi hanno detto che non è insolito dopo un trauma cranico. Quando quel vecchio parroco di campagna mi ha telefonato, io…» la voce del cardinale s’incrinò. Sfregò le mani sudate sui braccioli imbottiti della poltrona. «Ho rischiato di perdere il mio unico nipote. A proposito, ti ringrazio per aver agevolato il suo trasferimento.»

    «Figurati!» esclamò Giulio IV. «Ho fatto un paio di telefonate.»

    «I dottori in Perù hanno fatto un ottimo lavoro, ma preferisco che venga curato qui.»

    «Lo capisco. Non devi giustificarti con me.»

    «Comunque, fino a che non si sarà ristabilito, lo terrò con me.»

    «Ci vuole tempo, amico mio» disse il Papa, con tono rassicurante. «Il ragazzo è forte e i Torrisi hanno la testa dura.» Scolò quello che rimaneva del suo tè. «Guarirà in fretta. Pregherò per lui.»

    Ancora una volta, il senso di colpa attanagliò il cuore del cardinale.

    «Vuoi salutarlo?» propose. «Passa il tempo chiuso nella sua stanza.»

    A fatica, con una smorfia di dolore, il pontefice posò la tazza e si alzò dalla poltrona. «No» rispose, avviandosi a passo lento verso l’uscita dell’appartamento. «Non voglio metterlo in imbarazzo. Lascialo tranquillo. Buona serata, Eugenio.»

    Un groppo in gola, il cardinale scattò in piedi e lo accompagnò fino alla soglia, reggendolo per il gomito. Avvolto nel suo vestito bianco, l’amico odorava di sapone da bucato e vecchiaia.

    «Tu come stai?» gli chiese, abbassando la maniglia.

    Giulio IV si voltò a guardarlo, con occhi duri e grigi come l’acciaio. «Male! La Curia mi sta facendo dannare! Non vedono l’ora che io muoia, per eleggere un altro Papa! Qualcuno complotta alle mie spalle e cerca di prendere il mio posto. Ho sentito delle voci.»

    «Sai chi è?» domandò il cardinale, preoccupato.

    «Non ancora. Sto indagando, senza smuovere troppo le acque.»

    «Il vescovo Ritter?» suggerì lui. «Quello ha le amicizie giuste.»

    «Ma anche molti nemici, da quando gestisce lo IOR. Quella gente appena sente parlare di riforme e tagli impazzisce! Comunque, non ho intenzione di morire a breve. Se Dio vuole.»

    «Camperai cent’anni!» Torrisi gli diede una pacca affettuosa e aggiunse: «Hai voluto fare il Papa? E adesso pedala».

    Fuori dalla porta blindata dell’appartamento, a pochi passi di distanza, c’erano due Guardie Svizzere armate fino ai denti. Degni sostituti degli eroici colleghi morti per difendere il Santo Padre. Le misure di sicurezza interne ed esterne, in seguito alle falle mostrate dall’audace piano del terrorista Fawaz, erano state aumentate.

    Dopo un rapido scambio di saluti, affiancato dalle guardie, il Papa se ne andò e Torrisi restò immobile sulla soglia per qualche secondo. Respirò a fondo un paio di volte, poi rientrò nell’appartamento, dove aleggiava un vago sentore di fumo, a causa del precedente inquilino.

    Meditabondo, congiunse le mani dietro la schiena e si avvicinò alla camera dove alloggiava suo nipote, Alex Torrisi. Da quando era tornato dal Perù, quasi del tutto privo di ricordi, si era autorecluso in una ostinata solitudine, rifiutando ogni contatto con il mondo esterno.

    Bussò alla porta. «Posso entrare?»

    Oltre lo spessore del legno, risuonò una voce affannata. «Avanti!»

    Umettandosi le labbra aride, Torrisi aprì la porta e fece un passo oltre la soglia, socchiudendo gli occhi per il forte bagliore che lo investì. Le persiane delle finestre erano chiuse, ma tutte le luci della stanza erano accese. Il letto disfatto, la tivù con l’audio azzerato, vestiti sporchi gettati sulle sedie. L’aria puzzava di sudore acre e deodorante per ambienti.

    Nell’angolo più lontano, sotto una sbarra per le trazioni, c’era una panca per il sollevamento pesi e gli addominali. Il riscaldamento sembrava spento, tuttavia non faceva freddo.

