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Il filo rosso del Male
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E-book379 pagine5 ore

Il filo rosso del Male

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Info su questo ebook

Una tragica realtà è la scomparsa di bambini, soprattutto dai Paesi più poveri, vittime di adozioni illegali o, peggio, di pedofili, di trafficanti di organi...
Nel 1977 viene rapito in Ecuador il piccolo José Mario Albuja, un bimbetto di cinque anni che sogna di diventare un grande calciatore.
Veneto, 2008: Lara Dosi, laureanda in medicina ed aspirante psichiatra, svolge il suo tirocinio presso il Centro di Salute Mentale di Brentiel. La cittadina è piccola, ma tutt’altro che tranquilla: si parla, infatti, dell’esistenza di un mostro che ha rapito, nel corso degli ultimi anni, ben tre bambini, l’ultimo in tempi recenti. I piccoli non sono mai stati ritrovati e, insieme ai bambini, afferma Tiziana, una “gattara” che nutre i randagi che si aggirano intorno all’ospedale, sono scomparsi anche moltissimi gatti, forse un centinaio. Secondo quanto la donna confida a Lara, per scoprire il mostro è necessario indagare tra le persone insospettabili, che hanno salute, successo, denaro. Non sono poche le persone con queste caratteristiche, tra le frequentazioni di Lara Dosi, compreso il giovane psichiatra di cui si sta innamorando. E quando Marika, una paziente del Centro, confida a Lara di “sentire” che l’ultimo bambino rapito è ancora vivo, la studentessa vuole cercare di capire che cosa ci sia dietro a quelle misteriose sparizioni. E lo farà a suo rischio e pericolo… perché il Male, a Brentiel, c’è davvero.
LinguaItaliano
Data di uscita23 ott 2017
ISBN9788866904014
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    Anteprima del libro

    Il filo rosso del Male - Silvana Zanon

    Silvana Zanon

    Il filo rosso del Male

    EEE-book

    Silvana Zanon, Il filo rosso del Male

    © EEE-book, ottobre 2017

    Prima edizione e-book: ottobre 2017

    ISBN: 9788866904014

    Tutti i diritti riservati, per tutti i Paesi.

    Cover:credits to Canstockphoto.com; elaborazione grafica di EEE-book

    Questa è un'opera di fantasia; ogni riferimento a fatti o persone esistenti o esistite è da considerarsi casuale.

    Ibarra, Ecuador

    «Niño, a te!»

    Martín Juarez urlò dall’altra parte del campo, il pallone stretto sotto la suola delle scarpe malandate.

    José Mario bloccò la sua corsa, incredulo: il suo caposquadra aveva detto proprio a lui!

    Strinse le palpebre contro il riverbero del sole: la palla parve arrivargli al rallentatore, un’ombra scura contro la luce abbagliante.

    Sentì le vene pulsargli in testa.

    Goffamente si appropriò del pallone, sentì il contatto del cuoio sulle esili gambe scorticate da sbucciature.

    Subito, tre giocatori della squadra avversaria, El Condor, alti e grossi almeno il doppio di lui, lo puntarono.

    «Che pendejada hai fatto a dare la palla a quel moscerino?» Diego Torres, compagno di Martín, ringhiò contro il suo capitano sputando a terra.

    Martín fece le spallucce. «Lascialo in pace: è solo un bambino, lo sei stato anche tu.» E si affrettò a correre verso la porta.

    José aveva solo cinque anni, e nella sua squadra di calcio, la Simon Bolívar, contava poco più di un insetto.

    Anzi, avere quel bebè tra i piedi sarebbe stato fastidioso anche più di un insetto, se non fosse stato per il suo zelo nel raccattare le palle che finivano fuori campo.

    Se gli era permesso di indossare la maglietta gialla e di scorrazzare in mezzo ai giocatori era solo perché il capitano della squadra, il tredicenne Martín, lo aveva inspiegabilmente accettato.

    Gli altri ragazzi, suoi coetanei, avevano borbottato proteste a mezza bocca.

    «Che problema c’è? Non fa male a nessuno» aveva liquidato la faccenda il capitano.

