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La città e la notte. Il thriller metropolitano di Michael Mann
La città e la notte. Il thriller metropolitano di Michael Mann
La città e la notte. Il thriller metropolitano di Michael Mann
E-book202 pagine2 ore

La città e la notte. Il thriller metropolitano di Michael Mann

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Cosa spinge un regista come Michael Mann a portare – sul grande schermo – storie di uomini (e di donne) che vivono e si muovono nelle grandi metropoli statunitensi?
Non è certo un semplice gusto estetico/stilistico che ha indicato tale scelta al cineasta di Chicago. No, c’è di più. Nel mettere in scena storie di criminalità, di dolore e disperazione, nel mostrare figure di spietati rapinatori e di poliziotti ligi al dovere, Mann esplica quella che, dopo oltre quarant’anni di attività sul set, è la sua personalissima, più intima filosofia di vita: l’uomo fa parte della città, è un “pezzo” di essa. E da essa prende le mosse, prende forma il destino – (in)evitabile – di ogni singolo uomo.
Ecco perché nei suoi film (a partire da Strade violente, Manhunter – Frammenti di un omicidio, Heat – La sfida, fino ad arrivare a Collateral, Miami Vice e Nemico pubblico) il rapporto uomo-città riveste un ruolo di rilievo: anche noi, così come i personaggi manniani, viviamo ogni giorno la realtà di un contesto urbano, il quale porta ad incontri (o scontri) con il prossimo.
Obiettivo del presente saggio è quello di mettere in luce, di mostrare al lettore (che sia cinefilo o meno) come Michael Mann sia riuscito – attraverso una visione quasi antropologica – a dare vita a svariate riflessioni sull’uomo e sul di lui destino legato inesorabilmente alla metropoli in cui vive. Tutto questo è rintracciabile nel genere cinematografico del thriller metropolitano tanto caro a Mann. Genere nel quale convergono, si incontrano (e si fondono) stili e figure della migliore filmografia hollywoodiana classica (e non solo) e immaginari più vicini a noi, il tutto sotto l’occhio attento di uno dei grandi registi del presente.
Perché La città e la notte non è soltanto un libro sul cinema di Michael Mann ma è – allo stesso momento – un excursus, un’indagine che analizza come dagli anni ’50 sino alla New Hollywood (per poi arrivare alle forme cinematografiche odierne), il cinema si sia “evoluto” e autori come Mann abbiano contribuito a tale sviluppo della Settima arte.
LinguaItaliano
Data di uscita16 dic 2014
ISBN9788868222444
La città e la notte. Il thriller metropolitano di Michael Mann

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    Anteprima del libro

    La città e la notte. Il thriller metropolitano di Michael Mann - Francesco Grano

    Collana

    Arte e spettacolo

    4

    FRANCESCO GRANO

    La città e la notte

    Il thriller metropolitano di MichaeL Mann

    Proprietà letteraria riservata

    © by Pellegrini Editore - Cosenza - Italy

    Stampato in Italia nel mese di dicembre 2014 da Pellegrini Editore

    Via Camposano, 41 (ex via De Rada) - 87100 Cosenza

    Tel. (0984) 795065 - Fax (0984) 792672

    Sito internet: www.pellegrinieditore.it - www.pellegrinilibri.it

    E-mail: info@pellegrinieditore.it

    I diritti di traduzione, memorizzazione elettronica, riproduzione e adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche) sono riservati per tutti i Paesi.

    Alla mia famiglia

    con immensa gratitudine.

    Presentazione

    Rintracciare sguardi: Michael Mann tra critica e cinefilia

    Lavorare criticamente sul cinema di Michael Mann può sembrare un’impresa facile. Certo, nel corso del tempo la fama del regista americano è cresciuta a dismisura, e Mann è divenuto, tra gli anni Ottanta e i Duemila uno dei registi di riferimento della nuova cinefilia, capace di lavorare in modo nuovo ed innovativo sui generi classici (in particolare il gangster movie e il thriller), di riattraversare le forme ormai stantie del serial televisivo anni Settanta e di rilanciarle verso nuove dimensioni. Lavoro sulle forme classiche del cinema americano, ibridazione, incrocio tra narrazione seriale e immagine cinematografica: Mann concentra nel suo lavoro pluridecennale tutti gli elementi che hanno caratterizzato la nuova critica cinefila e militante degli anni Novanta. I lavori critici di Alessandro Borri (2000), di Pier Maria Bocchi (2002) e di F.X. Feeney (2006) attraversano non a caso gli anni Duemila, gli anni cioè della definitiva consacrazione di Mann come Autore simbolo del proprio tempo.

