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E-book379 pagine4 ore

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Info su questo ebook

Pochi giorni frenetici di fine estate, in cui si corre davvero il rischio di far scoppiare la Terza guerra mondiale. Il presidente turco Bahadir mira ad occupare e riconquistare la parte greca dell’isola di Cipro, proprio nei giorni in cui si trovano in vacanza in quella zona la figlia del presidente del Consiglio italiano e una sua amica, sotto la scorta di alcuni poliziotti. Impossibile pensare a una soluzione diplomatica, così pure lasciare in mani turche ostaggi che potrebbero essere preziosi oggetti di scambio per la Turchia, e per questo viene organizzata una missione di salvataggio, affidata ai Lagunari, un corpo speciale delle Forze Armate italiane; unica donna del gruppo Bianca, una soldatessa ben addestrata che dovrà affrontare delle pericolose vicissitudini che metteranno a dura prova i suoi saldissimi nervi e il suo coraggio.
LinguaItaliano
Data di uscita5 giu 2018
ISBN9788866904380
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    Anteprima del libro

    armaBianca - Alessandro Cirillo

    EEE-book.

    Ankara (Turchia), 30 agosto, ore 10:11

    La parata militare organizzata in occasione del Giorno della Vittoria era un avvenimento molto atteso dai turchi. Quell’anno, in particolare, le aspettative che annunciavano una manifestazione imponente non erano state deluse.

    Una nuvola informe e biancastra transitò davanti al sole rubandogli per qualche attimo la scena. Migliaia di persone che si trovavano più in basso accolsero con favore i brevi istanti di refrigerio che sarebbero seguiti. Invece delle deboli piogge segnalate dai bollettini meteorologici, in cielo erano comparse solo alcune isolate nuvole per niente interessate a buttare giù acqua. Ormai non ci si poteva più fidare delle previsioni del tempo. In ogni caso, sia con la pioggia che con il sole, tutta quella gente non avrebbe abbandonato la propria posizione, in alcuni casi guadagnata fin dall’alba.

    La parata celebrava la vittoria di Dumlupinar, evento chiave della guerra greco-turca combattuta tra il 1919 e il 1922, quando i turchi, sotto la guida di Mustafà Kemal Pascià, erano riusciti a battere gli odiati greci. L’eroe di Dumlupinar divenne presidente della Repubblica di Turchia e mutò il suo nome in Kemal Atatürk, Padre dei turchi.

    Un rombo simultaneo di motori si propagò nel cielo facendo alzare le teste degli spettatori. Quindici elicotteri cavalcarono una strada invisibile schierati su tre file. Una nutrita salva di applausi partì al passaggio del gruppo di velivoli. L’attenzione poté spostarsi sull’ampio viale dove sfilavano le forze di terra. Era appena terminata una sezione dedicata alla storia delle forze armate turche, con tanto di uniformi e mezzi storici. Il passaggio della formazione di elicotteri dava inizio all’ultima sezione.

    Sul palco destinato alle autorità, Rahim Mehmet Bahadir osservava lo svolgersi della parata con uno sguardo serio e attento. Invece che stare seduto su una comoda sedia dal rivestimento in velluto rosso, era rimasto in piedi per quasi tutto il tempo. Preferiva rimanere ben visibile a tutti. Anche i politici e gli alti papaveri delle forze armate, che insieme a lui occupavano il palco, si erano adeguati a malincuore per non essere da meno.

    Un gruppo di camionette cariche di soldati sfilò davanti al palco presidenziale, gratificando l’olfatto dei presenti con un pungente odore di carburante, mentre gli uomini a bordo si esibivano in un sincronizzato saluto militare. Bahadir rispose portando la mano destra alla fronte, appena sopra gli occhiali dalla spessa montatura nera. La bocca carnosa, incorniciata da una sottile striscia di barba grigia, non tradì neanche un accenno di sorriso. Gli ufficiali intorno a lui si unirono al saluto, tutti impettiti nelle uniformi nuove e bardate di medaglie. Le camionette passarono oltre, tra due ali di folla festante.