    E così aveva avuto il privilegio di assistere a tutti gli allenamenti dei grandi, di correre in mezzo a loro con l’illusione di essere parte della squadra.

    Qualche volta Martín si fermava dopo l’allenamento per fare qualche tiro con lui e per insegnargli a segnare in porta.

    «Non male, niño. Stai migliorando» gli diceva spesso scompigliandogli i capelli.

    Ora, per la prima volta, durante una partita vera, gli veniva passato il pallone!

    Schivò il primo giocatore della El Condor, e con una finta riuscì a evitare anche il secondo.

    Il terzo lo afferrò per la maglietta, gettandolo a terra come una bambola di pezza.

    No!

    Con una foga animale si rialzò lanciandosi sul ragazzo, neanche sentì la fitta lancinante del calcio sul piccolo stinco ossuto quando riuscì a riappropriarsi della palla.

    Corse verso la porta, mentre altri due giocatori della squadra avversaria gli venivano incontro.

    Una voce gridò: «Niño, aquí

    Riconobbe l’urlo di Martín. Lo vide, sul lato destro del campo, molto vicino alla porta indifesa.

    Con tutta la forza che aveva nel suo piede destro tirò la palla al ragazzo un attimo prima che i giocatori della El Condor lo raggiungessero.

    Lo mancò di un paio di metri, ma Martín scattò sul pallone, ruotò di 180 gradi e fece rete.

    Dalla platea si levò un boato.

    I giocatori del Simon Bolívar si accalcarono urlanti attorno al loro capitano.

    Fu la gioia più grande che José avesse mai provato fino ad allora.

    «Bien hecho, niño!» gli urlò Martín. Si divincolò dall’abbraccio dei compagni e corse verso di lui, il palmo della mano tesa per battergli un cinque.

    José fece per corrergli incontro, ma dopo due passi cadde a terra.

    «Che è successo?» Martín si chinò sul bambino, e vide lo stinco sinistro gonfio e già livido.

    «Hijos de puta» mormorò a mezza bocca. «Ora basta, non puoi continuare a giocare in queste condizioni.»

    «Ma io...»

    «Riposati, adesso. Sei stato molto bravo, oggi, hai fatto un gran bel servizio alla squadra.»

    Quando uscì dal campo zoppicando, un gruppo di ragazze tra gli otto e i vent’anni anni intonarono le tifoserie della Simon Bolívar.

    Gli urlavano complimenti coi pollici sollevati, e una bambina si protese oltre le transenne per porgergli un fiore.

    Lui avvampò, allungando timidamente la mano a capo chino.

    Il fiore era giallo e appassito, di quelli che crescevano nei terreni incolti attorno al campo di calcio. José trovava avessero un odore particolarmente sgradevole.

    Eppure lui non riuscì a spiccicare una parola, nemmeno un "Gracias". Distolse subito lo sguardo, arrotolandosi nervosamente lo stelo attorno al dito.

    Dopo qualche minuto alzò furtivamente lo sguardo verso le transenne, e la rivide: aveva indosso un vestitino rosa, di cotone, di una o due taglie più grande di lei. Probabilmente era appartenuto a qualche sua sorella maggiore.

    Ma era pulita e ben pettinata.

    Ai piedi portava scarpine di vernice un po’ logore. Lo stava ancora guardando. Gli sorrise.

    La partita di calcio sfumò per José, nei 25 minuti che restavano. Non si accorse più di chi segnava e chi no.

    Anche se non aveva più osato guardarla, aveva in mente solo il sorriso e gli occhi leggermente a mandorla della bambina.

    Alla fine i suoi compagni vennero a sollevarlo in trionfo come mascotte: avevano vinto 3 a 1!

    Sorretto dalle braccia dei ragazzi, guardò di nuovo la platea: avevano aperto le transenne, ora il pubblico di grandi e piccini stava dilagando sul campo.

    In mezzo a loro, distinse il vestitino rosa della ragazzina, le due trecce scure.

    Stava venendo verso di lui.

