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L'isola dei morti
L'isola dei morti
L'isola dei morti
E-book526 pagine6 ore

L'isola dei morti

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Info su questo ebook

Dieci persone, cinque uomini e cinque donne, vengono rapite da un misterioso commando e trasportate su una minuscola isola in mezzo al Pacifico: il miliardario Joshua Kyle le ha scelte accuratamente perché ha deciso di organizzare e di offrire a un ristretto gruppo di amici uno spettacolo singolare, strutturato come un videogioco, ma tutt’altro che virtuale. Durerà 100 ore e l’unico vincitore otterrà in premio cento milioni di dollari. Purtroppo per Kyle, non tutto va per il verso giusto… Tra colpi di scena e azione, la storia si sgrana senza lasciare un attimo di respiro al lettore, che pure non potrà evitare di interrogarsi sugli aspetti più nascosti della natura umana, da quelli basilari e atavici come l’istinto di conservazione, al senso della lealtà e dell’onore.
LinguaItaliano
Data di uscita24 ott 2021
ISBN9788855391757
L'isola dei morti

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    Anteprima del libro

    L'isola dei morti - Giancarlo Ibba

    L'isola dei morti

    Giancarlo Ibba  

    L’isola dei morti

    EEE- Edizioni Tripla E

    Giancarlo Ibba, L’isola dei morti

    © EEE - Edizioni Tripla E, 2021

    ISBN: 9788855391757

    Collana Adrenalina, n. 18

    EEE- Edizioni Tripla E

    di Piera Rossotti

    www.edizionitriplae.it

    Tutti i diritti riservati, per tutti i Paesi.

    Cover: credits to Pixabay.com

    LOAD GAME

    Hong Kong, 06:30

    All’alba, la metropoli si svegliò immersa in una nebbia impregnata di smog e polveri sottili. La brezza di mare, satura d’umidità, spingeva le nuvole verso la penisola di Kowloon. Un’altra stagione dei monsoni bussava alle porte dell’Oriente.

    Sopra la brumosa skyline urbana svettava, lucente come un prisma di ghiaccio, la K-Tower. Il più alto grattacielo del mondo. Quasi mille metri di cemento armato, acciaio inox e vetro. Centottanta piani di uffici, ristoranti, alberghi, agenzie, studi legali, appartamenti, negozi, bar, suite, banche e filiali.

    Da una finestra che occupava l’intera facciata est del suo attico, Joshua Kyle osservò le nubi burrascose ammassarsi nel cielo. Le sue iridi grigie brillavano dei riflessi policromi delle migliaia di luci e insegne al neon della città. Kyle adorava guardare la città, inginocchiata ai suoi piedi come una puttana.

    «Ti piace la pioggia, Cheng?» domandò, senza voltarsi.

    Seduto su una poltrona, Cheng Wu accavallò le gambe e si lisciò la cravatta. Alle sue spalle, percepiva la presenza di Iko: l’onnipresente bodyguard di Kyle. Restare in silenzio non era un problema per lui, visto che non aveva più la lingua. Gli era stata mozzata da bambino, in circostanze misteriose.

    Gli occhi fissi sull’orizzonte sempre più scuro, con aria assorta, Kyle continuò: «Io la odio. Mi mette malinconia».

    Le braccia posate sui braccioli, Cheng tacque.

    Kyle era l’unico figlio di un attempato petroliere texano e di una ex coniglietta di Playboy. Dal padre aveva ereditato, oltre al patrimonio, il talento per gli affari e l’ambizione. Dalla madre, una bellezza statuaria e le doti manipolatorie. I genitori erano morti in un incidente, quando lui aveva diciotto anni.

    «Da ragazzino ero parecchio introverso» concluse Kyle. «Intelligenza e sensibilità creano solitudine… mai notato?»

    Il killer aprì bocca per la prima volta. «Qualche volta.»

    Iko sospirò. Quei discorsi lo annoiavano. L’indonesiano si affacciò alla finestra e guardò in basso. La grande piazza antistante alla K-Tower iniziava ad affollarsi. All’ora di punta, nel grattacielo giravano più di diecimila persone, una buona parte dipendenti della Kyle Global Corporation. La K.G.C. era una tentacolare multinazionale, con un fatturato di miliardi di dollari. Eretta a tempo di record, la K-Tower era lo scintillante fulcro attorno a cui orbitavano capitali internazionali, pubblici e privati, legali e illegali. Tutti controllati da Joshua Kyle.

    Lanciando uno sguardo alla robusta guardia del corpo, Kyle passò le dita tra i capelli biondi e, ruotando sui tacchi, si voltò. Con due falcate, raggiunse il suo prezioso pianoforte a coda Steinway & Sons. Insieme alla maestosa scrivania, le due lussuose poltrone Luigi XVI e lo schermo oled da 200 pollici, era l’unico oggetto presente nell’ambiente minimalista.

    Kyle si accomodò sullo sgabello, schioccò le dita e le appoggiò sulla tastiera. Chiuse le palpebre e iniziò a suonare il Preludio op. 28 n. 15 di Fryderyk Chopin. Era piuttosto abile.

    «Sai perché ti ho fatto venire fin quassù, così presto?»

