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La principessina dell'Emmett Peack
La principessina dell'Emmett Peack
La principessina dell'Emmett Peack
E-book453 pagine6 ore

La principessina dell'Emmett Peack

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Info su questo ebook

Ren Tinat arriva a Nercoast una mattina di settembre. Deve rappresentare la legge in quel luogo sospeso tra mare e monti, fiabesco ma anche pervaso da un senso di desolazione e abbandono.
Era finito su una brutta strada, Ren, dopo aver perso il lavoro e la moglie; solo l’affetto di due vecchi amici, l’Ispettore di polizia Rickey Crimmon, che gli ha affidato quell’incarico, e Pauli “Push The Button”, uno strozzino, l’ha salvato. Sempre perso a divagare, Ren, con la musica in testa, sull’onda dei suoi “strascichi di gioventù”.
A Nercoast si ritrova a indagare su un mistero che ruota intorno a Virginia Rockford, una donna carismatica e sfuggente, dal passato burrascoso.
Gli basta una foto per essere attratto da lei che, con il suo sorriso “come una V sdraiata” e l’indice ammonitore, lo coinvolge in una fuga mozzafiato da killer senza scrupoli; ma Ren è un “macho”, un duro, e se da un lato si prodiga per aiutare Virginia, dall’altro non ha nessuna intenzione di cedere al suo fascino. Di lei non si fida. Può cambiare davvero, una donna così? E sarà disposto, Ren, a concedere a lei e a sé stesso una seconda chance?
Un thriller avvincente dal ritmo serrato e dallo stile ironico e originale.
LinguaItaliano
Data di uscita5 apr 2023
ISBN9788855392976
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    Anteprima del libro

    La principessina dell'Emmett Peack - Nerio Nannetti

    La Principessina dell’Emmett Peack

    EEE - Edizioni Tripla E

    Nerio Nannetti, La principessina dell’Emmett Peack

    © EEE - Edizioni Tripla E, 2023

    ISBN: 9788855392976

    Collana Adrenalina, n. 21

    EEE - Edizioni Tripla E

    di Piera Rossotti

    www.edizionitriplae.it

    Tutti i diritti riservati, per tutti i Paesi.

    Cover: credits to canstockphoto.com e Dall-E2. Elaborazione grafica di Tripla E.

    Nercoast, Lylearn

    Il piccolo cabinato beccheggiava pigramente al ritmo delle onde.

    Onde piccole, basse, acque stranamente calme al largo di Nercoast, solitamente accarezzata da un vento dolce che increspava il mare e attirava gli amanti della vela.

    Fu trainata a riva da un pescatore dilettante che la giudicò la sua migliore, nonché unica preda della giornata e consegnata all’autorità locale.

    Non aveva un nome stampigliato sullo scafo, cosa strana, probabilmente non era obbligatorio averlo, ma la tradizione e le regole non scritte del galateo nautico lo imponevano, pensò l’autorità locale, anche solo per un simbolico rispetto.

    Quella piccola imbarcazione gli ricordava la storia in miniatura del Mary Celeste, il brigantino canadese, varato in Nuova Scozia nel 1861 che, dopo diverse sfortunate disavventure, fu ritrovato il 13 Dicembre 1872 nelle acque tra il Portogallo e le Isole Azzorre, senza nessuno a bordo, alla deriva, in direzione dello Stretto di Gibilterra.

    Ritrovamento che contribuì ad alimentare le leggende delle navi fantasma.

    L’‟autorità locale" Ren Tinat sorrise con disincantata ironia. Non ce la faceva a immaginarsi Nercoast sede di un altro mistero planetario.

    Non lo sarebbe stato, infatti.

    Ma per lui e per la sua vita sarebbe stato molto, molto di più.

    CAPITOLO 1

    Non trovava più lavoro, i conoscenti lo evitavano, i clienti e gli amici di nuovo corso erano diventati tutti irreperibili. E non avrebbe mai chiesto aiuto ai vecchi amici. Avevano già i loro, di problemi.

    Cominciò a bere un po’ troppo, a frequentare bar e tornò a menar le mani. Strascichi di gioventù.

    L’unico lavoro glielo procurò un usuraio che incontrò una sera, in uno di questi bar. Lo avrebbe mandato da malcapitati clienti insolventi a riscuotere i loro debiti.

    Quello strozzino si era rivelato più amico di tanti altri, restituendogli favori che lui gli aveva fatto tanti anni prima, mettendolo a libro paga pur non avendo la stretta necessità, se così si poteva dire, della sua manovalanza.