    Zampettò sulle braccia che lo tenevano in alto e quasi ruzzolò a terra, finendo a un metro da lei.

    Da vicino era ancora più bella.

    «Sei stato molto bravo» gli disse con un sorriso.

    Lui doveva tenere la testa sollevata per guardarla: era alta una decina di centimetri più di lui e a occhio e croce doveva avere un paio d’anni in più.

    Ma José non aveva mai visto nulla di così incantevole.

    «Verrai alle prossime partite?» riuscì a chiederle.

    Lei annuì. «Come ti chiami?»

    «José Mario Albuja.»

    «Laura Noguera.» Rimasero impalati un istante, senza riuscire a dire una parola, finché non si sentì strattonare da un braccio vigoroso.

    «Vamos, Pelé!» Un suo compagno di squadra se lo issò sulle spalle per portarlo in trionfo attorno al campo.

    «Hasta luego, Laura!» riuscì solo a urlare alla bambina, prima di venir trascinato in mezzo ai suoi compagni.

    «Que vivo. Carina, la tipa» gli sussurrò Martín facendogli l’occhiolino. Non gli era sfuggito il breve dialogo con la ragazzina.

    Martín era veramente un eroe. In quell’istante pregò Dio perché lo aiutasse a diventare come lui, da grande: forte, bello, pacato e leale.

    «Gracias, Martín» mormorò, sperando che il compagno lo udisse. «Gracias de todo.»

    Ma al di là degli spalti, acquattato in una delle ultime file, qualcun altro aveva tenuto d’occhio la scena.

    L’uomo sui trent’anni, dai tratti latini addolciti da incroci europei, non aveva partecipato alle tifoserie, ma non aveva perso di vista nemmeno per un istante i movimenti del piccolo José.

    La sua espressione non tradiva nulla, solo i muscoli del viso si contrassero impercettibilmente quando vide l’ovazione della squadra per il bambino.

    Alla fine della partita si alzò, spazzolandosi con le mani il fondo dei calzoni: lo stadio di quartiere era piccolo e sporco.

    Aveva scelto un look sobrio, una camicia anonima e mal stirata e un paio di vecchi Levi’s per non dar troppo nell’occhio, ma a casa aveva vestiti assai più costosi.

    Estrasse una Marlboro dal pacchetto infilato nella tasca posteriore dei pantaloni e l’accese, la fronte aggrottata contro il riverbero del sole.

    Quidado, si disse. Fa’ attenzione.

    L’accaduto di quel pomeriggio poteva rendergli le cose più difficili.

    Forse. Ma forse poteva anche giocare a suo favore.

    Se non ricordava male, James aveva parlato di un facoltoso medico europeo che voleva un bambino particolare, con caratteristiche molto precise: bello, intelligente e bravo nello sport.

    Una nuova idea iniziò a prendere forma nella sua mente, mentre usciva dalle porte dello stadio urtato da ragazzini malvestiti e strepitanti.

    Non gli passò neppure per la testa di vedere se fra quelli c’era qualcun altro che avrebbe potuto portar via: mai pescare più di una volta nella stessa città, era troppo rischioso.

    Era a Ibarra da tre settimane, durante le quali aveva studiato e individuato la potenziale vittima.

    La rosa alla fine si era stretta attorno a José Mario Albuja.

    «Desculpe, señor!» Una ragazza sui sedici anni gli aveva pestato un piede nella ressa che si accalcava all’uscita.

    «De nada, señorita» ammiccò lui con la galanteria di un gentiluomo, squadrandola con discrezione dalla testa ai piedi. La ragazza sorrise, arrossendo sotto la pelle scura: aveva un seno precoce, per la sua età, stretto da un top fucsia che le lasciava scoperto l’ombelico.

    L’amica che le stava accanto le sussurrò qualcosa all’orecchio: «Gli piaci: carino, il gringo».

    Lo sconosciuto esitò un istante: l’idea di trastullarsi quella sera con quel piccolo diversivo lo tentò.

    Sapeva che sarebbe stato molto facile: il fascino dello straniero e il suo portafogli pieno avevano un effetto sicuro su tutte le donne latino-americane povere.