    Fuori, il cielo si oscurò in fretta, preludio di un possente temporale. L’attico affondò in una strana penombra azzurrina.

    «No, signore...» replicò Cheng, con voce piatta.

    Kyle annuì. «È tempo di organizzare una vera partita.»

    Accanto al leggio del pianoforte, dentro una cornice di platino, c’era un ritratto della sua attuale fidanzata. Una bella ragazza dai capelli rosso fiamma, il sorriso timido e lo sguardo intelligente. Terry Lockley lavorava alla K-Books, cinquanta piani più in basso. Fin dal principio della relazione, tre anni prima, la coppia era l’argomento preferito dalla cronaca rosa globale.

    Immerso in chissà quali pensieri, Kyle scrutò la foto di Terry. Emise un sospiro e continuò a suonare. Senza soluzione di continuità, passò al languido Sogno d’amore di Liszt.

    Dopo un minuto, Kyle sbuffò, si alzò dal pianoforte e si accomodò alla scrivania. Iko lasciò la finestra e prese posto sullo sgabello. La maglietta nera che indossava era tesa intorno ai bicipiti tatuati. Incurante, sfilò uno dei suoi coltelli a farfalla dalla custodia sulla cintura e iniziò a tagliarsi le unghie.

    «Ho ricevuto pressioni da parte dagli spettatori...» disse Kyle, come se niente fosse, riprendendo il discorso interrotto.

    «Ha già una lista dei giocatori?»

    Sorridendo, Kyle tirò fuori una minuscola chiave dorata dal taschino della sua giacca tagliata su misura e aprì uno dei tanti cassetti della sua immensa scrivania. Ne tolse una decina di cartellette. Le riordinò con calma e, alla fine, gliele allungò.

    Con lentezza, Cheng si protese per prendere i fascicoli, prestando attenzione a non toccare la mano del capo. Kyle non sopportava il minimo contatto fisico con la pelle maschile.

    «Permette una osservazione?»

    Per quanto possibile, Iko alzò un ispido sopracciglio.

    «Prego...» concesse Kyle, con una scrollata di spalle.

    «Selezionare gli uomini per la partita di collaudo tra i senzatetto della città non è stata affatto una buona idea.»

    «Hai ragione! Come potrai vedere, non ho fatto lo stesso sbaglio.» Kyle sorrise ancora e allargò le braccia. «Non avrei mai dovuto affidare quell’incarico al capitano Renoir! Lui e la sua marmaglia di mercenari sono privi di ogni buon gusto!»

    Approvando quell’affermazione, Iko grugnì.

    «Mea culpa!» sbottò Kyle, battendo il pugno sul cuore. «Adesso, però, l’operazione è tutta nelle tue mani. In quelle schede troverai ogni dettaglio. Ho già predisposto il supporto logistico. I miei facoltosi amici hanno già prenotato i loro posti in prima fila! Sono così tediati dalle loro vite che farebbero di tutto per qualche ora di sano intrattenimento in streaming!»

    Il killer contrasse i muscoli della mascella.

    «Qualcosa ti turba?» lo sollecitò Kyle, inquieto.

    «Ecco, signore... non pensa che sia troppo avventato?»

    «Avventato

    «Sarebbe preferibile far passare ancora qualche mese.»

    Kyle si stiracchiò la schiena e allacciò le mani dietro il collo. Sembrava tranquillo, ma questo non voleva dire niente.

    Sapeva recitare una parte molto meglio della madre.

    «Ho qualcuno alle calcagna, giusto, Cheng?» s’informò, sfiorando con i polpastrelli il mento squadrato. «Sai la novità! La CIA sta forse di nuovo cercando di infiltrare qualcuno?»

    Il killer storse le labbra. «No, signore.»

    «Di che ti preoccupi, allora?» sbottò Kyle, rimettendosi in moto. Non riusciva a star fermo per molto tempo. Cominciò a camminare, avanti e indietro, dalla finestra panoramica alla scrivania. Iko, ancora seduto sullo sgabello, lo seguì con lo sguardo come un cane adorante. «Sono davvero impaziente! Voglio godermi una bella partita! Tutto sommato, il collaudo è andato abbastanza bene. Con le modifiche che ho ideato tutto filerà liscio, vedrai. Non voglio far aspettare troppo i miei amichetti. Cambierebbero subito show, tornando di corsa ai loro vizietti da pervertiti... Sai che noia gli snuff? Chi ha più voglia di vedere una puttanella negra stuprata e strangolata da un ciccione peloso, mascherato da Zorro e fradicio di sudore?»

    Quel monologo toccò Cheng in profondità che preferiva non esplorare. Kyle spesso lo infastidiva con i suoi pensieri. In ogni caso, non era pagato per giudicare l’etica del suo capo. No. Lui era un killer. Tutto qui. Era tardi per cambiare vita. E, in fondo, non erano le agenzie investigative a inquietarlo.