    Da quasi quattro anni Bahadir ricopriva la carica di Presidente della Repubblica di Turchia. Prima di entrare in politica, era stato un militare di carriera, partecipando a diverse missioni, tra cui quella NATO in Afghanistan. Dopo quasi vent’anni di servizio aveva lasciato la divisa, riuscendo a scalare il vertice del suo partito, fino a diventarne il leader. Alla morte del presidente della Repubblica ne aveva preso il posto, conquistando una schiacciante vittoria alle elezioni. Uno dei suoi punti di forza erano le orazioni in pubblico. In quelle occasioni emergeva tutto il suo carisma, in grado di far pendere dalle sue labbra le folle che accorrevano ai suoi comizi. Faceva leva sul desiderio condiviso da molti turchi di poter tornare a essere una grande nazione. In cuor suo era convinto di essere la reincarnazione di Kemal Atatürk anche se, per ragioni di immagine, non poteva permettersi di sbandierarlo ai quattro venti. Solo il suo psichiatra conosceva il segreto ma la sua bocca era ben cucita.

    Una mosca ronzò per l’ennesima volta vicino alle orecchie del presidente, poi si posò sul completo gessato all’altezza della spalla destra. Infastidito, Bahadir notò che aveva iniziato a sfregarsi le zampe anteriori, passandole ogni tanto sulla testolina; attese ancora un istante e con la rapidità di un ghepardo imprigionò la mosca all’interno della mano sinistra. Nessuno dei presenti notò la mossa.

    Lungo il viale si stavano avvicinando tre autocarri che trasportavano altrettanti missili balistici. Bahadir sentì un leggero solletico sul palmo della mano chiusa. La mosca stava cercando di fuggire dalla trappola nella quale si era venuta a trovare all’improvviso. Il presidente lasciò per un po’ che l’insetto ci provasse, assaporando il potere di vita e di morte che in quel momento possedeva. Quando gli autocarri transitarono sotto il palco, strinse forte il pugno. Mentre la mosca moriva nella sua mano, salutò per l’ennesima volta le truppe in marcia. I mezzi proseguirono il loro percorso.

    Bahadir lasciò cadere a terra l’insetto morto. Lo aveva schiacciato esattamente come aveva fatto con tutti gli avversari che si erano opposti alla sua ascesa al potere. Non si poneva il problema della liceità dei suoi metodi: a lui spettava il sacro compito di fare tornare la Turchia una nazione forte, rispettata e temuta. Non poteva permettere che qualcuno intralciasse il suo destino.

    Allungò una mano verso il kalpak, il voluminoso copricapo nero che portava calcato in testa. Anche Kemal Atatürk lo indossava di solito. Toccò il kalpak raddrizzandolo di mezzo centimetro. Sentiva spesso il bisogno di sistemarlo, anche quando non serviva. Faceva quel gesto senza pensarci. A meno che non si trovasse da solo, teneva costantemente il cappello in testa, anzitutto perché i trenta centimetri di altezza del copricapo si aggiungevano al suo scarso metro e sessantasei. La bassa statura gli aveva causato complessi fin dall’adolescenza.

    Inoltre il kalpak serviva a coprire una vistosa cicatrice che gli sfregiava il cranio stempiato. Se l’era procurata in un incidente d’auto avvenuto all’età di vent’anni. Era sopravvissuto ma la cicatrice rimaneva per ricordargli l’unica volta in cui aveva bevuto qualche bicchiere di troppo.

    Ritornò alla realtà dopo essersi distratto seguendo il filo dei suoi pensieri. La parata procedeva: in quel momento un plotone di soldati stava marciando facendo sbattere sull’asfalto i pesanti anfibi militari. Passarono una decina di minuti prima che arrivasse un gruppo di carri armati Altay, fiore all’occhiello delle forze corazzate. Quindici carri disposti su cinque file avanzarono facendo sferragliare i cingoli sull’asfalto. I capicarro, che spuntavano dritti dal portellone della torretta, fecero il saluto militare. Quando anche i carri armati proseguirono oltre, uno dei generali sugli spalti si avvicinò al presidente. La pelle abbronzata del viso era rovinata dall’acne giovanile. Sotto il naso un po’ troppo grosso spuntavano dei baffetti neri e ben curati. A causa del suo metro e ottanta di altezza dovette chinarsi per parlare all’orecchio di Bahadir.