    Pauli era soprannominato Push The Button. Il motivo? Quando sentiva l’odore dei soldi si accendeva improvvisamente come se qualcuno, appunto, avesse pigiato un bottone. E conosceva Ren Tinat da una vita.

    Erano cresciuti nello stesso difficile quartiere e avevano combinato diverse piccole marachelle insieme, da bambini e poi marachelle un po’ più grandi insieme, da ragazzini. Ne era passato di tempo da allora. Ren si trovava ormai sulla soglia dei quarantacinque anni e Pauli era di un paio d’anni più giovane.

    A quei tempi, Pauli si metteva spesso nei guai, e Ren l’aveva salvato più di qualche volta.

    Poi Ren aveva smesso di fare marachelle, piccole o grandi. Pauli, invece, no.

    E quando Ren gli chiese come mai dopo tanti anni si fosse ripresentato e lo avesse messo a libro paga per lui, visto che non gli assegnava mai un incarico, Pauli Push The Button rispose, sorridendogli: «Tu sei pericoloso, Ren, perché pensi.»

    Sorrise anche Ren giudicandolo, forse, il miglior apprezzamento mai ricevuto. Non lo aveva considerato un complimento ma un ammonimento.

    Quest’uomo, considerato un poco di buono, lo pagava per riconoscenza verso i tempi passati. Aveva un codice d’onore che tante persone cosiddette rispettabili non avrebbero mai capito.

    Conoscendolo meglio, Pauli Push The Button si sarebbe potuto definire uno strozzino sui generis. Per questo la sua attività andava bene ma non era mai decollata. Spesso, i quattrini che gli dovevano i suoi clienti, lui li andava a recuperare a chi truffava i suoi clienti. Aveva la sua etica.

    Un conto erano quelli che sperperavano i soldi che non avevano per libera scelta, per così dire. Ma a Pauli Push The Button non piaceva avere a che fare con malcapitati succubi, protagonisti di storie diverse ma con la costante di essere vittime di altri e non carnefici di sé stessi. Costringendo persone perbene ad andare a chiedere a lui soldi che non avevano e che non avrebbero mai avuto. E che, quindi, non gli avrebbero mai potuto restituire.

    Un giorno saltò fuori che un tizio doveva a Pauli un bel po’ di soldi. E Pauli aveva fatto le solite indagini.

    Conosceva tutto di tutti, fin da ragazzo. Era meticoloso. Ren si era sempre chiesto come facesse. Scoprì che quel tizio gli doveva un bel po’ di soldi perché si rivolgeva spesso a un altro tizio, di professione indovino, per conoscere il suo futuro. Meglio prevenire che curare. A chi non piacerebbe? Tutto ruotava attorno a una donna. Il primo tizio aveva perso la testa, per quella donna. E sperava, potendo sapere in anticipo le mosse della sua amata, di fare la cosa giusta per conquistarla. Un fesso. E l’altro tizio era uno stronzo che si approfittava di un fesso.

    Ren era nello spirito giusto e voleva finalmente rendersi utile.

    Quello non era mai stato il suo ambiente, ma si stava autoconvincendo di essere un duro anche lui, in mezzo a quelli che attorniavano il suo amico Pauli Push The Button. Quindi quella volta si era offerto volontario per andare lui a riscuotere. Non dal fesso ma dall’indovino. Ovvio.

    Così si presentò all’indovino al posto del fesso. Abitava in periferia, in un decrepito condominio anni Settanta. Architettura Béton brut o Cemento grezzo, il Brutalismo, la dirompente espressività del calcestruzzo lasciato a vista e non rifinito. Sembrava un carcere. Con i segni imperfetti delle assi di legno delle casseforme utilizzate per la sua costruzione, ormai sgretolato lungo i bordi e negli angoli. Un bunker. Finestre alte poste in orizzontale, lunghe e strette e con grosse sbarre. E porte in ferro con cancellate di ferro. Che davano su un ballatoio esterno. Si accedeva da scale circolari sempre esterne e sempre in cemento armato non verniciato.

    Béton brut era un nome figo, in realtà quel posto era solo un inno alla cieca avidità di qualche palazzinaro dell’epoca, ben introdotto all’ufficio edilizia comunale.

    Suonò alla porta e si sentì rispondere: «Chi è?»

    «Cominciamo bene!» A Ren quella domanda non parve un granché come pubblicità, per un indovino. Scrollò le spalle, sputò a denti stretti il nome del fesso e la porta si aprì con un ronzio metallico.

    Rispose al «Chi sei tu?» con un «Indovinalo!»

    Poco dopo uscì con i soldi del fesso, anzi di Pauli Push The Button in una tasca e il resto di quello che l’indovino aveva nella piccola cassaforte nell’altra. Bottino di guerra. Strascichi di gioventù.

