Le vele incantate del cinema e l'elogio della malinconia: Scritti sul cinema, la società, la politica.
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Le vele incantate del cinema e l'elogio della malinconia - Vincenzo Camerino
Table of Contents
Vincenzo CamerinoLe vele incantate del cinema e l’elogio della malinconia
VINCENZO CAMERINO LE VELE INCANTATE DEL CINEMA E L’ELOGIO DELLA MALINCONIA
Le vele incantate del cinema e l’elogio della malinconia.
PARTE PRIMA
Il cinema sovietico, la sorgente Michalkov, Schiava d’amore
La drammaturgia Oblomoviana e la Sopravvivenza dell’Umano
Quando il cinema apre
l’Adriatico (e oltre)
Il cinema e la realtà nello sguardo amaro di Dassin
Breviario sul cinema di Pedro Almodóvar
Vivre sa vie. La pennellata semiologica
Lo sguardo filmico e militante di Gianfranco Mingozzi
Lo sguardo della Storia raccontato dalle mirabili regie di Miklós Jancsó
Renato Castellani, il cinema, Il Brigante
Jude di Michael Winterbottom
PARTE SECONDA
Così il cinema ha influenzato il Novecento
Il cinema delle origini tra cultura e senso della storia
Educare al linguaggio cinematografico è pensiero che si poetizza
A tutti coloro che ritengono che il cinema, oltre ad effondere profumi etici, possa accrescere democraticamente la coscienza di una Comunità.
Il cinema come periscopio ansiolitico e come progetto, e l’universale desiderio.
Un dizionario per raccontare il cinema in Puglia, anche un lieto abbecedario in zona-socializzante
L’associazionismo cinematografico che, talvolta, volle farsi guerrigliero
per debellare le sudditanze.
L’editoria cinematografica nel Salento, e dintorni
Epilogo
La caduta delle sofferenze
Sulle ali della Storia con il ritrovato e alquanto ammaccato Risorgimento
Profilo biografico
Vincenzo Camerino
Le vele incantate del cinema e l’elogio della malinconia
Progetto grafico:
Bookground
Si ringrazia Lorenzo Papadia per l’acquisizione delle immagini fotografiche
Musicaos Editore
Via Arciprete Roberto Napoli, 82
Neviano (Le) – Tel. 0836 - 618232
© Musicaos Editore, 2015, 2016
Tutti i diritti riservati
Nessuna parte di questa opera può essere riprodotta senza il consenso dell’Editore.
info@musicaos.it
www.musicaos.it
I edizione: Febbraio 2015
I edizione digitale: Dicembre 2016
ISBN 978-88-99315-702
VINCENZO CAMERINO
LE VELE INCANTATE DEL CINEMA E L’ELOGIO DELLA MALINCONIA
Le vele incantate del cinema e l’elogio della malinconia.
Il veleggiare con gli splendori cinematografici (e granelli di pura sabbia) appare il virtuoso cammino per riconquistare la fantasia dell’infanzia
, nonché essere nelle radici delle moralità. Gli incantesimi che il cinema produce nelle scacchiere dell’Umano costituiscono non il disincanto, bensì le accorte musicalità del vivere. Quando si aprono le porte del visionario, logicamente accompagnate dalle solidità dell’arte, tutti noi riscontriamo che le illusioni totalitarie hanno concluso il loro tempo. Eliminate le vacuità è nato l’apprezzabile L'uomo che verrà con il suo bagaglio di epici respiri e dei diritti della memoria. Considerando che il disincanto stesso e l’utopia in sé devono correggere (e sospendere) le malsane ingiustizie e l’acquisito disinteresse. Ora nell’intreccio tra scetticismo e malinconia si avverte la prassi del coinvolgimento. Forse non ci può essere un vero disincanto filosofico, ma solo poetico, perché soltanto la poesia può rappresentare le contraddizioni senza risolverle concettualmente
(Claudio Magris). Dunque aldilà delle disillusioni una certuna mestizia coinvolge l’intero apparato del nostro amato Kino. Sebbene l’onirismo sia il perpetuo spazio del sogno come afferma Nietzsche (la capacità di sognare sapendo di sognare). Ma si vorrebbe andare oltre: l'esplicito rovesciamento del solo immaginario per permettere di raggiungere le scalinate dei sentimenti. Il fruttifero incontro. Il realismo offerto dalla tecnica cinematografica consente una riscrittura del fenomeno: da una parte è narrazione, dall’altra uno sguardo possibile sulla realtà