    Ma non era il caso di commettere imprudenze: doveva lasciare meno tracce possibili di sé.

    E poi, non appena fosse rientrato in Brasile, di donne poteva averne quante voleva.

    Ora era prioritario occuparsi del bambino, e di esporre il suo cambio di piano a James.

    Si acquattò in un angolo tranquillo, finendo la sigaretta con aria assorta.

    Sorrise, notando la ragazzina che ancora lo fissava speranzosa dall’altra parte della strada. Con quello che avrebbe potuto fruttargli quell’affare, a occhio e croce, avrebbe potuto procurarsi puttane per almeno un anno.

    ***

    Man mano che si avvicinava a casa sua, l’entusiasmo della partita andò scemando.

    Dopo quelle corse a perdifiato, la fame aveva iniziato a farsi sentire: i crampi gli accartocciavano lo stomaco, e per di più la gamba sinistra gli faceva molto male. Temeva che non sarebbe stato in grado di nascondere la sua zoppia.

    Difficilmente il padre e la matrigna se ne sarebbero accorti, dal momento che lui era l’ultimo dei loro pensieri. Ma aveva imparato che ogni pretesto era buono per poter scaricare i nervi su qualcuno.

    Carina Albuja, la donna che si era infilata nel letto del padre di José quando ancora il tumore allo stomaco stava divorando la sua prima moglie, aveva già sfornato due bambini in tre anni.

    José era il terzo e più piccolo dei figli del precedente matrimonio.

    La sua nascita era coincisa con la diagnosi di cancro della madre, e la malattia che l’aveva uccisa in meno di un anno non le aveva permesso di accudirlo come gli altri.

    Tantomeno se ne era occupato il padre, preso tra le cure alla moglie, il sesso con la nuova donna e i tre figli da mantenere.

    José era cresciuto da solo. Non ricordava quasi nulla della sua vera mamma, ma conosceva molto bene le botte della matrigna e la sua abilità nel dirottare sui figli non suoi le cinghiate del marito quando tornava a casa ubriaco.

    I suoi fratelli maggiori, per quanto non gli volessero male, non potevano fare granché per difenderlo: erano già troppo occupati a riparare se stessi dalle sfuriate che imperversavano come grandine sotto il tetto di casa Albuja.

    Mentre rientrava, ai crampi della fame si unì la ormai nota morsa di panico alla bocca dello stomaco.

    Sarà ubriaco?

    Ormai aveva sviluppato una sorta di sentore. Prima ancora di vedere gli occhi iniettati di sangue di Pedro Albuja, prima di annusare l’aura fetida del suo alito etilico, ebbe la certezza che il padre aveva bevuto come una spugna.

    Erano già tutti attorno alla mensa, e l’aria era così densa di tensione che si poteva tagliare con un coltello. Udì i rimproveri dell’uomo alla moglie, le sue urla impastate: «Come diavolo cucini? Ti pareva una fritada, quella? Era cibo per i porci, era!»

    José si affacciò come un’ombra nella piccola cucina dai muri scrostati. Se non fosse stato per i crampi della fame che lo dilaniavano, si sarebbe rintanato nella camera dove dormiva coi suoi fratelli pregando che il padre non entrasse.

    «Eccolo!» esclamò la matrigna. Notò il guizzo di malefico sollievo nei suoi occhi: «Ti pare l’ora di arrivare? Hai visto, Pedro, che tardi è arrivato?»

    José intuì il tentativo di dirottare le ire del marito su di lui.

    Notò con disperazione che il desco era completamente vuoto: avevano fatto fuori tutto.

    L’uomo gli lanciò un’occhiata di striscio. «Tanto peggio per lui, stasera non mangia. Sei tu quella che cucina poco, e per giunta male. Non sei capace di fare nulla!»

    Così dicendo, le scagliò contro un piatto. La donna si ritrasse con un grido.

    José sentì lo stomaco corroso dai crampi chiudersi in un nodo.

    Cercò di sgattaiolare via, silenzioso com’era venuto, per rintanarsi in camera.