    Grazie al suo carattere di merda, nel corso degli anni, Kyle si era fatto numerosi nemici nel mondo della criminalità organizzata e del terrorismo internazionale. Per non parlare di ecologisti e anticapitalisti. Riceveva minacce di morte di vario genere. Eliminare i pericoli prima che si presentassero era già abbastanza complicato. Reclutare un sicario per affidargli quel compito, soltanto uno come Kyle poteva concepirlo. E adesso, quell’insensato trastullo... come gli era venuto in mente?

    Con il solito contegno, il killer si alzò.

    «Perdoni la mia impertinenza.» Cheng piegò la testa per sottolineare il suo rammarico, fissando il suo capo dritto negli occhi. «Avrà tutti i giocatori sull’isola tra una settimana.»

    «Disprezzo le scuse non richieste, Cheng, lo sai bene...» ribatté Kyle, congedandolo. «Ci aggiorniamo. Puoi andare.»

    Appollaiato sul suo sgabello, Iko ridacchiò.

    Cheng indossò il cappellino da baseball che usava per celare il suo viso alle telecamere di sorveglianza e scomparve dietro la porta blindata dell’ascensore: l’unica via d’accesso all’attico. Per accedervi era necessario digitare una password. Il sistema di sicurezza del grattacielo era ai massimi livelli.

    Congedato il killer, Kyle tornò alla finestra panoramica. La pioggia bagnava gli spessi vetri antiproiettile. Cento metri sopra la sua testa, il ventre gravido di fulmini delle tumultuose nuvole temporalesche lambiva il pinnacolo della K-Tower.

    Kyle sorrise. «Che lo spettacolo abbia inizio!»

    PLAYERS

    Solminsky, Siberia, 05:15

    Un cielo cianotico sovrastava le cime scheletriche degli alberi morti. Tutti i vegetali nel raggio di dieci chilometri erano secchi o in decomposizione. Il candido manto nevoso, sotto gli spettrali tronchi putrescenti era macchiato da due strisce rosse parallele. Sangue. All’estremità dell’irregolare binario, Igor Vanejev trascinava il corpo straziato della sua ultima vittima.

    Le aveva tagliato i piedi, all’altezza delle caviglie, con una piccola sega circolare portatile. Dai monconi emergevano spuntoni d’osso, i filamenti bianchi dei tendini e quelli color vinaccia dei vasi sanguigni. Non era stato facile, la batteria era quasi scarica e la lama consumata. Avrebbe dovuto cambiarla.

    Igor aveva conservato il paio di piedi in due sacchetti di plastica trasparente da congelatore. Quelli a tenuta stagna. Mentre i suoi scarponi affondavano nella neve fresca, li teneva infilati nelle profonde tasche del giaccone. Erano ancora caldi. Pesavano come mattoni, ma erano davvero dei bei piedoni.

    Nella mano sinistra, impugnava la maniglia della sega. Sui denti acuminati della lama erano rimasti appiccicati alcuni rimasugli sanguinolenti. Nell’altra, stringeva il polso pallido del corpo che stava trascinando a fatica. Igor era robusto, ma quella donna era alta e grassoccia. Pareva imbottita di piombo. Nei suoi capelli erano imprigionati cristalli di ghiaccio, sul volto erano rimasti incollati grumi di terriccio e neve. Lo sguardo degli occhi sbarrati non era terrorizzato, ma solo un po’ triste. Come se, in fondo, la morte non fosse stata un’esperienza così brutta per lei.

    In lontananza, risuonò il lamento stridulo di una sirena.

    Igor si fermò per rifiatare e alzò lo sguardo.

    Oltre la spessa bruma dell’alba imminente, intravide il cilindro della torre di raffreddamento della centrale nucleare. Lavorava in quel posto scordato da Dio e dagli ambientalisti da quasi dieci anni. Era l’ingegnere capo addetto al Reattore 3. Fra mezz’ora sarebbe iniziato il suo turno. Doveva sbrigarsi a seppellire quella cicciona, oppure avrebbe dovuto timbrare il cartellino in ritardo. Era una cosa che proprio non tollerava.

    Riprese la marcia, sbuffando e bestemmiando ogni volta che uno scarpone gli affondava nella neve alta, inzuppandogli i calzettoni di lana. Pur essendo russo, non amava il freddo.

    A parte il fastidio del ritardo, comunque, non correva il rischio di essere scoperto. Il territorio dietro alla centrale era contaminato dalle scorie radioattive che i dirigenti vi avevano sepolto abusivamente per decenni. Nessuno ci si avventurava.

    Era il suo cimitero segreto.

    Qualche volta, Igor sognava che i cadaveri contaminati di tutte le donne che aveva ucciso si risvegliassero, putrescenti, vendicative e affamate. Vedeva quei corpi deformati, chiazzati di muffa fosforescente, girovagare nella brughiera nebbiosa in cerca di carne umana. Una sequenza da brivido, che lo faceva agitare e sudare durante il sonno e, malgrado tutto, lo eccitava.

    Boccheggiando, Igor arrivò in una radura sgombra dalla neve, dove la terra era spoglia, nerastra e cedevole. Era il sito dove un tempo venivano interrati i barili delle scorie. Il calore scioglieva ghiaccio e manto nevoso. La notte precedente, per portarsi avanti con il lavoro, vi aveva scavato una fossa. Senza cerimonie ci buttò dentro il corpo mutilato e, usando la vanga che aveva nascosto dentro un albero cavo, iniziò a coprirlo di pietre e fango. Intorno a Igor c’erano numerose tombe di quel tipo. Uno strano lichene rossastro cresceva sulle più vecchie.