    Lo avrebbe dato a Pauli Push The Button, che non lo avrebbe voluto. Così lo avrebbe tenuto lui.

    Era stato tutto molto facile, l’indovino non aveva opposto una gran resistenza. Era decisamente più bravo con le sfere di cristallo che con le mani.

    Era un settore in espansione e al suo amico strozzino forse avrebbe fatto comodo un socio.

    Gli aveva appena consegnato i soldi recuperati e sentiva a ogni passo la mazzetta di quelli che non aveva voluto, come previsto, sfregargli la gamba da dentro la tasca. La facilità con cui aveva portato a termine la missione lo aveva ringalluzzito. «Non male per un dilettante» si era detto, compiaciuto.

    Si avviava distrattamente verso lo squallido monolocale che sempre Pauli Push The Button gli aveva messo a disposizione gratuitamente. Lui non aveva più un posto dove andare. E Pauli lo sapeva.

    Conosceva tutto di tutti, fin da ragazzo. Era meticoloso. Ren si era sempre chiesto come facesse.

    Imparò quella sera che chi praticava quel mestiere non doveva mai distrarsi troppo.

    «Sei stanco?» Una voce davanti a sé lo fece sobbalzare dalla sorpresa. Nel buio non riusciva a intravedere il volto del suo interlocutore ma il tono tagliente lo preoccupò.

    Così rispose, guardingo: «Prego?»

    «Sei stanco di vivere?»

    Domanda impegnativa. A quell’ora tarda, la parte filosofica di Ren dormiva già. «Spiegati meglio, amico mio. Stanco di vivere in generale? Stanco di vivere così? O stanco di vivere con dei rompicoglioni che mi si piazzano davanti a farmi domande idiote mentre mi sto facendo gli affari miei?»

    Chiamiamolo intuito, ma Ren aveva la netta sensazione che quella faccenda sarebbe degenerata. Che diventò una certezza quando quel tizio decise di smettere di fare domande idiote e di tirare fuori una pistola.

    Ren non sapeva quasi nulla di armi. Solo che sparavano e uccidevano. E gli bastava, per fotografare quel momento.

    Si guardò attorno ma non vide altre ombre sbucare ai suoi lati o dietro di sé. Era all’inizio della sua carriera di esattore, non si era ancora fatto un nome nell’ambiente.

    Si sentiva in balia degli avvenimenti, di quelli disastrosi accaduti, che lo avevano trascinato così in basso, e di quelli disastrosi che stavano per accadere, con la disarmante sensazione di esserne solo una comparsa senza nessun potere decisionale. Era tornato in men che non si dica un dilettante. E non era una bella sensazione.

    Una sola cosa lo aiutava a tirare avanti. Da sempre. La sua determinata capacità di improvvisazione. Quando c’era da ballare, Ren ballava. Non si era mai tirato indietro.

    Si adattava alle situazioni che non poteva cambiare. Cercando di cambiarle. Testardamente. Forse era insensato orgoglio o forse solo stupidità, non lo aveva mai capito fino in fondo. E giudicò, con apprezzabile realismo, che non fosse certamente quello il momento giusto per rifletterci su. Sicuro.

    Trarre in inganno. Era sempre stata la sua tattica fin da ragazzo, un bel sorriso rassicurante prima di un deciso attacco.

    Comunicare sornione all’avversario di turno che conterai fino al tre per lasciargli decidere cosa fare e poi scattare all’uno, con mossa scorretta, decisa e spiazzante. E aveva sempre funzionato.

    Però questi non erano come i ragazzi di strada con cui aveva avuto a che fare in passato. Erano professionisti. Ma non lo conoscevano e l’avevano sottovalutato. Gli succedeva, ogni tanto. Sapeva camuffare bene il suo essere un dilettante. Un vantaggio.

    Il suo atavico istinto di sopravvivenza gli imponeva di girare sui tacchi e scappare il più velocemente possibile. Il suo realismo gli suggeriva, antipatico e saccente, che una pallottola correva molto più velocemente di lui e il suo lato filosofico, risvegliato bruscamente da quel tizio, tentava di convincerlo, impaziente di riprendere il suo sonno, che anche una pallottola conficcata in un organo vitale avrebbe costituito una valida soluzione a tutti i suoi problemi.

    Il suo buonsenso, in quel momento, optò per una vile latitanza, come gli succedeva troppo spesso, ultimamente. Non alzò la manina per chiedere la parola e non si scagliò contro i suoi antagonisti immaginari. Era assolutamente certo che, in quel momento e in quello specifico caso, non fosse per nulla gradito il suo parere, così si fece piccolo piccolo e se ne stette rintanato senza fiatare.