    «Mirale, zoppica!» Sentì l’urlo della matrigna, il suo disperato tentativo di artigliarlo come capro espiatorio. «Che diavolo hai fatto?» gli urlò, afferrandolo e gettandolo davanti al padre.

    «Nulla, sono caduto» mormorò lui.

    «Non è vero, è il segno di un calcio, deve essere andato a giocare a pallone anziché darmi una mano qui in casa!» insistette Carina.

    «Sei ancora andato a perdere tempo con quegli idioti della Simon Bolívar?» ringhiò il padre strattonandolo per un braccio.

    «No!» esclamò il bambino. «No, lo giuro, ho giocato con David e sono caduto!»

    «È sempre in giro a bighellonare, non mi aiuta mai, oggi avevo bisogno della cipolla e del lardo per fare la fritada, aveva detto che sarebbe andato lui a prenderle ma invece non...»

    «Mentira!» strillò José. Era una bugia bella e buona, Carina non gli aveva chiesto un accidenti di nulla, quel giorno.

    Il padre scaraventò José addosso alla cucina a legna. «Sono stufo di tutti, di tutti in questa casa! Ma se la cena faceva schifo stasera è soltanto colpa tua!» urlò puntando il dito contro la moglie.

    José percepì l’inudibile respiro di sollievo dei suoi fratelli.

    È colpa tua.

    Quello era il verdetto, Carina era il capro espiatorio per quella sera.

    Ora, tutti potevano silenziosamente sgattaiolare nella camera da letto, tappandosi le orecchie per non sentire le urla.

    Ma José, prima di andar via, distinse la minaccia scandita dal labiale della matrigna: «Domani me la paghi».

    Il panico tornò a uncinargli lo stomaco, facendogli passare per qualche minuto la fame.

    Carina manteneva le sue minacce. Anche se pestava meno duro, era molto peggio di suo padre: Pedro Albuja si spegneva così come si era acceso e se la prendeva a turno un po’ con tutti. Equamente, a modo suo. Ma sua moglie era perfida e calcolatrice.

    Aveva la capacità di studiare i punti deboli delle sue vittime.

    Se avesse capito quanto lui amava le partite di calcio con la Simon Bolívar, era capacissima di trovare il modo di non farlo giocare mai più, anche a costo di spezzargli le gambe e di farlo passare per un incidente.

    Verrai alle prossime partite?

    Il pensiero della bambina, ritta sulle punte, che lo cercava con lo sguardo oltre la transenna e l’espressione che sarebbe calata sul suo bel visino nel non vederlo più lo gettarono nell’angoscia.

    Per favore, Dio, fa’ che questo non accada...

    Nel dormiveglia di questa preghiera, si addormentò in un sonno tormentato. Troppo tormentato per un bambino di cinque anni.

    Ma mentre le sue membra si rilassavano e le fitte alla caviglia si stemperavano nel torpore, qualcuno, poco distante da lui, nel buio della notte, stava decidendo per la sua vita.

    «I trafficanti di organi avrebbero pagato bene» borbottò James, la cicca che gli ballonzolava all’angolo destro della bocca. Le dita, tozze e poco curate, grattarono la barba biondastra e ispida di tre giorni.

    «Non sappiamo ancora il suo gruppo sanguigno» insistette Fernando. «E poi credimi, questo è proprio il tipo di ragazzo che fa per noi: l’ho visto giocare a calcio oggi, se la cavava alla grande! Ha messo nel sacco tre giocatori che avranno avuto il triplo dei suoi anni.»

    «Es guapo?» lo interruppe bruscamente James.

    L’altro annuì, rovistando nel suo taccuino. «Direi di sì, è carino.» Gli allungò una foto, che ritraeva José Mario che correva con la sua maglietta gialla della Simon Bolívar, i lunghi capelli castano scuro al vento.

    «Questo non vuol dire niente, tra una decina d’anni potrebbe essere un cesso basso, foruncoloso e tracagnotto.»

    «Ma l’europeo vuole un bambino, non un adolescente. Se imbruttisce se lo terrà così» sentenziò Fernando sfilando una Marlboro dal pacchetto. Esitò un istante prima di infilarsela in bocca. «È un pedofilo?» chiese.