    Tutte contenevano donne senza piedi.

    Erano la sua ossessione.

    C’era gente che collezionava francobolli, libri, monete, schede telefoniche, tappi... Igor andava letteralmente pazzo per i piedi femminili. Ormai ne possedeva decine di paia. Di ogni dimensione e aspetto: piccoli, grandi, rozzi, delicati. Li teneva dentro un congelatore, nel seminterrato della sua dacia, dove poteva goderseli, quando desiderava. I giornalisti lo avrebbero potuto chiamare il Collezionista di Piedi. Qualcuno, prima o poi, avrebbe addirittura scritto un libro sulle sue orride gesta.

    Un sorriso distorse le labbra di Igor.

    Sopra gli alberi morti, la sirena fischiò un’altra volta.

    Era in ritardo! Doveva raggiungere la centrale, passare il posto di controllo e timbrare il cartellino non oltre le 06.00. Durante l’orario di lavoro, avrebbe nascosto quei piedi nel suo armadietto privato, dopo aver riempito di ghiaccio i sacchetti che li contenevano. Non c’era più il tempo di portarli a casa.

    Frenetico, buttò le ultime palate di pietrisco sul tumulo.

    Ritenendosi soddisfatto, nascose nel solito posto la sua vanga e si avviò verso la recinzione arrugginita che delimitava l’area. L’ingresso della centrale non era lontano, solo un paio di chilometri di strada dissestata. Cinque minuti in macchina.

    Igor rilassò le spalle. La parte più faticosa era conclusa.

    Fischiettando nuvole di condensa, seguendo una allegra melodia tratta dalla Sirenetta della Disney, scavalcò il filo spinato e camminò verso il suo SUV. L’aveva parcheggiato in uno spiazzo, circondato di fitti rovi, appena fuori della zona contaminata. Facendo attenzione a non strapparsi i vestiti, attraversò un groviglio di cespugli pieni di grosse spine e percorse un sentiero nascosto in mezzo a due filari di arbusti.

    Era felice e si sentiva piuttosto bene. La notte insonne non gli pesava per nulla. Il suo corpo era saturo di endorfine.

    Alcuni secondi più tardi, superò il cartello a triangoli gialli e neri del pericolo radioattivo, oltrepassò una transenna e vide la sua auto. Parabrezza e finestrini erano bianchi di gelo.

    Raggiunse il SUV, aprì lo sportello e si sedette al posto di guida. Ispezionò il suo brutto faccione, rotondo e butterato, riflesso nel retrovisore. Poi aggiustò sul naso, rosso e pieno di capillari rotti, gli occhialini dorati dalla montatura sottile.

    La sirena della centrale ululò ancora.

    Igor controllò l’orologio da polso: 05.55.

    Posso farcela, si disse, sogghignando allo specchietto.

    Stava per accendere il motore, quando, emergendo dalla vegetazione circostante, quattro uomini in uniforme mimetica invernale assaltarono il SUV. Sul volto portavano minacciose maschere nere e filtri per respirare. Assomigliavano a enormi scarafaggi antropomorfi. Confuso, Igor sbarrò gli occhi.

    In pochi istanti, muovendosi in sincronia, gli uomini in nero circondarono il fuoristrada. Il sole basso fece risplendere le visiere a specchio. Igor notò che tre di loro imbracciavano fucili automatici. Il quarto uno storditore elettrico. La foschia aleggiava sullo spiazzo isolato, rendendo l’atmosfera irreale.

    Che fosse un’altra delle sue allucinazioni? Possibile?

    Girò la chiave nell’accensione e il motore restò muto.

    L’uomo con lo storditore si accostò al SUV.

    La sirena suonò per l’ultima volta.

    Los Angeles, California, 22:33

    Come un tornado, Gabriel Fox uscì dallo spogliatoio, facendosi largo a spintoni tra la calca. Il grosso testone rasato era ancora umido di doccia. Se non fosse stato politicamente scorretto, i giornalisti lo avrebbero potuto definire «incazzato nero». Questo dettaglio parve così evidente da rendere schivi anche i fans più intraprendenti. Gabe «La Falciatrice» Fox, era un marcantonio alto due metri e dieci. Centoquaranta chili di muscoli da prendere con pinze, guanti e una scorta di cerotti.

    Come difensore, il ruolo a cui la sua enorme mole lo aveva destinato, Gabe aveva il record di placcaggi nell’ultima stagione. Alcuni arditi cronisti sportivi l’avevano già nominato migliore promessa del campionato. Per una matricola, al suo esordio nella massima categoria (anche se con un contratto da terzo mondo), era un ottimo spot pubblicitario. Nonostante questo, Gabe si era appena fottuto la finale del Super Bowl e aveva disputato la peggior partita della sua breve carriera.

    Troppi casini in testa per giocare bene.