    Ren non sapeva a chi dare retta e non c’era tempo per un costruttivo scambio di opinioni interno a sé stesso e una messa ai voti della soluzione migliore. Gli sarebbe piaciuto, lui era fatto così, ma non ce n’era davvero il tempo, quindi fu il suo lato creativo e istintivo a prendere il sopravvento. Non lo aveva mai tradito

    Quindi, si disse, vada come deve andare.

    La disperazione e il fatalismo, con due gelidi cubetti di chissenefrega, tre gocce di indolente indifferenza e una fettina di sano cinismo conficcata nel bordo della sua personalissima copita, sembravano davvero un cocktail gustosissimo e micidiale. Invitante. Prometteva bene. E Ren l’avrebbe trangugiato tutto in un colpo solo, quel cocktail. Sicuro.

    Dilettante, sì. Impaurito, sì. Ma con tanto orgoglio in corpo.

    Così chiese, più che altro per prendere tempo, sempre con quella dispettosa e indisponente sensazione di paura ad attanagliargli lo stomaco: «Chi sei e cosa vuoi?»

    «Indovinalo!»

    L’indovino, cazzo! Quello stronzo aveva degli amici? Impossibile. Quello stronzo non poteva avere amici, al massimo poteva avere dei complici, forse quelli che gli procuravano i fessi.

    La faccenda si metteva male. E Ren ne fu sorpreso. Quella faccenda per lui era finita una volta uscito dal bunker in cui stava quell’indovino da strapazzo. Dilettante, si disse. Sei un dilettante.

    Uomo di mezza età trovato morto in un vicolo. Si pensa ad una rapina finita male.

    Un trafiletto nella cronaca nera delle pagine locali di un quotidiano nazionale. Introvabile.

    «Ti sei fatto predire il futuro prima di venire qui, amico? Non credo, altrimenti non saresti venuto. Sapresti già che i tuoi soldi non li ho più io. E sapresti già che non finirà bene per te, questa sera. Il tuo indovino non lo ha previsto? Fatti restituire i soldi, amico!»

    Dilettante, sì. Impaurito, sì. Ma sempre con quell’orgoglio in corpo.

    Uomo di mezza età trovato morto in un vicolo. Si pensa ad una rapina finita male. Ma sembra che abbia fatto lo spiritoso fino all’ultimo.

    Un trafiletto nella cronaca nera delle pagine locali di un quotidiano nazionale. Introvabile.

    La domanda seguente fu pronunciata da un’altra voce e gli piacque decisamente di più.

    «Hai sentito cosa ti ha detto, bello mio? Vai dal tuo amico indovino e fatti restituire i soldi. Altrimenti non finirà bene per te, questa sera! O sei tu quello stanco di vivere?»

    Ren fu sorpreso e sollevato.

    L’altro tizio fu sorpreso e sollevato anche lui. Dal montante che gli arrivò sotto il mento quando si girò per capire chi avesse parlato.

    Poi l’Ispettore Capo della Polizia di Lylearn Rickey Crimmon aveva avvicinato quel tizio, aveva raccolto e si era intascato la sua pistola e gli aveva prospettato il suo futuro. Erano previsioni pessimistiche, ovviamente. Nel suo caso non era necessario essere indovini.

    Così il tizio si alzò faticosamente, mettendosi carponi, come un grosso orso obeso e stordito che non riesce a rizzarsi su due zampe e se ne andò barcollando.

    Poi l’Ispettore Capo della Polizia di Lylearn Rickey Crimmon aveva avvicinato Ren Tinat e gli aveva prospettato anche il suo, di futuro. Erano previsioni pessimistiche, ovviamente. Nemmeno nel suo caso era necessario essere indovini.

    Gli aveva offerto un’alternativa. O finire nei guai e uscirne solo tradendo Pauli, o dare una mano a un suo vecchio amico. Anzi, o dare una mano a due suoi vecchi amici, Pauli e Rickey.

    Ren aveva rivisto il rispetto negli occhi di Rickey e si era convinto ad accettare quello strano incarico che gli proponeva.

    L’Ispettore Crimmon gli spiegò per sommi capi quello che avrebbe dovuto fare, poi se ne andò.

    «Ma è l’ultima volta che metto a posto i tuoi casini!»

    Una persona ancora credeva in lui, e tanto gli bastava.

    CAPITOLO 2

    Arrivai a Nercoast in una giornata di fine settembre, attorno alle cinque e mezzo del mattino.