    Sembra dunque facile scrivere su Michael Mann, ma naturalmente non è così. Anzi, è proprio di fronte ad un cinema che sembra facilmente riconoscibile, che sembra offrire facili etichette critiche all’interno delle quali accomodarsi facilmente, lo sguardo critico deve compiere uno sforzo ulteriore, trovare nuove strade, indagare più a fondo, creare nuove connessioni.

    Il cinema di Mann è un cinema che mette alla prova se stesso. Ecco una prima affermazione critica, quasi intuitiva, immediata, da verificare. Come? Ripensando alle immagini del regista di Chicago, alla modalità con cui Mann, film dopo film, lavora su un continuo spostamento delle modalità con cui il cinema classico americano (e decenni dopo il cinema della New Hollywood) mette in scena il mondo, un mondo già cinematizzato, già leggenda, già mito. Il lavoro sui dettagli della merce in Miami Vice (la serie) è allora un primo indizio. Gli abiti Armani di Don Johnson, gli accessori fashion che costituivano l’arredamento quasi di ogni spazio e di ogni corpo invitato nella serie (da Phil Collins a Miles Davis, passando tra gli altri per Julia Roberts e Laurence Fishburne), la musica stessa come merce immateriale e oggetto del desiderio (il brano In the Air Tonight di Collins che diventa oggetto di culto e parte integrante di una delle sequenze più famose della serie). Miami Vice rivoluziona le forme della serialità americana non solo e non tanto per gli elementi di novità narrativa che introduce nel poliziesco, né per la violenza e drammaticità degli eventi, ma soprattutto per aver introdotto una pratica dell’oggetto, del frammento, del particolare che diventa oggetto del desiderio (l’abbigliamento, la Ferrari, la musica, gli occhiali da sole, la barca). L’oggetto è la nuova forma del culto. Mann è produttore esecutivo della serie, ma di fatto ne è il deus ex machina, colui che ne forgia la struttura profonda, che la trasforma in luogo del nuovo desiderio fine secolo.

    Fin dagli esordi, allora l’immagine per Mann è immagine seducente, capacità di lavorare i dettagli, di costruire una narrazione a partire da un frammento, un elemento apparentemente posto al di fuori della narrazione, ma che di fatto la costruisce, ne costruisce l’atmosfera, malinconica o drammatica, tragica o fredda.

    Ecco allora le superfici lisce e trasparenti di Heat, o la patina giallastra che ricopre come un manto soffocante gli spazi di Manhunter, la fredda architettura degli uffici di Insider. Lo spazio diventa assoluto protagonista perché ingloba ed espande le caratteristiche dei personaggi manniani, corpi che abitano quegli spazi, che ne fanno parte, nella vita e nella morte. Eroi per caso, losers, figure tragiche condannate dalle fredde logiche del noir di ogni tempo, ultimi rappresentanti di un’epoca, sopravvissuti. Le figure che costellano gli spazi di Mann sono figure galleggianti, sempre sul punto di scomparire sotto i flutti, di annegare, di essere travolti dalle onde. Possono essere apparentemente vincenti e superiori, come Nathaniel/Daniel Day-Lewis in L’ultimo dei Mohicani, De Niro in Heat o Tom Cruise in Collateral, Johnny Depp in Nemico pubblico, non importa. Ogni successo può rovesciarsi in una manciata di secondi nella tragedia più totale, la fragilità è parte integrante dell’esistenza nell’universo cinematografico di Mann.