    «Allora, signor presidente, cosa ne pensa?»

    Nel rispondere, lo sguardo di Bahadir non si staccò dalla parata. «Generale Heker, certo a vederli fanno impressione, ma sul campo saranno efficaci?»

    Heker sorrise sereno. «Non ho alcun dubbio, nell’ultimo anno i miei uomini si sono preparati duramente per la missione.»

    «È quello che mi auguro, generale, o la sua testa sarà la prima a cadere.»

    Il volto del militare si adombrò. Proprio in quel momento una potente fiammata si propagò da un punto in mezzo alla folla. Un istante dopo si udì un boato. Lo spostamento d’aria raggiunse perfino il palco. In pochi attimi fu il panico. Armi in pugno, gli agenti del servizio di scorta si gettarono sul presidente e lo sollevarono di peso creando una gabbia impenetrabile con i loro corpi. Si fecero strada tra gli sbigottiti occupanti del palco, caricando come dei tori infuriati. Un ministro troppo lento a spostarsi ricevette una gomitata in faccia. Le urla terrorizzate degli spettatori erano la macabra colonna sonora di quei momenti. Ondate di gente si spostavano in tutte le direzioni senza una meta precisa. Chi cadeva a terra veniva calpestato senza pietà. Ai piedi del palco era parcheggiata l’automobile presidenziale, già con le porte aperte. Gli agenti scesero le scale e infilarono dentro Bahadir senza troppi complimenti. Pochi secondi dopo il veicolo partì facendo stridere le gomme sull’asfalto.

    Dal finestrino, il presidente riuscì a vedere la colonna di fumo nero che si levava verso il cielo.

    Costa libanese, 6 settembre, ore 01:15

    Il mare era una lastra scura e piatta adagiata sotto la cupola di un cielo senza luna. In direzione della costa soffiava una brezza fresca e quasi impercettibile. Un gabbiano planò leggero fino ad appoggiarsi sulla superficie dell’acqua. Con la pancia piena di pesce, poteva permettersi di starsene lì e farsi cullare dalle onde appena accennate. A un tratto, il suo momento di ozio fu interrotto dal propagarsi di strane vibrazioni. Il primo pensiero andò a qualche predatore e l’istinto gli ordinò di spiccare immediatamente il volo. Un attimo dopo, le ampie ali lo portarono in alto, al sicuro.

    Dieci metri più in basso, quattro figure risalirono dal fondale fino a emergere dall’acqua. Sopra le mute da sub indossavano una tuta da combattimento mimetica, le pinne fissate ai polpacci in modo da non intralciare la marcia. Utilizzando degli autorespiratori a ciclo chiuso, avevano nuotato sott’acqua senza fare affiorare in superficie bolle d’aria. Appena toccato il fondale, avanzarono camminando bassi e immersi nell’acqua.

    Le armi erano puntate in avanti, verso un’ipotetica minaccia. Senza fretta, guadagnarono la riva e rimossero l’attrezzatura subacquea, adagiandola sulla sabbia umida. Per ultimo indossarono i visori notturni in dotazione, mentre respiravano con piacere la fresca aria di mare. Si accovacciarono sul bagnasciuga per osservare l’ambiente: si udiva soltanto il tenue rumore della risacca, mentre il buio sembrava avere inghiottito tutta la spiaggia.

    Il tenente Vasco Nigra spiccava tra i membri della squadra con il suo metro e ottantacinque di altezza, quasi a ribadire il ruolo di leader. Dopo aver constatato che l’area non presentava pericoli immediati, fece segno ai compagni di dividersi in due gruppi. Il caporale Sergio Capodilupo fece coppia con il tenente. A un cenno dell’ufficiale, iniziò la perlustrazione della spiaggia. Nigra avanzò seguito da Capodilupo. Si mossero verso l’entroterra, il tratto era in leggera salita. Gli scarponcini lasciarono delle orme irregolari sulla soffice sabbia. Rumori di risacca e il garrito lontano di qualche gabbiano: nulla che potesse allertare i sensi allenati dei soldati, che mantenevano tuttavia la massima concentrazione.