    Sopra un moderno tapis roulant, con la pedana inclinata a una pendenza folle, Alex Torrisi correva a testa bassa, aggrappato alle maniglie dell’attrezzo. Il sudore gli colava copioso dalla fronte, inzuppandogli i ricci scuri. Indossava scarpette da corsa dai colori fluo, pantaloncini e una maglietta fradicia. Somigliava parecchio allo zio paterno: viso squadrato, nerboruto, braccia e gambe lunghe.

    Il suono cadenzato creato dalle suole sul tappeto mobile di gomma era quasi ipnotico. Il grande display digitale del tapis indicava una velocità di ventidue chilometri orari. Anche il cardinale Torrisi, da giovane, era stato un buon podista, quindi sapeva quanto era duro tenere quel ritmo.

    Il nipote proseguì caparbio. Nel suo caso, il motto mens sana in corpore sano, non era applicabile.

    Il corpo si era ripreso in fretta, al contrario della mente.

    «Il Santo Padre è andato via» annunciò Torrisi, restando sulla porta. Intrecciò di nuovo le mani dietro la schiena, esitante. «Mi ha detto che ti ricorderà nelle sue preghiere.»

    Sbuffando per la fatica, Alex grugnì: «Mi fa piacere».

    Prima dell’incidente in Perù, il nipote era un cattolico devoto. Ora sembrava un’altra persona, scontrosa e ribelle. L’amnesia poteva modificare anche il carattere?

    «Hai preso le tue medicine?»

    «Sì, zio.»

    Il cardinale s’impose di avere pazienza, ragionare con un adolescente di trent’anni non era semplice. «Come è andata la seduta di terapia con il dottor Franzulli? Non ci siamo incrociati quando è uscito.»

    Il fiato corto, il nipote schiacciò un pulsante. La pedana mobile tornò orizzontale, rallentando e poi fermandosi.

    «Qualche progresso?» continuò lui, imperterrito.

    Alex balzò sul pavimento, agguantò una salvietta dallo schienale di una sedia e si asciugò la faccia, buttandosela poi intorno al collo, su cui spiccavano arterie e tendini.

    «No! Non mi assillare!» sbottò, evitando il suo sguardo indagatore e lanciando una veloce occhiata al televisore, sintonizzato su RaiNews24. «È inutile che mi fai ogni giorno la stessa domanda.»

    Non stai dicendo tutta la verità, ragazzo mio, pensò il cardinale, incassando lo sfogo. In silenzio, contemplò la sua schiena robusta mentre si sospendeva alla sbarra con un braccio e cominciava ad andare su e giù. Una volta, due, tre, quattro, cinque, sei…

    Non c’era molto tempo da perdere, lo sapeva bene: poteva essere una questione di vita o di morte per molte persone, eppure doveva aspettare. Insistendo non avrebbe ottenuto nulla.

    «Ti aspetto per cena alle 20.30» disse, congedandosi. «Non farmi aspettare come al solito.»

    Lido di Ostia Levante (Roma), 25 marzo, ore 22.00

    «Sì, mamma…» sospirò Marianna, guardando il soffitto della sua camera da letto. Avrebbe avuto bisogno di una bella tinteggiata, ma non aveva i soldi per l’imbianchino.

    Chiazze di muffa erano fiorite ai quattro angoli, dopo le copiose precipitazioni di quell’inverno. Naturalmente, quando aveva acquistato quella casa, neanche quattro anni prima, l’affabile agente immobiliare non aveva accennato alle infiltrazioni nella copertura o alla presenza di amianto interrato nel cortile sul retro. Una bella fregatura. Certo, il basso prezzo di vendita avrebbe dovuto insospettirla.

    «No, mamma.» Insonnolita, la ragazza spostò il cellulare sull’altro orecchio, tormentandosi un ricciolo biondo sulla fronte. «Domani non posso. Devo lavorare.»

    Quelle conversazioni notturne con la madre, vedova, la spossavano. Soprattutto quando il mattino dopo si doveva svegliare presto. Lei era una vera rompiballe, ansiogena e ipocondriaca. Tanto che il marito, forse, si era fatto venire un infarto fulminante apposta per levarsela dai piedi.

    La sua voce le trapanava i timpani, simile a unghie sulla lavagna di scuola. «No, mamma. Non ho nessuna intenzione di rivedere Sergio. È finita. Voglio restare single, per un po’. Pagherò il mutuo da sola.»