(Luca Taddio). Ma non basta. Occorre una documentazione idealista della tristezza come in molteplici filmati aventi come equipaggiamento le cinéma di Valerio Zurlini, Florestano Vancini, Paolo e Vittorio Taviani, e Renato Castellani, e altri. Estate violenta e La ragazza con la valigia: il primo svolgente la cronaca di un amore, evocata con malinconica sensibilità di toni e di linguaggio (Caldiron-Girlanda-Pisarra)
con la sequenza musicalizzata di Temptation e Fascination di incontaminata intensità; il secondo l’innocente nobiltà che si tinge di sofferenza per la meschinità del mondo degli adulti. La lunga notte del ’43, Le stagioni del nostro amore, Bronte: cronaca di un massacro che i libri di storia non hanno raccontato di Florestano Vancini si palesano perfetti fiduciari del cimento narrativo e "della straordinaria vitalità, creativa e industriale assieme, del cinema italiano di allora, e, di riflesso, le difficoltà del cinema italiano degli anni successivi" (Mario Gallo). Poi vennero all’ordine del giorno e romantico il trittico dei fratelli Taviani, al secolo: San Michele aveva un gallo, Allonsanfan, Padre padrone. Autentiche ballate tragiche della solitudine e delle personali inquietudini corroborate dalle speranze rivoluzionarie e dall’accorato grido della ragione. Se Allonsanfan si permea della crisi esistenziale dell’individuo dopo la scarcerazione, Padre padrone si snoda tra i segni estremi di un potere familiare esercitato in nome della vita in stabilità di miseria e di stenti. Siamo arrivati alla fine della mitica valutazione del niente e del dominio dell’autocompiacimento e dello scolorito narcisismo. Eppure, ciononostante, la rifondazione storica viene lentamente conseguita e portata in auge dalle seduzioni delle filmazioni e della celebrazione della malinconia. Tenendo pressoché in attenzione che il cinema si distende dalle dimensioni dell’elegia e dalle sensibilità del nostalgico. Che sobrietà e candore allorché si opta per il puritanesimo della malinconia. La motivazione: Le pupille dell’occhio si ammantano di contemplazioni dell’uomo storico-sociale. E cosa dire di Gli amici di Georgia di Arthur Penn, La passeggera di Andrzej Munk, Grazie per la cioccolata di Claude Chabrol, Quattro minuti di Chris Kraus, L’ombra del potere di Robert De Niro. Sfogliamo le intenzioni dei nostri agenti all’Avana e l’attraversamento di Nostalghia, con la sempre mirabile cristalliera della Partitura incompiuta per pianola meccanica del russo N. Michalkov. Ci siamo, amici miei, le tempeste della psiche si stanno colorando di esercitazioni sulla Bellezza. Termina qui il teorema proletario, incastonato di scenari intellettuali. I viandanti si stanno cibando di DVD. Desiderano capire se le stelle dei florilegi divini sono più vicini alla mèta della piena libertà dell’essere. Al momento (il cinema) si dichiara: La competizione più brillante e condensata di febbrili e vincenti umori.
PARTE PRIMA
Il cinema sovietico, la sorgente Michalkov, Schiava d’amore
Faccenda vostra, dèi,
se ci avete fatto mortali,
e perciò noi vi scaglieremo contro
lo strale avvelenato dell’angoscia.
È qui l’arco.
Velimir Chlébnikov
Prima di implicarsi in una feconda scorribanda sull’opera omnia di Nikita Michalkov e su alcuni suoi film, pur se in modo alquanto schematica e, naturalmente, ricorrendo alle interpretazioni degli studiosi nativi dell’allora Unione Sovietica, occorre dare una veduta sul cinema delle annate del Settanta. Una cinematografia, in quel periodo storico, completamente lontana (o quasi) dalle milizie
agiografiche e dalla partigianeria
celebrativa, quanto mai vicina all’indipendenza delle impetuose voci delle svariate etnie emergenti. Decisamente per la riconsiderazione dei vissuti antieroici e disincantati, nonché per la volontà di recidere l’oleografico e il propagandistico passato.
L’ingegnere delle anime ammainò la bandiera dell’enfasi, ripiegò la testa in attesa della propria cessazione fisica. Talvolta tentò, tra barcollii e deboli deambulazioni, di cautamente risorgere, ma la Storia non ammise repliche. Nemmeno dai tuttologi
di antica fede.