    È anche in questo modo che si configura l’attraversamento delle forme classiche e di quelle moderne del cinema di genere (del thriller o noir metropolitano in particolare) da parte del regista di Chicago: di fatto rispettandole, inglobandole – è come se ogni film di Mann contenesse le tracce genetiche di tutto il cinema gangster e noir, da Hawks a Scorsese – e al tempo stesso sospendendole in una sorta di sguardo immersivo, amniotico. Spesso, nei viaggi in macchina dei film di Mann (da Insider a Heat, passando per Nemico pubblico) si sperimentano tutte le velocità possibili, e ancora più spesso il viaggio sembra allungarsi a dismisura, diventare una sorta di passaggio in-between, di sospensione appunto.

    Gli spazi di Mann sono cioè attraversati dai personaggi-limite dei suoi film in tutti i modi possibili, dall’immobilità al movimento lento, fino alla velocità più estrema, segno di una vitalità che lotta contro l’ambiente ostile, facendone parte. Ecco allora tornare alla memoria la sequenza iniziale de L’ultimo dei Mohicani, con Nathaniel che corre all’interno della foresta, inseguendo la sua preda di caccia, in una serie di inquadrature mozzafiato che mostrano un corpo tipicamente manniano, immerso nel suo spazio e al tempo stesso capace di spingersi al limite, di saggiare la sua e la nostra resistenza.

    Spazi, movimenti, figure, corpi-limite e velocità di fuga, fragilità e potenza, forme ibridate del cinema di genere. Più si esplora il cinema di Mann più le facili etichette critiche mostrano la loro insufficienza pur mantenendo la loro validità. È da qui che nasce l’interesse di Francesco Grano per il cinema di Mann. Appartenente ad una nuova generazione critica, Grano affronta Mann come chiave per rileggere e rivedere il cinema del passato. Si tratta di una nuova operazione teorica che è di fatto alimentata e permessa dal cinema contemporaneo (che non necessariamente è il cinema attuale, visto che contemporaneo e attuale non sono la stessa cosa). Un cinema come quello di Mann, infatti, è un cinema contemporaneo in quanto mantiene un rapporto costante con le forme del passato, senza semplicemente citarle ludicamente, ma inserendole in nuovi campi di tensione.

    L’importanza del libro di Grano – che personalmente ho visto nascere anzitutto come tesi di laurea triennale, e poi crescere fino a diventare un preciso percorso di lettura critica del cinema di Mann (e soprattutto attraverso il cinema di Mann) – sta appunto in questo doppio movimento: da una parte il testo è un riattraversamento dell’opera del regista americano, dall’altra opera come un rintracciamento. Ogni film attraversato, quindi, conduce l’autore a rintracciare forme e generi del cinema, filtrati a partire dalla modalità con cui Mann li riprende, li ibrida, li sospende, li immerge in spazi liquidi o trasparenti.

    Partendo da una messa in gioco della dialettica tra classico e moderno, Grano riattraversa quella zona particolare che chiama del thriller metropolitano, analizzando i vari film che appartengono alla filmografia di Mann e sviluppando una serie di rapporti, connessioni, fili interni ed esterni che collegano immagini e corpi non solo alla personale poetica del regista americano, ma anche alla sua consapevole appartenenza ad una tradizione.

    Cosa particolare, la tradizione al cinema. Ogni regista che si confronta con la tradizione, in un certo senso deve tradirla (per utilizzare un abusato gioco di parole), nel senso più profondo della parola, vale a dire attraverso un suo riposizionamento, un suo ripensamento. Le immagini di una tradizione cinematografica non possono essere replicate, pena la loro trasformazione in idoli immobili. L’immagine-movimento è per sua natura aperta, si connette in continuazione con nuove immagini che la riprendono e la trasformano. È ciò che costituisce in fondo la ricchezza di una cinematografia, e anche la malattia non mortale della cinefilia, il sapere che ogni film non replica qualcosa, ma si aggiunge a qualcosa, riprende una tradizione per trasformarla, aumentarla, ripensarla.