    Roteando gli occhi, ascoltò la replica della madre.

    «Avrebbe dovuto pensarci prima, non credi?» proruppe.

    Sergio si era sbattuto una sciacquetta albanese, addetta alle pulizie nella stazione di Roma Termini. E adesso faceva leva sulla brama di ricchezza della suocera per farsi perdonare.

    L’elastico dei minuscoli short che indossava le faceva prudere la pelle intorno alle anche. Infilò la mano sotto e grattò, emettendo un breve gemito di sollievo. A parte i calzoncini, Marianna indossava soltanto una canotta dalle spalline sottili. L’abbronzatura artificiale risaltava contro il rosa acceso del tessuto sintetico. Il prossimo weekend aveva un appuntamento per un’altra sessione di lampada dall’estetista. E poi avrebbe dovuto fare qualcosa per le maledette doppie punte, rifletté, sbirciando la punta della ciocca di capelli che si rigirava tra le dita. Erano orrende.

    In quel momento, in salotto, Jacky iniziò ad abbaiare per attirare la sua attenzione. Era già tardi e lei non l’aveva ancora portato fuori a fare i suoi bisogni. Quel cucciolo di Beagle era stato l’ultimo regalo di anniversario di Sergio.

    «Mamma, piantala!» Alzò la voce, rigirandosi sul letto e abbracciando il cuscino. «Ho lasciato lui, ma mi tengo il posto di lavoro. Non è mica facile trovarne un altro oggi.»

    Faceva troppo caldo in casa. Prima di andare a dormire, avrebbe dovuto ricordarsi di abbassare il termostato. Ora che non poteva più condividere le spese, occorreva fare economia. Ce la posso fare, si disse, basta rimboccarsi le maniche e tagliare gli sprechi. Ovvio, il bengodi era finito, senza Sergio a mantenere i suoi piccoli vizi e lussi.

    «No, mamma. Sei pazza? Sua moglie non sa nulla!»

    Qualcosa di vetro cascò sul parquet del salotto, andando in mille pezzi. Di colpo, Jacky guaì e smise di abbaiare.

    «Cazzo!» imprecò Marianna. «Cosa avrà combinato!»

    Non era la prima volta che il bastardo faceva danni.

    «Senti, devo proprio attaccare adesso. Ho sonno ed esco all’alba per fare jogging, lo sai. Sì, sì, ti chiamo domani sera, quando arriviamo a Milano. ’Notte.»

    Chiuse la chiamata, scagliò il telefonino sul materasso e si sollevò di scatto, il viso arrossato dalla collera. Un brivido di freddo le risalì dalle piante dei piedi nudi fino all’attaccatura dei capelli. Il pavimento era gelido come una lapide del cimitero. La pelle le si accapponò.

    «Jacky!» sbraitò, avviandosi a pugni stretti verso il salotto, passando sotto gli archi del disimpegno. «Brutto stronzo, che cavolo hai rotto adesso!» Detestava quella bestiaccia. «Ti metto in un canile se continui così!»

    Dentro il salotto era buio pesto e Jacky taceva.

    «Inutile che ti nascondi, ora le prendi!»

    Tremando per la rabbia, i capezzoli turgidi che quasi perforavano la canottiera, varcò la soglia e cercò alla cieca l’interruttore della luce. Lo trovò e lo abbassò con forza.

    Il lampadario si accese e illuminò l’ambiente.

    La scena che si ritrovò davanti la paralizzò sul posto.

    Terrorizzata, Marianna si portò un pugno alla bocca e soffocò un grido, mentre il cuore le sussultava impazzito.

    La finestra del salotto era spalancata. Uno dei riquadri di vetro era rotto. Le schegge sul parquet, lucido di cera, riflettevano la luce del lampadario come pezzi di ghiaccio.

    Un uomo enorme, con le braccia possenti e il volto coperto da un passamontagna scuro, occupava il centro della stanza. Le uniche parti visibili della sua faccia erano gli occhi e la bocca, distorta in un ghigno.

    Ai suoi piedi, c’era Jacky. Collo spezzato, occhi strabuzzati e lingua fuori.

    L’intruso si portò l’indice alle labbra. «Zitta», sibilò.

    Anche volendo, Marianna non sarebbe riuscita a urlare. La sua gola pareva essersi ridotta alle dimensioni di una cannuccia per succhi di frutta. Restò dov’era, tremolante.