Si è ampliato il diapason tematico della cinematografia sovietica. Sullo schermo si sono affacciati nuovi personaggi con i loro problemi quotidiani, quindi familiari e noti agli spettatori. Si è rafforzata la polemica contro l’esteriore monumentalità da parata dell’immagine cinematografica e contro la semplificazione della vita nello spirito della ‘teoria della non conflittualità’. È aumentata l’attenzione verso il mondo interiore dell’uomo, verso i complessi processi dello sviluppo del carattere, della formazione dell’individualità socialista, del suo divenire sociale e morale
.(1)
Vi fu un assortimento di generi e di stili derivato dal ricambio generazionale di autori, e ausiliato dalla fermezza politica estrinsecantesi nell’affioramento della dimensione del Quotidiano. Personaggi in crisi, stranezze, emarginazioni, disperazioni, sentieri illusori, riscatto delle subalternità
, si disegnano sullo schermo. In più l’universo femminile si presenta con tonalità nuove: è scrutato in ogni andamento esistenziale, è vivisezionato nelle intercapedini psicologiche, è esaminato con accurata dovizia. Brilla, brilla mia stella di Aleksandr Mittà, Equivoci di una notte di capodanno e Romanzo d’ufficio di El’dar Rjazanov, L’albero dei desideri di Tengiz Abuladze, Lettere altrui di Il’ja Averbach, Viburno rosso di Vasilij Suksin, Lunghi addii di Kira Muratova, Cento giorni dopo l’infanzia di Sergej Solov’ev, Zio Vanja di Andrej Michalkov Koncialovskij, La parola alla difesa di Vadim Abdrasitov, Chiedo la parola di Gleb Panfilov, Chiamami in una luminosa lontananza di Lavrov-Ljubsin, Solaris di Andrej Tarkovskij, Schiava d’amore-Partitura incompiuta per pianola meccanica-Cinque serate di Michalkov, definiscono il ritratto di un essere che non aveva mai ricevuto statura narrativa.
Infatti il cinema degli anni ’70 ha registrato anche una forte tendenza a valorizzare, tramite le riduzioni cinematografiche, le esperienze creative della letteratura. Va tuttavia tenuto presente che uno dei principi base del lavoro di riduzione cinematografica consiste proprio nel rifiuto assoluto ad illustrare semplicemente o a seguire letteralmente il testo da cui trae origine; gli autori di cinema sempre più spesso si sono posti il problema di trovare attraverso i mezzi della letteratura l’equivalente artistico nel lessico cinematografico, perciò spesso si sono abbastanza allontanati dal ‘testo’ dell’opera, proprio per riuscire a rendere quanto più possibile il suo ‘spirito’
.(2)
(Elena Solovéj, protagonista in Schiava d’amore)
Una immagine complessiva che si lubrifica non tanto di proclamazioni di rivincita
o da riabilitative ventate di obbligate biografie, quanto da un vigoroso respiro cosparso di lirismo. Che è, forse, la materia più perentoria di far risaltare, mediante la trasposizione poetica, esistenze e psicologie in precedenza elise. È un cinema che documenta anche il grigiore del reale, anche la gracilità delle relazioni, anche il milieu standardizzato del sentimento. Un cinema che si avvale della vivacità e delle risorse trasfigurative delle Repubbliche, per rendere polifonico il concerto delle tradizioni culturali locali.
Il passaggio dagli anni ’60 agli anni ’70 avviene nel cinema sovietico secondo linee di tendenza molto peculiari forse, ma singolarmente corrispondenti a quelle occidentali, in una temperie culturale analoga, con effetti simili, anche se in un quadro generale sostanzialmente diverso (la struttura della produzione a grandi studi)… Ma anche la nuova ‘qualità’ di questi autori anni ’70 è rivelatrice di un modo più sottile, consapevole e complesso di considerare il cinema ‘d’autore’, che non è lontano dai ripensamenti teorici e dalle nuove scelte espressive occidentale
.(3)
Non tutto, però, luccica. Accanto all’autonomia economica delle Repubbliche stesse e alla qualità intellettuale registica si intrecciano delle censure che scaturiscono da furbeschi ripensamenti; vengono fuori dinieghi di carattere produttivo, prolungate soste nel limbo del dopo
, parziali o complete sottrazioni di verità al pubblico. La geniale speranza-certezza, alias Sergej Paradžnov, è ridotta all’inoperosità; Otar Ioseliani si affida ai favoriti della luna
in territorio francese; Michalkov-Koncialovskij langue di malinconia in suolo americano; il sommo Tarkovskij, dopo due imperativi morali
(Andrej Rublëv e Stalker) si è da poco tempo accostato alla riva italo-cattolica. Il dissenso questa volta non paga. Il dissenso medesimo che turba-conturba-disturba viene punito. Ma se l’arte autentica è dissenso, l’educatore naturale che è l’utopia, una società che vuole costruire socialità in progressione democratica deve incitare-promanare capacità dissensuale se vuole negare se stessa come categoria chiusa nei recinti temporali o come carestia dialogica. Deve immergersi nel politicamente scorretto
, porre interrogativi, sollevare alterità, essere contro. L’esilio-risposta, anche se umanamente condivisibile, è perdita, tormento, solipsismo, distacco dalle radici
, uccisione del Padre. Se il cinema sovietico dell’esilio è, precipuamente, cinema d’arte, è, altresì, purtroppo, cinema della sconfitta, cinema della cancellazione e del sacrificio. Un cinema dell’Io in separazione con la Storia.