    Il pullman di linea che passava sulla statale mi aveva lasciato all’ingresso occidentale della cittadina ancora addormentata. C’era un grande cartello sbiadito dal sole, dal tempo e dalle intemperie, illuminato da due faretti posizionati in alto, sorretti da sottili barre ricurve. Accentuavano il senso di abbandono, con i due coni di luce alogena resi indistinti dalla nebbiolina che stava evaporando via che li attraversava. C’era una scritta, anch’essa sbiadita dal sole, dal tempo e dalle intemperie.

    Nercoast, il paradiso terrestre.

    Per descrivere quei caratteri scoloriti e opachi mi sarei dovuto attorcigliare su me stesso.

    La cinghia che mi pendeva da una spalla sosteneva un borsone con un noto marchio sportivo stampato sui lati. Conteneva qualche indumento di ricambio e qualcosa di molto più prezioso, alcuni vinili unici sopravvissuti di una ben più vasta collezione.

    Lanciai un’occhiata all’orologio; erano passate sei ore dalla mia disavventura con il tizio mandato dall’indovino.

    Mi domandai per quale motivo Rickey mi avesse mandato in quel posto desolato e deprimente. Ma non avevo avuto scelta. Poter scegliere era un lusso che non mi potevo più permettere da un po’ di tempo, ormai.

    Attraversai la piccola cittadina andando diritto a est, verso la spiaggia. Percorsi un viale. Tutte le saracinesche erano abbassate. Alcune per l’orario: quelle attività avrebbero aperto i battenti più tardi, mentre altre mostravano quello strano senso di abbandono, come se fossero chiuse da anni, aggredite dalla salsedine marina, incrostate da macchie di ruggine qua e là.

    Solo un paio di vetrine alla fine della strada, all’angolo con il lungomare, erano illuminate da neon bianchi e solo un’insegna rischiarava il crepuscolo mattutino: Vince.

    Ed era proprio il posto che stavo cercando.

    Il proprietario, in un impeto di irrefrenabile fantasia aveva pensato di chiamarlo con il suo nome. Vince, appunto.

    Da fuori sembrava un bar con cucina e il cartello plastificato, sostenuto da un cavalletto simile a quelli dei pittori di strada, pubblicizzava colazioni, hot dog e hamburger.

    Entrai e ordinai un caffè doppio zuccherato e un calzone con prosciutto e formaggio. Il contrasto tra dolce e salato mi era sempre piaciuto.

    Il locale era pulito e Vince mi accolse con un sorriso cordiale, nonostante non avessi l’aspetto di uno spendaccione. Mi servì la colazione e mi squadrò con una certa curiosità.

    Mi chiese se volessi sedermi e accettai avviandomi verso un tavolo vicino alla vetrata, da cui si godeva una visuale magnifica del panorama. Avrei preferito sedermi all’aperto, ma fuori i tavolini e le sedie erano ancora impilati gli uni sopra agli altri. Vince aveva aperto da poco.

    Arrivò con l’ordinazione, posò il vassoio sul tavolo, poi appoggiò le mani sulla spalliera della sedia di fronte a me e si sporse in avanti, spostando il peso sulle braccia rigide. Mi chiese se volessi altro o se mi servissero indicazioni. Probabilmente non arrivavano tante facce nuove in quel periodo. Gli risposi che no, era tutto a posto e lo ringraziai

    Vince tornò alle sue faccende e io finii la colazione, apprezzando molto i carboidrati e il calore del caffè che si diffondeva in tutto il corpo.

    Uscito dal locale, mi incamminai fino alla spiaggia. Spirava un venticello leggero che mi indusse ad alzare la felpa attorno al collo, stringendo un po’ i cordoncini del cappuccio. I marosi si infrangevano sulla battigia. Tutto molto romantico, se fossi stato mano nella mano con una donna dopo una notte, per così dire, movimentata. Escluso il piccolo particolare che in quel momento non avevo nessuno spirito romantico, non avevo una donna e la notte era stata movimentata per gran parte solo per via degli scossoni e del frastuono del vecchio pullman che mi aveva condotto lì.

    Però il sole che cominciava ad apparire all’orizzonte, ragazzi, che spettacolo! Rimasi fermo per un po’ a fissare quella forza della natura, rigirando con la mano il cellulare che tenevo in tasca con un movimento meccanico che riuscì a rilassarmi. Poi lo estrassi, composi un numero, scambiai poche battute e mi avviai di nuovo verso il locale di Vince. Ordinai un’altra colazione. Avevo bisogno di caffè per placare il mio cattivo umore e di altri carboidrati per placare il vuoto che sentivo nello stomaco. Che però, forse, non era dovuto alla fame.