    James scrollò le spalle. «Apparentemente, no. È sposato e non ha figli.»

    «Ci sarà un motivo se non vuole scegliere un’adozione regolare, no?»

    «Vuole un soggetto molto preciso: maschio, intelligente, bravo nello sport, di bell’aspetto, non viziato e cazzate varie. Troppo difficile, il signorino, per accontentarsi del primo orfanello di turno. E non ha la pazienza di aspettare le normali trafile. Pur di saltare la coda è disposto a pagare fior di quattrini.» Lo guardò con un’ombra di sospetto: «Perché, ti preoccupi della sorte del moccioso, adesso?»

    Fernando scoppiò a ridere. «Ti pare?»

    James fece un ghigno. «No, a te importa solo di arraffare il più possibile.»

    «Se è per questo, ho avuto un buon maestro.» Sorrise, scostandosi il voluminoso ciuffo di capelli corvini dall’occhio destro.

    Il ghigno dell’americano tremò, attraversato da un’inconfessabile fitta di gelosia: Fernando non aveva ancora trent’anni, ma aveva fatto già molta strada. Pur essendo entrato da poco nel giro della malavita, aveva un poker d’assi nella manica: era privo di scrupoli ed era dotato di un’intelligenza e un’astuzia notevoli.

    Ma soprattutto, quello che James più gli invidiava, aveva un fare accattivante e un bell’aspetto.

    Se lui avesse avuto anche solo la metà del suo charme, non avrebbe sentito il bisogno di entrare in quel giro sporco per dimostrare agli altri che valeva qualcosa. Solo così poteva ostentare di aver soldi a palate. Solo così poteva pagarsi donne come si deve.

    Guardò di sbieco il sudamericano: di donne, Fernando avrebbe potuto averne quante voleva.

    Sapeva che però poche erano disposte a fare gratis i giochetti che piacevano a lui.

    «Dunque» sentenziò James, sfilandosi la cicca dalla bocca, gli occhi chiari socchiusi contro la nube di fumo «facciamo così: gli facciamo prelevare un campione di sangue, e se salta fuori qualcosa che può servire ai trafficanti lo vendiamo a loro...»

    «Ma l’europeo ci frutterebbe di più» l’interruppe Fernando contrito.

    «I trafficanti sono un guadagno sicuro: questo riccone potrebbe cacarsi addosso dalla paura all’ultimo momento e farci saltare l’affare. O magari potrebbe non essere in grado di gestire il bambino. È troppo grande per conto mio per non avere ricordi.»

    «Non avrà niente da rimpiangere di Ibarra, credimi» ribatté l’altro. Ma ebbe un attimo di esitazione. Forse, dopo quel pomeriggio, qualcosa aveva da rimpiangere, rifletté. Strinse le labbra attorno alla sigaretta, tirando una rabbiosa boccata.

    Niño, tome!

    Rivide il passaggio della palla e l’ovazione del pubblico. Per colpa di quei trenta secondi di partita, ora la gente si sarebbe chiesta negli incontri successivi che fine avesse fatto quel piccolo moccioso. Era assurdo: aveva studiato la famiglia disastrata di José, ed era certo che la sua sparizione avrebbe significato solo una bocca in meno con cui condividere il poco cibo. Ora, invece, per una stupida partita di calcio, l’intero quartiere rischiava di notare l’assenza del bambino.

    Schiacciò il mozzicone della sigaretta sotto la suola delle sue Puma bianche e nere. James forse non aveva tutti i torti a voler lasciare meno tracce possibili.

    E i trafficanti d’organi di solito erano particolarmente bravi in questo.

    «Forse hai ragione tu» dovette ammettere suo malgrado.

    James annuì compiaciuto. «E se poi dovesse andare male sia col gruppo sanguigno sia con l’europeo... be’, troveremmo sempre qualche pedofilo a cui può interessare.»