    Percorsero una cinquantina di metri, trovando i primi ciuffi di erba che fuoriuscivano dalla sabbia. Puntarono verso una collinetta che dominava la spiaggia, poco distante da loro. In quel punto era posizionato un piccolo edificio a un piano piuttosto malconcio, apparentemente l’unico segno di civiltà nel raggio di centinaia di metri. Uno dei muri del rudere mostrava una frattura che ricordava una ferita. Del tetto non rimaneva neanche metà della superficie, il resto era collassato all’interno dell’edificio. Mentre il compagno gli copriva le spalle, Nigra risalì il lieve pendio fino a posizionarsi sotto all’unica finestra, ormai totalmente priva di vetri. Camminava lento e a passo leggero. Voleva accertarsi che l’edificio fosse disabitato. Le probabilità che vi fosse accampato qualche vagabondo erano piuttosto basse, visto che non esistevano villaggi nelle immediate vicinanze, tuttavia durante una ricognizione non si poteva tralasciare nessun dettaglio. Sbirciò con discrezione attraverso la finestra. L’unica stanza, priva di mobilia, conteneva solo una vecchia barca da pesca in rovina. Buona parte dell’ambiente era occupato dalle macerie del tetto crollato. Nessuna presenza umana. Si accovacciò e fece segno a Capodilupo di raggiungerlo.

    A circa un centinaio di metri di distanza, gli altri due soldati si erano infilati in mezzo a una bassa macchia di vegetazione. Dal loro punto di osservazione potevano tenere d’occhio una strada costiera priva di illuminazione che procedeva in rettilineo per tre chilometri, fino ad attraversare un piccolo centro abitato, con poche luci che allontanavano il buio. Oltre la strada si estendevano decine di ettari di campi coltivati.

    «Questo è un buon posto per le coppiette, vero Bianca?» domandò il sergente maggiore Alan Inserra, un soldato di statura non invidiabile ma con un fisico massiccio e allenato.

    Il sergente Bianca Vanz si sfilò il cappuccio della muta scoprendo una massa di capelli pregna d’acqua e dalla forma indefinita.

    «Sì, peccato che non siamo una coppietta.»

    «Potremmo sempre esserlo, qualche volta.»

    «Nei tuoi sogni, quando vuoi.»

    Inserra sogghignò in modo maligno. «Dimenticavo che tu preferisci gli ufficiali.»

    Bianca voltò la testa di scatto, lo sguardo simile a quello di una leonessa infuriata. «Ti consiglio di non andare oltre.»

    «Ehi calma, stavo solo scherzando» si difese Inserra.

    La donna tornò con lo sguardo verso la strada. «Non mi sto divertendo.»

    Accovacciato davanti al rudere, il tenente Nigra consultò l’orologio da polso, constatando che erano in perfetto orario con la tabella di marcia. La muta da sub gli dava fastidio, si grattò con energia la spalla destra, sfiorando un distintivo che lo identificava come appartenente al plotone Esploratori Anfibi del Reggimento Lagunari «Serenissima», conosciuti anche come Recon. Lui e la sua squadra avevano effettuato una ricognizione della spiaggia, propedeutica all’invio di una forza da sbarco che in quel momento si trovava a bordo della nave San Giusto. Entro poco tempo la spiaggia si sarebbe animata con decine di Lagunari e fucilieri della Brigata Marina San Marco, accompagnati da diversi mezzi d’assalto anfibio.

    Nigra osservò una piccola porzione di cielo sgombro da nuvole. Chiuse gli occhi e respirò una boccata di aria salmastra. Nonostante la grande stanchezza che sentiva addosso, lo rincuorava il pensiero che l’esercitazione fosse quasi al termine. Quello stesso pomeriggio sarebbe iniziato il viaggio di ritorno verso l’Italia. Forse sarebbe riuscito a passare del tempo con la donna che amava. Quel pensiero bastò per disegnare un sorriso sul suo volto annerito.