    Senza dire una parola, Gabe percorse a grandi falcate il corridoio sotterraneo che portava al parcheggio riservato dello stadio, illuminato a giorno da una serie ininterrotta di tubi al neon. Procedette a testa bassa, ignorando la selva di microfoni, i flash dei fotografi e la torma di reporter televisivi esaltati che lo pressava con domande idiote del tipo: «Come ti senti, ora?»

    Come cazzo doveva sentirsi? Una merda umana.

    In lontananza, Gabe sentiva ancora la banda suonare e le ragazze pompon scandire i loro stupidi slogan. Il pubblico applaudiva e fischiava. Il destinatario di quei fischi era lui, ovvio. A parte la schifosa prestazione agonistica, nel concitato finale di partita si era fatto squalificare per gioco pericoloso. Aveva persino pestato un arbitro. Non era la prima volta.

    Rischiava di essere cacciato via dalla NFL.

    Intorno a lui, frattanto, le domande idiote aumentavano.

    «Che cosa farai adesso? Lo sai che il tuo avversario ha le gambe spezzate? Perché sei così violento? Dipende dalla tua infanzia? Ti presenterai in tribunale? Cosa rispondi alle accuse di violenza sessuale presentate in tv dalla tua ex? Ti ha lasciato? Non hai proprio niente da dichiarare, Gabe?»

    A forza di gomitate e spallate, Gabe raggiunse la sua vistosa Mustang e vi si barricò dentro. Aveva speso quasi tutto il suo ingaggio per quella macchina. Era sempre stato un suo sogno da ragazzino possederne una: gialla e nera, come una enorme vespa. Uno dei suoi tanti sogni, a dire tutta la verità.

    La tranquillità durò un attimo. Subito venne attorniato dal bagliore dei fari agganciati alle videocamere. Qualcuno picchiò sui finestrini. Gabe bestemmiò, ingranò la prima e scivolò faticosamente fuori dalla folla vociante. Aveva voglia di mettere sotto uno di quegli stronzi saccenti e presuntuosi. Disprezzava i giornalisti e le loro illazioni: «Sei stato truffato dal tuo procuratore? C’entri qualcosa con il suo incidente?»

    «LASCIATEMI IN PACE! VIA! VIA!» gridò Gabe.

    Schiacciò l’acceleratore e i giri del motore salirono al massimo. Udendo quel rombo assordante, la ressa si aprì come il Mar Rosso davanti a Mosè. La marea di cronisti d’assalto, supporter delusi e semplici curiosi si spostò di lato intimorita. Conoscevano tutti quanti l’indole aggressiva del campione.

    Non era il caso di rimetterci le gambe o il setto nasale.

    Gabe mollò la frizione e partì a tutto gas. La Mustang lasciò sull’asfalto del parcheggio strisce di pneumatico fuso e una nuvola cancerogena di fumo azzurrino. Gabe Fox andava sempre a tutto gas. Senza riflettere. Qualsiasi cosa facesse.

    Non era mai stato un gran pensatore.

    Imboccata l’autostrada, Gabe accese lo stereo e alzò il volume. Come sempre capitava, i suoi oscuri pensieri vennero placati, per il momento, dalla musica dei Gun’s and Rose’s.

    Batté a ritmo le mani sul volante e accelerò ancora.

    Nessuno l’avrebbe mai più rivisto.

    Gole del Verdon, Francia, 16:09

    Con un colpo di reni, le punte delle dita intorpidite dallo sforzo, Vivian Lecroy balzò sulla spoglia piana rocciosa della vetta. Spossata dall’arrampicata, Vivian ansimò e si stropicciò le mani sporche di magnesite sui pantaloncini, lasciandovi due vistose patacche bianche. Le gambe muscolose erano bruciate dal sole e graffiate dalle asperità della roccia, tuttavia facevano la loro figura. Lassù, però, non c’era nessuno ad ammirarle, tranne un paio di corvi gracchianti. L’aria era fresca e pulita.

    Soddisfatta, Vivian sollevò le braccia e urlò di gioia.

    Sotto di lei, il panorama era impressionante.

    Nel cielo azzurro, candide nuvole si rincorrevano veloci e giù, nella valle, l’erba accarezzata dal vento somigliava a un agitato mare verde smeraldo. Incuneato nella roccia viva, un torrente risplendeva di mille riflessi, d’oro e argento, tra le sponde coperte di larici e abeti. Nessun turista nei paraggi.

    L’unica stonatura di quel pomeriggio era il vento che le sferzava il viso abbronzato, dandole l’impressione di esserne quasi levigata e modellata. Era un po’ come essere investiti da un getto di sabbia. In quel momento, le furono chiari i concetti di «erosione eolica» e «azione dell’agente atmosferico» che, qualche anno prima, aveva studiato all’Università di Montpellier.

    Alla fine, tutto sommato, la gita era valsa la pena.

    Nonostante il fisico minuto da ragazzina, Vivian era una free climber esperta. Sapeva che con quel vento anche la parete più agevole poteva trasformarsi in una trappola mortale. Era sufficiente una folata anomala per perdere l’appiglio e cadere di sotto, sfracellandosi sopra guglie di pietra aguzze e taglienti. Avrebbe dovuto rinviare quella arrampicata. Tuttavia, la fatica e il rischio erano stati ampiamente ripagati da quello spettacolo della natura. Inerpicarsi su una parete, da sola, le procurava sempre una intima sensazione di quiete e calma interiore.