    Tim McKiin arrivò quasi subito, segno che era preparato al mio arrivo fin dal mattino presto, cosa che apprezzai. Mi diede il benvenuto e mi portò a visitare il mio nuovo ufficio. Andammo a piedi, era vicino.

    Quel locale probabilmente era abbandonato dai tempi dei primi coloni che arrivarono in quel posto e arredato con gli scarti di qualche fatiscente albergo della zona, pensai. L’unica modernità era una rampa di cemento zigrinato che scendeva fino a una porta a doppio battente che era stata chiaramene costruita in un secondo tempo e da cui si accedeva a un locale adattato a garage che comunicava direttamente con l’ufficio tramite una scala a chiocciola interna. Mentre guardavo quell’ambiente mi preparai al peggio: Se mi daranno anche un’auto, sarà sicuramente un vecchio catorcio. Sicuro. E non osavo immaginare come sarebbe stata la casa che mi avevano messo a disposizione gli zelanti cittadini di Nercoast.

    Mi sbagliavo in entrambi i casi.

    La prima per eccesso. Non c’era nessuna auto per me.

    La seconda per difetto. Rimasi davvero stupito quando arrivammo sul lungomare, dopo un breve tragitto su una strada parallela a quella dove si trovava il Vince, davanti a un villino.

    L’esterno mi piacque tantissimo, era dipinto di un azzurro pastello tenue, con le finestre, la porta e i contorni degli infissi di un bianco accecante sotto quel sole di fine estate. Una piccola palizzata di legno, a dare il benvenuto a chi si avvicinava. Era quasi un invito a entrare.

    Quando feci notare la differenza tra il decrepito ufficio e lo splendore di quella casa al Signor McKiin, che dubbioso, vista la freddezza con cui lo avevo trattato fino a quel momento, mi pregò di chiamarlo Tim e di passare al tu, quest’ultimo scoppiò in una fragorosa risata e rispose: «Beh, la differenza è una sola, l’ufficio è di proprietà della comunità, mentre questa casa è mia.»

    «Veramente bella» commentai. «Un giorno mi mostrerai dove abiti, visto che ti puoi permettere di lasciare disabitato un posto così.»

    Mentre Tim apriva il cancello ed entravamo nel vialetto d’ingresso nel giardino, mi rispose che quella era stata la casa dei suoi genitori e che lui, da quando si era sposato ed aveva avuto le figlie, si era dovuto trasferire in una casa più grande. «Ma non così bella», sentenziò.

    Mi spiegò anche che ora quella casa la affittava solo a un’anziana coppia di affezionati turisti per i tre mesi estivi e che da quel momento era a mia disposizione per tutto il tempo che mi sarei fermato a Nercoast.

    Anche l’interno della casa mi piacque. Dominavano il bianco e l’azzurro e dalla portafinestra del salotto si accedeva direttamente alla spiaggia. Quella costruzione era un tutt’uno con l’ambiente, in una perfetta sintonia di forme e colori.

    Non mancai di notare un vecchio giradischi che avrebbe avuto un certo valore in un negozio di modernariato. E non mancai di posare sul vicino scaffale ciò che restava della mia collezione di vinili.

    In quel primo giorno di permanenza a Nercoast, non feci letteralmente nulla. A parte il tragitto casa-ufficio, alcune passeggiate a piedi per familiarizzare con il posto e ascoltare la mia musica.

    Mi sentivo apatico, non avevo voglia di fare bagni in quel mare di fine stagione, men che meno di sdraiarmi su quella lunga distesa di sabbia deserta e meno ancora di conoscere gente.

    Così passai la maggior parte del tempo seduto su una vecchia sdraio in veranda, a fissare il lento movimento del mare e l’orizzonte, come se mi aspettassi delle risposte da loro.

    Ripensavo spesso al mio incontro di poche ore prima con Rickey Crimmon. E alle parole che mi aveva detto: «Sei l’unica persona di cui so di potermi fidare ciecamente fino in fondo.»

    Quella frase mi aveva colpito perché non prevedeva risposta; non era né una domanda, né un’affermazione. Era una semplice constatazione. O un’abile tattica psicologica.

    E messa in atto dopo avermi proposto quel lavoro con la promessa che, alla fine, avrebbe chiuso un occhio su tutto il resto. Dovevo solo recarmi in quel posto e non fare nulla.

    «Davvero sparirà quella storia?» gli avevo chiesto.

    «E quale storia?» aveva risposto Crimmon.