    Questa consapevolezza attraversa costantemente il testo di Grano e ne rivela il sottofondo squisitamente cinefilo, che se da una parte è attento alla necessità di costruire un’immagine monografica del cinema di Mann – dunque rintracciarne le costanti, i passaggi e i richiami da un film all’altro per riconoscere le tracce di una poetica unitaria – dall’altra non lo isola, ma lo riconnette ad una serie potenzialmente indefinita di immagini, di gangster e vite tragiche, di destini segnati ed esistenze al limite, di squarci notturni ed esistenze segnate dalla morte. È questa consapevolezza che oggi come oggi legittima un discorso critico.

    Daniele Dottorini

    Introduzione

    Uno sguardo al passato: la crisi cinematografica degli anni Cinquanta e la nascita del Nuovo Cinema Americano

    Sul finire degli anni ’50 il cinema americano viveva quella che oggi può – a maggior ragione – essere indicata come una prima crisi dell’intero sistema hollywoodiano classico. Causa di tale crisi è rintracciabile nella costante crescita, affermazione e introduzione nelle case di milioni di americani della televisione e dei suoi contenuti (talk show di vario genere, notiziari televisivi, le prime serie tv, ecc.), che porta, ben presto, ad un crollo degli incassi ed ad un calo dell’interesse e della presenza degli spettatori all’interno delle sale cinematografiche[1]. Il cinema stava vivendo, inesorabilmente, una fase di oblio causata dalla fruibilità e dalla concorrenza contenutistica e privata della televisione. Diversa si presentava invece la situazione cinematografica europea di quegli anni. Mentre negli Stati Uniti le grandi case di produzione lottano strenuamente per mantenersi in vita, nel vecchio continente il cinema europeo entra nella sua maggior fase di ascesa sancita – da pubblico e critica – con l’affermazione della Nouvelle Vague[2].

    Per la Hollywood classica si prospettava, sempre di più, l’inesorabile tramonto della propria era d’oro ma, tuttavia, a partire dai primi anni sessanta del XX secolo, si sviluppa all’interno del sistema hollywoodiano un nuovo tipo di cinema, che passa con il nome di Nuovo Cinema Americano (conosciuto anche come Nuova Hollywood)[3]; movimento all’interno del quale, in breve, prende le mosse una nuova ondata di registi destinati a cambiare radicalmente il volto del cinema statunitense, come Brian De Palma che esordisce con Oggi sposi (The Wedding Party, 1963-1966), Martin Scorsese, Chi sta bussando alla mia porta? (Who’s That Knocking at My Door, 1969), Francis Ford Coppola, Tonight for Sure, (id., 1962), Woody Allen, Che fai, rubi? (What’s Up, Tiger Lily?, 1962), William Friedkin, Good Times (id., 1967), Sam Peckinpah, La morte cavalca a Rio Bravo (The Deadly Companions, 1961), Mike Nichols, Chi ha paura di Virginia Woolf? (Who’s Afraid of Virginia Woolf?, 1966), Sydney Pollack, La vita corre sul filo (The Slender Thread, 1966) e, dagli anni ’70 in poi, George Lucas, L’uomo che fuggì dal futuro (THX1138, 1971), Steven Spielberg, Duel (id., 1971)[4] Michael Cimino, Una calibro 20 per lo specialista (Thunderbolt and Lightfoot, 1974), Terrence Malick, La rabbia giovane (Badlands, 1973), John Carpenter, Dark Star (John Carpenter’s Dark Star, 1974) e molti altri.

    I nuovi nomi dell’industria cinematografica danno vita ad un rinnovamento dei generi cinematografici. Rinnovamento che è ben visibile nel poliziesco, con la rivoluzione/innovazione del genere attuata da William Friedkin con Il braccio violento della legge - The French Connection, 1971, nella fantascienza, Stanley Kubrick con 2001: Odissea nello spazio - 2001: A Space Odyssey, 1968, capolavoro in cui temi filosofici ed esistenziali si mescolano alla fantascienza. Ma 2001: Odissea nello spazio non è soltanto questo: è anche un monito sul predominio della tecnologia e delle intelligenze artificiali sull’uomo (tema, quest’ultimo, che sarà,

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