    Dio solo sapeva se ne aveva bisogno, in quel periodo.

    Decise di riposare un po’, prima di affrontare lo stretto e sinuoso sentiero in discesa. Inoltre, le era venuta anche fame.

    Sedette su una pietra piatta, incrociò le caviglie ossute e si riempì i polmoni di aria frizzante. Il vento le scompigliò i corti capelli biondi intorno alla faccia. Tirò fuori una barretta energetica dalla tasca dei pantaloncini, strappò l’involucro e ne staccò un bel morso. Masticò lenta il cioccolato e la frutta secca, sentendosi subito meglio, con gli zuccheri in circolo.

    Osservò il paesaggio circostante, mangiando in silenzio.

    Come ogni volta, poco dopo avere raggiunto una vetta, qualsiasi vetta, Vivian si domandò: che cosa ci faccio qui?

    Anche il pensiero successivo era sempre lo stesso.

    Semplice... Ti sei stufata di stare chiusa nel tuo angusto laboratorio e ne hai fin sopra i capelli di provette piene di schifezze prodotte dal corpo di persone che neanche conosci. Detesti il camice bianco, la puzza dei reagenti e le mani morte dei tuoi colleghi. Non sei fatta per restare al chiuso, ma devi farlo per lavoro. Ti piace stare da sola, eppure non lo sei mai.

    Ecco cosa ci fai qui.

    Uno strano rumore distolse Vivian dalle sue riflessioni.

    Aumentò d’intensità e riverberò sulle ripide pareti delle gole, simile a un battito cardiaco accelerato. Poi, d’un tratto, intorno a lei iniziò ad alzarsi un turbine di polvere e frammenti di roccia sbriciolata. Un’improvvisa tromba d’aria? Possibile?

    Alzò un braccio per proteggersi gli occhi dal pulviscolo.

    Che succede?

    Sbalordita, Vivian si alzò di scatto e cercò di non perdere l’equilibrio. Indietreggiò e si spostò dallo strapiombo.

    Il vento la schiaffeggiò con forza, facendola oscillare.

    Il rombo era assordante, adesso. Ritmico. Pulsante.

    Spaventati dal fracasso, i due corvi fuggirono lontano.

    Un Bell 505 verniciato di nero si librò all’improvviso davanti a lei e restò fermò in volo stazionario, a una decina di metri dal ciglio del baratro. Lo sportello laterale era aperto.

    Bloccata dalla sorpresa, Vivian sbarrò gli occhi e lasciò cadere a terra la barretta smangiucchiata. Restò allibita.

    Un uomo in tuta mimetica nera, il volto nascosto da un passamontagna, si sporse dall’abitacolo. Imbracciava un lungo fucile di precisione. La canna scintillò e puntò verso di lei.

    Un attimo dopo, qualcosa la colpì in pieno petto.

    Striscia di Gaza, Palestina, 01:20

    Dopo dodici ore, la pattuglia israeliana si allontanò e Alì poté sgusciare fuori dal suo oscuro e lurido rifugio. L’angusta galleria era piena di ragni, croste di ruggine ed escrementi di topo. Si soffocava là dentro. Ancora qualche minuto e sarebbe morto asfissiato. Di chi era stata la brillante idea? Alì non lo sapeva con certezza. Però aveva qualche sospetto. Silenzioso e furtivo, uscì dal buco e strisciò in mezzo alle rovine di uno stabile distrutto dai bombardamenti. Da qualche parte nel buio qualcuno tossì, sputò per terra e imprecò. Uno dei soldati era rimasto indietro per farsi una rapida pisciatina contro un muro.

    Alì attese che i passi si affievolissero.

    Poi continuò ad avanzare.

    La bomba al plastico che portava nella bisaccia pesava venti chili. Ogni volta che, per caso, la faceva sbatacchiare sul terreno il cuore gli schizzava in gola. Era una Guerra Santa, va bene, ma saltare in aria non era una prospettiva piacevole per nessuno, figuriamoci per un ragazzo di sedici anni. Alì non era come gli altri disperati e fanatici arruolati dal JoA, Justice of Allah. Non credeva affatto alle settanta vergini in attesa del suo martirio. Anche da morto, lo sapeva, le ragazze l’avrebbero ignorato. Era costretto a combattere. Non conosceva altra vita.

    Merda! Perché hanno mandato proprio me?

    In realtà lo sapeva bene il perché. Anche se a prima vista nessuno gli avrebbe dato credito, Alì era uno dei più pericolosi guerriglieri del JoA. Nonostante la giovanissima età, aveva già nel suo carniere un bel numero di attentati dinamitardi e una discreta raccolta di giudei maciullati. Insomma, un curriculum degno di rispetto. Così non c’era molto da stupirsi se per quella difficile impresa dietro le linee fosse saltato fuori il suo nome.

    Era sempre il primo della lista. Un martire annunciato.

    Poteva forse tirarsi indietro? Neanche per idea.