    Quando mi ero voltato per ricordargli bruscamente di quale storia stessimo parlando, avevo visto il sorriso di Rickey e avevo capito. Quel sorriso lo conoscevo da quando eravamo giovani, da quando condividevamo una confidenza con la certezza che sarebbe rimasta sconosciuta per tutti. Nemmeno a Fort Knox sarebbe stata più al sicuro.

    E, tattica psicologica o no, era vero che Rickey si sarebbe potuto fidare di me. Fino in fondo.

    Ma fino in fondo a cosa? sapevo che era inutile fare domande che non avrebbero ricevuto risposta. Così non le avevo fatte. Ci conoscevamo troppo bene.

    E sapevo anche che se un Ispettore Capo della Polizia era costretto a chiedere aiuto a un civile era bene, per quell’Ispettore Capo, che quel civile fossi io.

    CAPITOLO 3

    Quello che era rimasto di Nercoast, l’ex paradiso terrestre, era una piccola località di villeggiatura sul mare, una volta molto frequentata anche per via della sua vicinanza con montagne abbastanza elevate. Questo faceva sì che una particolare circolazione dell’aria le permettesse di avere sempre al largo delle sue coste una brezza leggera e continua. Il Rocky Sourway, che la sovrastava, misurava 1221 metri e dava origine a sorgenti naturali d’acqua provenienti dalle falde acquifere del sottosuolo, una delle quali ha preso il nome di Narber Creek. Il Narber Creek scendeva fino al mare dove, riaffiorando sulla spiaggia, dava vita a un particolare fenomeno di sabbie mobili.

    Una volta sfruttata come attrazione turistica, con tanto di annessa e lontana leggenda di un ignaro imbonitore ambulante ingoiato assieme al suo carro e ai suoi buoi che lo trainavano, questa particolare zona era ora recintata dietro alte mura di cemento.

    Gli unici ingressi erano un cancello sul lato sud e un altro sul lato nord. Perennemente sbarrati con grossi lucchetti. Chiusa e abbandonata, non interessava più a nessuno. Umiliata da quella robusta recinzione che amplificava il senso di degrado in cui era lasciata, quasi come fosse un vecchio che non trovava più giovani orecchie a cui potessero interessare i suoi ricordi, veri o immaginari che fossero. Le piccole palme che avrebbero dovuto darle un tocco di vacanziera spensieratezza, crescendo, nel tempo, avevano coperto i cartelli di pericolo con le due manine che chiedevano aiuto e la scritta ‘PERICOLO SABBIE MOBILI’. Forse così facevano meno paura.

    Ren vi si imbatté durante una delle sue passeggiate del primo giorno a Nercoast. Non ci fece tanto caso, non vi diede nessuna importanza e non gli suscitarono nessun commento. Non gliene fregava niente, né di quelle né di tutto quanto il resto.

    Negli anni d’oro, a Nercoast nacque anche un circolo nautico di gran successo, il Magical Breeze, oltre ad alberghi, bar, ristoranti, sale da ballo e tutti gli annessi e connessi per far godere ai turisti una serena vacanza. La scarsa lungimiranza degli amministratori locali e un po’ di crisi economica ne decretarono il declino.

    La cittadina rimaneva comunque un piacevole agglomerato di case, ben tenute dagli abitanti del luogo e tinteggiate con piacevoli colori pastello, che si addicevano a quella località sul mare.

    A Nercoast sopravviveva ancora, contro ogni logica, quasi come un nobile decaduto, un hotel di lusso, il Nercoast Golf Beach Club Hotel. Se ne stava appollaiato su una collinetta a nordest.

    Struttura imponente e sontuosa. Nel giardino antistante, bandiere di diverse nazionalità in cima ad alte aste di acciaio si muovevano pigre, mosse dalla leggera brezza. Stavano lì come per dire: siamo internazionali ma troppo modesti per aggiungere International a Nercoast Golf Beach Club Hotel. A voler essere precisi, in quel nome due parole erano vere, Nercoast e Hotel, due false, Golf e Beach. Era evidente. Non si vedevano campi da golf e spiagge nelle vicinanze. La quinta parola era ambigua. Club.

    Chissà, forse si doveva presentare una tessera per poter entrare? O si doveva dire una parola d’ordine in tono cospiratorio. O bastava presentarsi al bureau muniti di carte di credito adeguatamente pingui. O contanti. No, contanti no, faceva meno figo, non li avrebbe usati nessuno in un posto così. A voler essere pedanti poi, dicono ‘l’onestà paga’, ma se avessero chiamato quel posto Nercoast Hotel, chi se lo sarebbe mai filato?