    Cape Greco (Cipro), ore 15:46

    Le cuffiette diffondevano una musica dance, uno dei tormentoni dell’estate. Tenendo le gambe pallide accavallate una sull’altra, la ragazza disegnava piccoli cerchi nell’aria con un piede dalle unghie perfettamente smaltate, mentre il cigolio del lettino da spiaggia sembrava andare a ritmo con la melodia. Mentre voltava una pagina del libro appoggiato in grembo, le sue narici percepirono per un attimo il profumo di pane arrostito. Lo stomaco brontolò, ricordandole che a pranzo aveva mangiato solo una leggera insalata. Ignorò lo stimolo decisa a non compromettere la sua dieta, portata avanti con sacrificio da tre mesi. Osservare alla lettera i consigli del suo dietologo le aveva fatto perdere buona parte dei chili di troppo. Il suo viso era davvero grazioso e ben si accompagnava con i lisci capelli biondi, che arrivavano a sfiorare le spalle. Tuttavia, le forme un po’ troppo morbide non le avevano mai garantito un grande successo con i ragazzi. Era riuscita a concedersi appena qualche storia, niente di più. Non si sentiva a suo agio con il corpo che si ritrovava, ragion per cui aveva chiesto al padre di accompagnarla da un rinomato dietologo.

    Due bambini urlanti sfrecciarono vicino al suo lettino, sollevando una pioggia di sabbia. Alcuni granelli si depositarono sul libro. Cecilia Rondone li scostò con un unghia che presentava lo stesso smalto rosso dei piedi. Fece appena in tempo ad accorgersi di un’ombra che aveva oscurato il sole. Un attimo dopo si ritrovò una matassa di capelli neri e bagnati sulla faccia. Percepì un leggero profumo di salsedine.

    «Ma sei scema?» protestò con un tono a metà tra l’irritazione e il divertimento.

    «Beccati ’sta botta di freschezza!» le rispose l’ideatrice dell’agguato, china su di lei.

    «Sei sempre la solita, Vane!» borbottò Cecilia scostandosi di dosso i capelli.

    L’amica si raddrizzò e strizzò con ambo le mani la sua lunga chioma. Alcune gocce di acqua salata atterrarono sulla sabbia rovente. A pochi metri di distanza, un gruppo di ragazzi sdraiati sotto un ombrellone la osservò divorandola con gli occhi: indossava un costume bianco molto aderente e ridotto, che creava un bel contrasto con la sua carnagione abbronzata ed evidenziava il sedere sodo e i seni generosi. Cecilia invidiava da sempre il fisico statuario dell’amica, che le aveva permesso di avere decine e decine di avventure. Le due ragazze si conoscevano dai tempi della scuola materna e, pur essendo molto diverse, erano sempre andate d’accordo, dicevano che una compensava l’altra.

    «L’acqua è una meraviglia. Perché non vieni a fare un bagno?» domandò Vanessa.

    «Stavo leggendo un libro sulla storia di quest’isola. La trovo estremamente affascinante. Ci sono così tante cose da vedere e...»

    «Oh, guarda che il tour culturale lo abbiamo già fatto. So solo io che male ai piedi mi hai fatto venire negli ultimi giorni» la interruppe Vanessa. «Ora ci si rilassa un po’, come piace a me. Erano questi gli accordi, o no?»

    Cecilia ridacchiò. «Ma sì, stai tranquilla. Non avevo intenzione di proporti altre gite.»

    «Sarà meglio. Anzi, perché non metti via quel libro da secchiona, così facciamo qualcosa di divertente?»

    «Intanto senza questa secchiona non saresti mai riuscita a diplomarti. Ho perso il conto di tutti i compiti in classe che ti ho fatto superare.»

    «Esagerata! Per qualche domanda che ti facevo ogni tanto.» Vanessa aveva appoggiato le mani ai fianchi snelli orientando le natiche verso il gruppo di ragazzi.

    «Già, qualche domanda.»

    «E comunque mi sono diplomata, no? L’importante è quello.»

    «Sì, con il minimo sindacale.»

    «Mica sono miss Perfettina che ha preso cento e lode.»