    Tirò l’ultima boccata della sua sigaretta con particolare soddisfazione e se la lanciò alle spalle, allontanandosi nella notte col suo socio. La brace brillò qualche istante come una lucciola in agonia, prima di spegnersi per sempre nelle tenebre.

    José Mario sgattaiolò fuori da casa Albuja quando ancora albeggiava.

    Le emozioni accumulate durante il giorno gli avevano concesso solo poche ore di sonno.

    Non poteva sapere che era a causa dei torrenti di adrenalina che scorrevano nelle sue vene.

    Scese in strada quando ancora le vie erano semibuie e deserte, e si diresse correndo al campo da calcio dove era solito allenarsi con Martín.

    Voleva andarsene di casa prima che la matrigna pareggiasse il conto come promesso.

    Era una cosa che faceva spesso, quella di andare ad allenarsi quando le strade erano ancora quasi deserte, ma quella mattina si alzò più presto del solito.

    Il cancello del piccolo stadio era fermato da un lucchetto, ma conosceva bene un punto debole della rete che proteggeva il lato destro del campo: aveva scoperto che un bambino della sua taglia poteva infilarvisi con appena qualche graffio.

    Faceva insolitamente freddo quella mattina. José indossava una delle sue due magliette, che in precedenza erano appartenute ai suoi fratelli maggiori.

    Corse nel suo ripostiglio segreto: nell’erba incolta attorno al campo, dove crescevano i fiori gialli, c’era un rettangolo di cemento richiuso da una portiera di acciaio che conteneva un vecchio quadro elettrico ormai in disuso.

    Un giorno la Simon Bolívar aveva acquistato un pallone nuovo perché quello vecchio era ormai consunto e malandato, e Martín aveva deciso di regalarlo a José.

    Lui sapeva che portarlo a casa sarebbe stato un guaio, e così aveva individuato quel nascondiglio per il suo tesoro: quello gli permetteva di allenarsi per ore, da solo.

    Aveva scoperto poi che giocare con un pallone un po’ sgonfio richiedeva più fatica, e rafforzava lentamente le sue gambe ossute.

    I tonfi della palla sul selciato iniziarono a fendere l’aria, e in poco tempo José non ebbe più freddo.

    Si accorse anche che il dolore allo stinco era quasi passato, gli era rimasto solo un enorme livido violaceo che ricopriva buona parte della tibia.

    Non temeva i colpi del pallone sulla botta: ogni storta, ogni infortunio, ogni dolore serviva per diventare un uomo più forte. Gliel’aveva detto Martín.

    Quella mattina era particolarmente carico: continuava a rivivere la scena del giorno prima, lo scontro con i tre calciatori che era riuscito a fregare, e nella sua mente amplificava l’episodio, immaginandosi da solo contro una squadra di dieci giocatori di serie A.

    E lui li batteva tutti. Tutti.

    Sotto le luci dello stadio, correva lasciandosi alle spalle quegli adulti sbalorditi e segnava un meraviglioso goal, tra le grida di trionfo degli spalti.

    «Bravo!»

    José girò la testa di scatto: l’esclamazione che aveva udito alle proprie spalle era reale.

    L’uomo che lo guardava dall’altra parte del cancello era ben vestito e con l’aria da gringo, nonostante alcuni tratti e la pelle olivastra tradissero qualche parentela latina.

    Restò ammutolito a fissare lo sconosciuto: teneva una sigaretta accesa tra i denti, ed era molto alto.

    «Complimenti, niño! Non capita spesso di vedere un bambino della tua età giocare bene come te.»

    Gli fece cenno di avvicinarsi, ma José rimase immobile. Una goccia di sudore limpido che si era formata sulla sua fronte gli solleticò la radice del naso.

    La grattò via.

    «Ti ho visto giocare alla partita di ieri. Sei stato fenomenale, dico sul serio. Un talento come il tuo dovrebbe essere coltivato. Ti piacerebbe diventare un calciatore?»

    José trattenne il fiato.

    Si rese conto che quell’uomo aveva dato voce a qualcosa che era ancora embrionale nella sua testa.

    «Sì» rispose d’istinto.