    Il suo principale credo era sempre stato la Palestina ai palestinesi. E se gli invasori ebrei volevano restare sulla loro terra potevano farlo... da cadaveri. Alla faccia dei diritti umani e delle ipocrite, false risoluzioni dell’Onu. La sua ambizione, più o meno consapevole, era quella di salire un giorno nelle alte sfere del comando e da lì poter condurre la Jihâd. Quando aveva iniziato era solo un bambino armato di pietre, fionda e odio. Ora i suoi commilitoni più grandi lo trattavano da pari.

    Quasi... Forse, lo avrebbero fatto dopo quell’impresa.

    Sbirciò sopra un tramezzo crollato e vide il bersaglio.

    Strisciando nel buio, sporco di polvere di cemento, Alì scivolò dietro un mucchio di macerie e riuscì a infilarsi sotto la pancia del Tank che sorvegliava un crocicchio strategico.

    Devo piazzare la carica di C4! Spero solo che non parta proprio adesso. Non vorrei essere stritolato dai cingoli...

    Il sudore che gli sgocciolava sugli occhi, sobbalzando per ogni fruscio sospetto, Alì collegò il detonatore al plastico.

    Fatto.

    Il panetto di esplosivo era al suo posto.

    Soddisfatto, Alì attivò il timer analogico, rotolò lontano dal carro armato e fuggì via di corsa. Quindici secondi più tardi si rintanò dentro un magazzino sventrato e aspettò il boato dell’esplosione. Contò i secondi mentalmente. Quello era il momento peggiore. I dubbi ti si affollavano nella testa come cavallette. Il fallimento era in agguato. Ho invertito i cavetti?

    Una violenta deflagrazione squarciò la notte.

    Subito dopo, lamenti, urla rabbiose, bagliore del fuoco.

    Un sorriso beato sulle labbra, Alì si aggiustò la cinghia consunta dell’AK-47 che portava a tracolla e, seguendo un percorso tortuoso, ritornò all’imbocco del cunicolo. Una volta richiusa la botola, accese una torcia e si avviò verso il bunker antiaereo che conteneva il quartiere generale del suo nucleo combattente. Soltanto cinque chilometri di camminata, a trenta metri di profondità. Era la parte più facile della missione. Tutto era andato bene. Allah sarebbe stato orgoglioso e, forse, anche il comandante Karbaz l’avrebbe elogiato. Era il quinto carro Mk4 israeliano che faceva saltare nelle ultime due settimane.

    Un bella impresa per un ragazzino imberbe.

    Preceduto dal fascio di luce polveroso, la testa china per non urtare le basse travi che sorreggevano il tetto della galleria, Alì si sentiva così eroico e invincibile che non fece attenzione a dove metteva i piedi. Infatti inciampò in una trappola che gli imprigionò in un attimo gambe e braccia. La torcia gli sfuggì di mano, cadde a terra, rotolò in un angolo e andò in frantumi.

    Quando, nel buio pesto, Alì venne circondato, stordito e catturato da un commando di ignoti, non oppose resistenza.

    Caracas, Venezuela, 23:15

    L’imbecille si protese verso Zoe e le baciò il collo.

    Poi sussurrò: «Mi fai salire da te?»

    Era stata una serata tranquilla. Non avevano parlato né della crisi economica né del magistrato ucciso di cui blaterava la tv. Il suo accompagnatore, per fortuna, non si interessava ai problemi dei poveracci e alla politica. Neppure un accenno ai drammatici fatti che avevano insanguinato le strade della città quella stessa mattina. Pareva che non gli importasse o proprio non ne fosse informato. Di certo avrebbe cambiato espressione se lei gli avesse svelato che era responsabile di quell’omicidio.

    Come faceva spesso in questi casi, Zoe aveva raccontato ad Antonio la testata balla della «studentessa d’architettura». Il bellimbusto l’aveva bevuta. Era il momento di dirgli addio.

    La coppia stava seduta al buio, in una costosa berlina, parcheggiata davanti alla villetta in cui lei gli aveva detto di alloggiare. Un modesto fabbricato circondato da un giardino trascurato e lugubri condomini. Non era vero. Zoe non aveva mai visto quell’abitazione, almeno fino a pochi minuti prima.

    «Mi dispiace…» disse. «Non posso farti entrare.»

    Il quartiere era silenzioso, la strada deserta e i lampioni insufficienti. Zoe cominciò con la solita recita. Sottraendosi al contatto untuoso delle sue labbra, la ragazza sospirò e chinò lo sguardo sulle mani che teneva intrecciate sul grembo come una scolaretta timida. Funzionava sempre con i maschi arrapati.

    Subito Antonio, ansioso, chiese: «Stai bene, Marisol?»

    Usava spesso quel nome. Si era ispirata a un western, il preferito dell’unico uomo che avesse mai amato: Omar. Dopo la sua morte, nel suo cuore c’era solo la rivoluzione. Neanche dieci ore prima, Zoe aveva trafitto di proiettili quel magistrato, mentre usciva dalla sua abitazione per recarsi in tribunale. Non era un soggetto a rischio, quindi niente scorta. Peggio per lui.

    «Sto bene» rispose. «Sono solo un po’ nervosa.»