    Le due ragazze scoppiarono a ridere. Adoravano scherzare punzecchiandosi spesso su qualsiasi argomento.

    «Ma sei proprio sicura di non volerti iscrivere all’università?» chiese Cecilia posando il libro dentro la borsa da spiaggia.

    «Sicurissima, non ho davvero più voglia di studiare. Andrò a lavorare nell’azienda di famiglia. Stipendio sicuro e poco impegno. Tu invece sei proprio sicura di iscriverti a Beni Culturali? Al termine degli studi non è mica facile trovare un lavoro.»

    «Lo sai che la storia è la mia passione fin da quando ero bambina. Ti ricordi quando giocavamo a fare le archeologhe?»

    «Ricordo che mi trascinavi in mezzo ai campi con una paletta. Si scavava ore e ore per trovare inutili sassi che chiamavi fossili. Poi, arrivavo a casa sporca di terra dalla testa ai piedi e mia madre mi gonfiava di botte.»

    Cecilia tirò fuori la lingua. «Sarà per le botte che sei venuta su così deficiente.»

    «Hai ragione, forse dovrei chiederti i danni.» Vanessa si chinò sul suo lettino e infilò una mano nella borsa. Gli ormoni dei ragazzi dietro di lei entrarono in ebollizione.

    «Comunque» continuò Cecilia «non mi preoccupo per il lavoro.» Socchiuse gli occhi e assunse un’aria da cospiratrice. «Puoi stare tranquilla che mio padre troverà qualcosa per sistemarmi.»

    «Quando riuscirai a laurearti non è detto che tuo padre sarà ancora il premier» ribatté l’amica svitando il tappo di una bottiglietta d’acqua.

    «Può essere, in ogni caso conosce parecchie persone che gli devono un favore.»

    L’amica le lanciò addosso il tappo della bottiglietta. «Ma sentila questa qua! Fai tanto la santarellina e poi sei pronta a farti raccomandare da tuo padre.»

    Con una scrollata di spalle, Cecilia fu pronta a ribattere. «Sai bene che è così che funziona in Italia. Senza raccomandazioni non si va da nessuna parte e io non voglio rinunciare ai miei sogni per qualche scrupolo di coscienza. E poi, senti da che pulpito viene la predica! Ha parlato la signorina che ha il posto assicurato nell’azienda di famiglia.»

    Per un attimo, Vanessa si finse indignata. Alla fine scoppiò a ridere. «Che paracule che siamo!»

    Anche Cecilia si unì nella risata. Il momento di ilarità fu interrotto da una melodia preveniente dalla borsa.

    «Questo deve essere papà. Parli del diavolo...»

    Seduti a uno dei tavolini del bar con vista sulla spiaggia, tre uomini osservavano con attenzione le due ragazze. Avevano tutti un’età che non superava i trent’anni, ed erano in ottima forma fisica. Muscoli tonici e snelli sotto la pelle scurita dall’esposizione al sole. Appoggiati su un tavolino di plastica, tre bicchieri contenevano altrettanti freschi cocktail alcolici. In teoria, essendo in missione, non potevano bere alcol, ma in pratica non c’era nessuno a controllarli. L’importante era non eccedere e rimanere sempre vigili, anche se quel lavoro si stava rivelando molto più simile a una vacanza pagata.

    Uno degli uomini sbadigliò senza coprirsi la bocca con la mano. Con fare svogliato sfilò una sigaretta dal pacchetto, la mise tra le labbra e l’accese con un accendino da quattro soldi, acquistato la sera prima dalla bancarella di un africano. Lo aveva scelto perché c’era dipinto sopra il suo nome: Giorgio. Mentre tirava la prima boccata, tornò a scrutare lo schieramento di ombrelloni davanti a lui. Essendo settembre, la frequentazione della spiaggia era calata, limitata a qualche famiglia e a diversi gruppi di giovani. Giorgio Orritos prese un tovagliolino di carta e lo usò per asciugarsi la fronte sudata. Ne approfittò per scostare una ciocca di capelli biondi e appiccicosi. In quel momento, notò che Cecilia si era alzata per parlare al telefono.