    «C-cosa vuoi?» riuscì a balbettare, sbiancando.

    L’uomo sferrò una violenta pedata al corpo del Beagle, mandandolo a sbattere contro il divano di alcantara rossa.

    Il rumore molliccio dell’impatto fece trasalire la donna.

    In un attimo, muovendosi rapido come un demonio, l’uomo la raggiunse e le bloccò le braccia in una morsa tremenda. Le sue dita, bollenti, sembravano fatte d’acciaio.

    «Non mi avevano detto che eri così carina…» sussurrò, rimirandola dall’alto in basso, facendola avvampare e sentire nuda. Il suo alito odorava di birra e patatine fritte.

    La lingua secca, Marianna biascicò: «Vuoi rapinarmi?»

    Gli occhi dell’uomo si spalancarono, sorpresi e divertiti.

    Scosse la testa. Da sotto il passamontagna, sulla nuca, spuntavano ciocche untuose di capelli biondo cenere.

    «Non mi interessano i tuoi soldi, bellezza…» disse, sorridendo e mostrando una dentatura perfetta. Parlava bene l’italiano, ma si sentiva che era straniero. Non un rumeno, però. L’accento era diverso. «Siamo qui per altro.»

    Siamo? Marianna vacillò. Non è da solo allora!

    Cosa volevano farle? E per quale motivo?

    Leccandosi le labbra, l’uomo le lasciò libero un braccio e cominciò a palparla ovunque, stringendola a sé, in un abbraccio lascivo. Quel contatto la fece sentire sporca e vergognare di se stessa.

    «Te ne vai in giro per casa sempre così spogliata?»

    Lei iniziò a piangere, s’irrigidì e non rispose alla provocazione.

    Dov’erano nascosti i complici? Facevano da palo fuori?

    L’uomo la baciò sul collo, passandole la lingua calda sul lobo dell’orecchio, viscida come bava di lumaca. Sentì la sua erezione premerle dura contro il sedere, quando lui cambiò posizione per portarsi dietro alle sue spalle. La cinse con le braccia e le strizzò forte entrambi i capezzoli tra indice e pollice, strappandole un gemito di dolore.

    «Perché non ci divertiamo un po’, eh, Mary?»

    Marianna si sentì svenire. Conosce il mio nome!

    «Per favore, no…» piagnucolò. «Ti prego, non farlo.»

    Come se non avesse sentito quelle parole, l’uomo le infilò una mano dentro la canotta e prese a massaggiarle il seno. La pelle delle sue dita era ruvida, fastidiosa. L’altra mano scese al calore del suo inguine, s’intrufolò esperta sotto l’elastico dei calzoncini e le pizzicò sadica il monte di Venere. A quel punto, Marianna gridò e si divincolò.

    «Mi piace quando fate resistenza» disse lui, ridendo e stritolandola in una presa ferrea. «C’è più gusto.»

    Per quando si dibattesse, sfuggire a quella stretta da anaconda era impossibile, data la disparità di forze in campo. Non aveva la minima speranza di sottrarsi alla violenza. E a parte lei, il resto della strada era disabitato. Il desiderio di privacy, adesso le si ritorceva contro. In preda al pianto, smise di lottare e si abbandonò.

    Proprio quando l’uomo le stava per infilare un grosso dito dentro la vagina, dal davanzale della finestra aperta spuntò un’altra testa coperta da un passamontagna nero.

    «Che cazzo stai facendo, Grunge?» sbottò il nuovo arrivato, anche lui in italiano corretto, ma dall’inflessione straniera. «Piantala di fare il porco e portala al furgone!»

    L’uomo dietro di lei sbuffò. «C’è ancora tempo, Jazz.»

    Attraverso i buchi laceri del passamontagna, Marianna vide gli occhi dell’altro fiammeggiare di collera. «Non discutere! Se comprometti l’operazione con le tue solite stronzate da maniaco, questa volta non ti coprirò le spalle con Blanco, ti è chiaro?» inveì, sputando saliva. «Legala e mettile il bavaglio. Prendi quello che ci serve, chiudi tutto e scendi subito di sotto. Ti sto aspettando giù con il motore acceso. Non farmi salire un’altra volta o te ne pentirai.»

    Detto questo, la testa incappucciata sparì nell’oscurità.