    E poi forse, una volta, dietro le bandiere sulle aste e dietro l’imponente struttura si sarebbe potuta vedere una sterminata distesa di verdi campi da golf sulla collina, con i giocatori come tante macchioline colorate che si muovevano. E il mare avrebbe potuto lambire la struttura, infrangendosi su qualche scoglio messo lì per proteggerla. E le aste con le bandiere essere piantate nella sabbia. Assieme a quella bianca o rossa che sta a indicare se si può fare o meno il bagno in mare. Una spiaggia in cui le adorabili o perfide donzelle che accompagnavano i baldi golfisti avrebbero dato fondo alle loro personalità, ne sarebbero state il fulcro, ne avrebbero dettato i pettegolezzi estivi.

    In fondo, chi siamo noi per giudicare?

    E poi, perché mai a Ren avrebbe dovuto fregargliene qualcosa del nome che avevano dato a quel posto?

    Spesso si poneva domande inopportune nei momenti meno opportuni. Aveva una cronica tendenza a divagare anche quando non avrebbe dovuto. Strascichi di gioventù.

    Il Nercoast Golf Beach Club Hotel o, a seconda dei gusti, Nercoast Hotel, era ancora discretamente frequentato, soprattutto da clienti benestanti che lo usavano per viaggi d’affari o come tappa di qualche loro escursione turistica. La zona lì intorno abbondava di luoghi storici con appassionanti storie di un passato remoto di imprese guerresche e adùlteri amanti. Forse erano attratti anche dal nome altisonante, dai vecchi arredi o dall’atmosfera vagamente retrò che si respirava entrando nell’ampio salone con il vecchio bureau di noce scuro consumato da decenni di lucidature, dai divanetti stile Belle Époque in legno intarsiato con sedute e spalliere decorate con elaborati ghirigori dorati, o dai giganteschi lampadari a goccia che valorizzavano gli splendidi soffitti ornati da greche e stucchi vari.

    Artigiani di una volta, lavori fatti bene.

    Con scrupolo e puntigliosa passione che rendeva i clienti soddisfatti del risultato ottenuto e ben disposti ad aprire i cordoni della borsa. Il miglior apprezzamento per un lavoro ben fatto.

    Quello che rimaneva oggi di tutto questo dava al posto quell’aura nostalgica dei bei tempi andati.

    Ancora avvolto nel suo alone di sfarzosa pomposità, a chi passando lo guardasse, avrebbe dato l’impressione di essere ritornato ai bei vecchi tempi.

    Ora Nercoast, già poco frequentata da villeggianti all’apice della stagione era, quasi a fine settembre e seppur ancora baciata da un caldo sole, quasi deserta.

    L’ autorità locale Ren Tinat era entrato in servizio a Nercoast solo da poche ore e doveva il suo particolare incarico a due fattori.

    Primo, la grande amicizia con Rickey Crimmon, un Ispettore Capo della Polizia di Lylearn, del cui distretto faceva parte anche Nercoast, pur distante quasi 140 chilometri.

    Secondo, la disponibilità degli abitanti di Nercoast, nata da un’improvvisa intuizione di un loro concittadino, Tim McKiin, a sobbarcarsi una piccola spesa procapite per pagare qualcuno che garantisse loro più sicurezza. A causa della lontananza dal suo capoluogo e della stretta economica, non c’erano i fondi necessari per tenere aperta una stazione di polizia permanente in quella piccola località di mare.

    Non che fosse successo qualcosa di particolarmente brutto negli ultimi tempi che giustificasse la presenza di qualcuno che garantisse più sicurezza. Non era successo neppure qualcosa di particolarmente bello che la escludesse, però. Negli ultimi tempi non era successo assolutamente nulla a Nercoast. Né di bello né di brutto.

    Il solito nulla di sempre, ma Tim McKiin aveva prospettato quel nulla, ai tranquilli abitanti di quel pacifico posto, come un po’ più inquietante del solito.

    Ren Tinat si poteva dunque considerare un atipico riservista, stipendiato dagli abitanti di Nercoast e autorizzato dall’Ispettore Capo della Polizia di Lylearn Rickey Crimmon con una forzatura, sottoforma di un contratto di consulenza per lo studio di un improbabile progetto di autodifesa dei cittadini, a dare un senso di sicurezza a quella piccola comunità.

    L’Ispettore Capo Crimmon si era assunto una grossa responsabilità.

    Tanto grossa che avrebbe anche potuto rovinargli la sua brillante carriera costantemente in ascesa, ma aveva ritenuto che ne valesse la pena. Aiutare un vecchio amico che stimava e che era caduto in disgrazia rendeva insignificante ogni rischio. E poi lui si fidava di

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