    «Certo che il dietologo della Cecilia deve essere proprio bravo. In pochi mesi sembra quasi diventata un’altra persona» commentò tanto per dire qualcosa.

    «A me piace di più Vanessa» gli rispose il collega Manuel Quadrini mentre si grattava la testa ricciuta.

    «Eh, ho visto che non le stacchi gli occhi di dosso.»

    «Vorrei ben vedere, è una figa da paura.»

    «Deve compiere diciannove anni tra qualche mese» puntualizzò Valter Cabano, il terzo uomo. Nel trio si distingueva per i capelli nerissimi e lunghi fino alla base del collo, sempre legati con un elastico.

    «Che c’entra? È maggiorenne, no? Non faccio niente di illegale.»

    «Non ho capito bene l’ultima frase» indagò Cabano. Essendo il caposquadra aveva il dovere di tenere sotto controllo anche i suoi uomini, oltre che le ragazze.

    Quadrini portò alla bocca la cannuccia immersa nel bicchiere e succhiò un po’ del suo cocktail. «Niente, intendevo dire che per la legge diciotto anni sono sullo stesso piano di quaranta. Tutto lì.»

    Cabano sfilò gli occhiali da sole neri e rivolse uno sguardo severo ai suoi subordinati. Parlò a bassa voce, ma scandendo bene le parole.

    «Signori, vi ricordo che non siamo venuti in questa splendida isola per fare una vacanza. Abbiamo l’incarico di sorvegliare e proteggere la figlia del presidente del Consiglio, oltre che la sua amica Vanessa. Penso che sia inutile ricordarvi che finché siamo in missione sarebbe sbagliato intrattenere rapporti, diciamo troppo amichevoli, con le nostre protette. Se venissi a conoscenza di qualcosa del genere sarei costretto a prendere pesanti provvedimenti. Sono stato abbastanza chiaro?»

    Orritos sbuffò una nube di fumo grigio. «Chiarissimo.»

    «Manuel, per te è chiaro il concetto?»

    «Certo che è chiaro!» rispose imbarazzato il poliziotto. «E poi vi ricordo che sono felicemente fidanzato. Non ho mica bisogno di scappatelle, io.»

    «Sì, tanto Vanessa verrebbe mica a darla a te» aggiunse Orritos.

    «Infatti, hai proprio ragione» confermò Quadrini tornando a prendere la cannuccia tra le labbra.

    «Pronto, papà?»

    «Ciao, tesoro mio! Come stai?»

    «Alla grande. Sta facendo un tempo fantastico.»

    «E Nicosia ti è piaciuta?»

    Cecilia iniziò a passeggiare intorno al lettino guardandosi le punte dei piedi. «Guarda, è una città davvero fantastica. È una delle mie preferite tra quelle che abbiamo visitato nell’ultimo mese. Sono ancora ben visibili i segni delle varie dominazioni che ha subito. Greci, veneziani, ottomani. Peccato che sia divisa in due da un muro.»

    «Eh figlia mia, purtroppo la situazione di Cipro è piuttosto complicata. Greci e turchi non sembrano volersi mettere d’accordo. La situazione è stata vicina ad aggiustarsi ma all’ultimo le trattative sono fallite. Peccato, perché secondo me è una nazione con grandi potenzialità.»

    «Sono d’accordo, soprattutto a livello turistico.»

    «Già, adesso vi state rilassando un po’?»

    Cecilia lanciò uno sguardo all’amica che stava continuando a fare impazzire il gruppo di ragazzi. Era seduta sul lettino, intenta a spalmarsi la crema solare sulle belle gambe, accarezzandosi con movimenti lenti e sensuali. La crema aveva un profumo gradevole.

    «Sì, ci stiamo rilassando per bene. Specialmente Vanessa, adora stare in spiaggia.»

    La ragazza sollevò il dito medio della mano sinistra mentre con l’altra passò a ungersi il ventre piatto.

    «Sono felice che la vacanza stia andando bene. Tra poco inizierai l’università e non avrai più molto tempo per divertirti.»

    «Lo so, ma la cosa non mi spaventa.»

    «Ne sono sicuro.»

    «La mamma come

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