    L’uomo chiamato Grunge afferrò le spalle di Marianna, conficcandole le mani nella carne morbida. La fece voltare verso di lui e le rivolse uno sguardo osceno.

    «Hai un buon profumo» disse, arretrando e annusandosi le dita. «Rimandiamo a più tardi, eh?»

    Poi le sferrò un pugno sulla tempia.

    Tutto diventò nero, mentre piombava sul parquet.

    Palazzo Apostolico (Vaticano), ore 22.45

    Al termine della frugale e silenziosa cena con lo zio, a base di zuppa di farro e pane nero, Alex Torrisi si era di nuovo ritirato nella sua stanza, chiudendo la porta a chiave come faceva ogni notte da quando era tornato malconcio dal Perù. Una indecifrabile abitudine di cui non riusciva a spiegarsi la ragione, per adesso, ma che lo faceva sentire meglio. Più tranquillo. La sua memoria, dopo il grave incidente stradale di cui gli avevano raccontato i dottori, era come una enorme lavagna bianca. A parte il suo nome e qualche inutile frame sfocato della sua infanzia, non c’erano molti altri ricordi dentro la sua testa.

    Qualcosa gli diceva che forse non era un male.

    Torrisi tolse la camicia, sfilò le scarpe e sedette sul letto, restando in pantaloni e canottiera. Da quando erano finite le due settimane di convalescenza, necessarie per guarire contusioni, slogature ed ematomi, sentiva caldo, nonostante le basse temperature esterne.

    Recuperò il telecomando dal cassettone e accese il televisore, che si illuminò con un fastidioso sibilo ad alta frequenza. O, almeno, così sembrava ai suoi timpani.

    Sbuffò, poi con l’unghia lunga del pollice raschiò via un chicco di farro rimasto incastrato tra i molari. Lo sputò sul tappeto, prima di riflettere su che cazzo stava facendo.

    L’amnesia non è una buona scusa per fare l’incivile, rimuginò, furioso con se stesso. Fai schifo!

    Prese un fazzoletto di carta, piegò la schiena, raccolse il chicco, appallottolò il tutto e lo gettò nel cestino della spazzatura. Soddisfatto, alzò lo sguardo al televisore. Tenne il volume basso.

    L’ennesima replica del notiziario trasmetteva le solite notizie: spread, tasse, rapine, omicidi, suicidi, terrorismo, politica. La campagna elettorale per le prossime elezioni, previste tra un mese, era ormai entrata nel vivo. Le dichiarazioni e le promesse sul programma dei partiti più grandi erano mirabolanti, anche perché ormai tutti quanti paventavano un exploit del candidato dell’estrema destra, Enea Zanoni, leader del movimento Azione Tricolore.

    La maggioranza di governo attuale, guidata dal primo ministro Lax, non aveva nessuna speranza di vittoria per una seconda legislatura. L’attacco al Vaticano, assestato dal terrorista afgano Fawaz, era stato un duro colpo per la fragile coalizione della sinistra. Da allora, l’orientamento dell’opinione pubblica era cambiato in modo radicale. La politica, tuttavia, lo annoiava a morte.

    Cambiò canale, sintonizzandosi su Focus: niente di meglio di un documentario per riattivare la mente.

    E conciliare il sonno, rifletté Torrisi, sbadigliando.

    In quel momento, ne stavano giusto trasmettendo uno sulle «armi segrete dei nazisti». A quanto sembrava, in Italia non passava un giorno senza che in tv parlassero di Hitler o Mussolini.

    Afferrò il cuscino e si sdraiò sul letto, rivolto verso lo schermo piatto. Fuori, attutite dallo spessore dei muri del palazzo, le campane di bronzo batterono undici rintocchi.

    Dopo aver assistito all’ennesima partenza di un missile V2, in bianco e nero, Torrisi pigiò di nuovo il tasto e fece un rapido zapping, fermandosi infine su History Channel.

    C’era la pubblicità, come al solito a un volume più alto del resto, ma decise di aspettare per vedere cosa davano.

    Dato che non aveva granché da fare, a parte tenersi in forma, Alex seguiva spesso i canali tematici. Sperava che, prima o poi, qualche informazione facesse scattare un minuscolo interruttore celato nella sua memoria danneggiata, spegnendo e riavviando il sistema. Come in un notebook. Per ora, non era successo nulla. Nessun magico clic. Era frustrante.

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