    Zoe gli scoccò il suo collaudato sguardo da cerbiatta.

    Lui sorrise. «Ti ho già detto che sei bellissima?»

    «È stata una serata magnifica, davvero, ma non posso proprio farti salire» si scusò lei. «Come ti ho spiegato, convivo con una anziana signora. Una bigotta. Non ho il permesso di portare uomini in casa. Ci vediamo domani, d’accordo?»

    Domani sarebbe stata già a Cuba, in un rifugio sicuro.

    Deluso, Antonio borbottò: «Peccato, io… pensavo...»

    Lei faticò a mantenere il controllo.

    Pensavi che mi sarei fatta scopare da uno conosciuto oggi in un pub per figli di papà ricconi? Proprio un bel tipo!

    Nascondendo questi pensieri, con voce suadente, Zoe si sporse verso di lui e gli bisbigliò nell’orecchio: «Su, dai, non farmi il muso. Non posso proprio. Domani faremo faville».

    Per rafforzare il concetto e tenerlo buono, lo baciò con tutta la falsa passione di cui era ancora capace. L’uomo aveva fumato tutto il giorno sottili sigarette al mentolo, quindi per Zoe fu piacevole quanto leccare il fondo di un portacenere.

    Rasserenato dal fantasma del sesso futuro, Antonio si abbandonò sul sedile e schioccò la lingua. Il suo volto diventò speranzoso come quello di un bambino alla vigila di Natale.

    «Wow! A domani, allora!» esclamò eccitato.

    Con un fruscio di stoffa, Zoe scese dalla macchina.

    Chiuse lo sportello e si chinò sul finestrino abbassato.

    «Buonanotte» sussurrò. «Ti aspetto qui alle undici?»

    «Sarò puntualissimo!»

    Avvolta dalla frescura della notte, stringendo sul seno la sua borsetta, Zoe osservò la BMW che si allontanava a tutta velocità. Spinte dalla brezza primaverile, le cartacce e le foglie secche frusciarono rotolando sui bordi dei marciapiedi. Come ultimo saluto, l’imbecille suonò il clacson e svoltò l’angolo.

    Appena la berlina non fu più in vista, Zoe tornò indietro fino al primo incrocio. Camminò piano e i tacchi alti delle sue scarpe produssero un rumore simile a quello di un metronomo. Nell’oscurità incuneata tra due lampioni guasti, Zoe si fermò. Senza fretta, evitando gesti sospetti, tirò fuori dalla borsetta un telefonino usa e getta. Chiamò l’unico numero memorizzato.

    Appena collegata, disse una parola in codice e riattaccò.

    Nient’altro: loro avrebbero capito.

    La fuga era stata programmata fin nei minimi dettagli.

    Senza fretta, Zoe risalì la strada deserta, rifugiandosi nell’ombra degli androni ogni volta che passava una macchina. Non c’era nessuno in giro, nemmeno un gatto randagio, eppure si sentiva… osservata. Preoccupata, lanciò un’occhiata rapida alle molte finestre buie e accelerò il passo. Un vecchio bavoso e insonne la spiava nascosto dietro una tenda? Probabile.

    Superò un vicolo cieco, da cui esalava fetore di piscio.

    Stava per gettare il cellulare «bruciato» in un cassonetto colmo di immondizie, quando un braccio possente sbucò dalle tenebre alle sue spalle e si avvinghiò attorno al suo collo. Una grossa mano guantata di cuoio le sigillò la bocca. Avvertì un odore aspro, poco prima che il narcotico le saturasse i polmoni.

    Un ultimo pensiero. Questi non sono poliziotti.

    Poi... il nulla.

    Supramonte, Sardegna, 21:46

    L’ombra avanzò con cautela.

    Rintanato in mezzo ai folti arbusti di lentisco, mirto e corbezzolo, Jacu Arrosu posò il dito sul grilletto del suo fucile. Non aspettava visite. Erano pochi a sapere con precisione dove si trovasse e meno ancora quelli che desideravano incontrarlo.

    Soprattutto dopo il tramonto.

    Jacu stava per scaricare addosso all’intruso imprudente una rosa di pallettoni doppio zero, quando una voce familiare lo chiamò dall’oscurità. «Jacu? Oh! Ci sei? Sono io, Bobore!»

    Salvatore, detto Bobore, era il fratello più grande.

    «Cosa ci fai qui, a quest’ora?» domandò Jacu.

    «Devo parlarti…» rispose lui. «Non potevo aspettare.»

    Imprecando sottovoce, Jacu usci dai cespugli e tornò ad accosciarsi vicino al fuoco. Appoggiò il fucile a una grossa pietra. «Raju ti falet! Hai rischiato di farti ammazzare. Perché non hai usato il segnale che ti ho spiegato, prima di arrivare?»

    Jacu, latitante da più di dieci anni, era accusato di strage, omicidio, rapina a mano armata, sequestro di persona, abigeato e incendio doloso. Molti di quei reati non li aveva commessi. Gli erano stati attribuiti dai giudici solo per comodità. Quando in Sardegna c’erano dei casi insoluti e senza indiziati, il suo era sempre il

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