    «Ottimo. Perché vedi, io ho un amico, un americano che abita non molto lontano da qui, e che si occupa proprio di trovare ragazzini talentuosi come te, e di farne dei campioni. Ti ho visto giocare, credo che tu possa diventare davvero un grande giocatore, se ti allenerai come si deve.» Alzò lo sguardo sulla ringhiera di ferro. «Come hai fatto a entrare qui? C’è un altro cancello?»

    In quell’istante José avvertì un’inspiegabile, ma netta sensazione di panico alla bocca dello stomaco. La stessa sensazione che aveva quando rincasava e sentiva che suo padre era ubriaco. La sensazione di un animale braccato.

    «Perché non mi hai detto queste cose ieri alla partita, allora?»

    Fernando fu sorpreso dalla sua risposta. Era sveglio, per essere un moccioso di cinque anni.

    «Ero di fretta» spiegò con un sorriso. «Dovevo trovarmi col mio socio. Mi sono fermato per caso a vedere l’incontro, non sono rimasto fino alla fine. Ma ho fatto in tempo a vedere la tua azione: credo che sia stata la mossa più bella di tutta la partita.» Gettò a terra il mozzicone di sigaretta con finta noncuranza. «Comunque se non ti interessa non fa niente: pensavo fosse stata una fortuna per entrambi ritrovarti qui, proprio oggi, per puro caso. Peccato: quando sarai più grande capirai che non devi lasciarti scappare le occasioni.»

    L’uomo gli fece un cenno di saluto e riprese il suo cammino, infilandosi le mani in tasca e intonando un motivetto fischiato.

    «Espere

    L’urlo acuto di José rimbombò nella strada deserta.

    Fernando ruotò di 120 gradi, gettando un’occhiata furtiva alla via che costeggiava il campo da calcio. C’era solo un chumado, un ubriaco distante 200 metri, riconoscibile dalla sua andatura barcollante.

    Gli ubriachi non rappresentavano testimoni oculari pericolosi: per quanto fossero in grado di ricordare qualcosa, nessuno avrebbe creduto loro una volta tornati sobri.

    Ma era solo questione di mezz’ora, un’ora, e per le strade avrebbero iniziato a circolare i primi studenti che si avviavano alle loro scuole.

    Era meglio non correre il rischio di farsi riconoscere col bambino. D’altro canto, se fosse riuscito a portare a termine il rapimento, entro ventiquattr’ore lui sarebbe stato ben oltre il confine.

    «Dimmi, niño.» Si accese una sigaretta.

    «Io... Potresti indicarmi dove abita il tuo amico?»

    «Farò di più. Ti porterò da lui.»

    José esitò. Di nuovo, quella paura atavica, inspiegabile, sottile come una serpe strisciante sulle sue viscere.

    Nessuno gli aveva mai spiegato che gli sconosciuti potevano essere pericolosi. Non immaginava neppure lontanamente le cose che potevano capitare a un bambino rapito da malintenzionati, non aveva la più pallida idea di cosa fossero la pedofilia o il traffico di organi.

    Eppure, qualcosa lo bloccò, e rimase a fissare riluttante il volto del gringo attraverso le sbarre arrugginite del vecchio cancello.

    «Coraggio, che aspetti?»

    Ripensò al sorriso della bambina, al suo corpicino teso sulle transenne mentre gli porgeva il fiore giallo.

    Doveva diventare un vero campione. Doveva farlo per lei.

    «Bravo!» esclamò l’uomo compiaciuto, vedendolo infilarsi nel pertugio della rete. Gettò un’altra occhiata furtiva nella via alle sue spalle prima di gettare la sigaretta appena iniziata.

    José intercettò lo sguardo dell’uomo, e di nuovo ebbe la sensazione di qualcosa che stonava.

    «Coraggio, apurate

    Sentì che aveva bisogno di qualcosa da tener stretto, qualcosa a cui aggrapparsi.

    Gettò un’occhiata attorno a sé, e si accorse dei fiori gialli che crescevano sul prato.

    Ne raccolse uno.

    «Che stai facendo?»

    «È un portafortuna» rispose José

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