La nostalgia
è malattia mortale, sentita sofferenza, misurato procedere verso l’umidità materna; è il riandare, tramite l’immaginazione, alla realtà affettiva. È il volere il futuro nel presente. È la protesta solitaria e interiore dell’artista, costretto a mietere
e lavorare dentro l’ossatura degli Studios.
In Maria’s lovers di A. Koncialovskij il reduce di stirpe slava Ivan Bibic, inesperto d’amore per troppo desiderio, dichiara alla fine della ritrovata penetrazione
: Voglio tornare a casa
.
Il dramma dell’uomo contemporaneo fuori dalle mura d’origine, dal vivere in mondi piuttosto nemici. Il dramma dell’inappagamento. Perché corredarsi di ostili simbologie e di reiterate accensioni di candele? Perché abbagliarsi e perdersi nei flashback? Certamente per non perire d’angoscia. L’esilio, pertanto, è il prologo scenografico del personale logoramento. L’esilio non è soltanto accettazione, altresì imposizione al e del dissenso. Rigettare sì l’esilio, ma a patto di essere nel dissenso. Non per decapitare la dialettica; al contrario, per pensare razionalmente sul diritto di sognare
. Diritto inalienabile che i reggitori del governo, e di qualsiasi potere, devono convalidare-proteggere-consacrare.
Al di là delle prodotte osservazioni sul costrittivo esilio per l’abbondanza dissensuale (o meno) e sul rifiuto del centralismo politico-sociale con il suo carico di pressioni e di ricatti lavorativo-espressivi, il cinema sovietico cambia casacca linguistica e ordinanza mentale cercando di indagare sul che fare. Sfondare, quasi sempre inutilmente, sui mercati internazionali con prodotti ufficiali, kolossal bellici o furbe storie sentimentali, ora accettando, anche a denti stretti, che le opere più difficili e contestate all’interno trovino la via dell’esportazione. È pur sempre valuta estera pregiata quella che viene da un film di Tarkovskij, o di Paradžnov, di Ioseliani?
(4)
Sussiste un aitante tumulto interpretativo-scrutativo per addivenire ad una politica ideativa per consolidare un cinema nell’ambito di scossoni da differenti posizioni culturali. In patria, quindi, dopo la cotanta stima del cinema d’autore con i loro stilemi improntati al declino del racconto classico e all’approccio volutamente visionario, si delinea (o si proclama), dietro una vigilanza ideologica pensante
, il ripristino della narrativa e della piacevolezza inventiva, tenendo in pacata e curativa tensione l’acutezza professionale con il ritrovamento della russicità per andare oltre le mitologie e la moda delle false revisioni storiche. Il tutto esplicitato su fondali amicali alle storie che si snodano nella realtà e al risanato romanticismo.
In tale multiforme cantiere di studiate proposte, si è pur discusso di "una corrente stilistica che, seppur poco conosciuta nel resto del mondo e di rilevanza assolutamente marginale in Urss, riveste un’indubbia importanza per l’evoluzione del cinema e della società russa, una corrente che possiamo chiamare ‘realismo nascosto’, un’autentica nouvelle vague, arrivata verso la metà degli anni sessanta a dare cambio alla ‘nuova sincerità’ ".(5)
Nel magniloquente contenitore produttivo e di giusti esordi, l’autore che più negli anni ’70 e seguenti, molto seguenti, ha incarnato l’eclatante originalità risponde al nome di Nikita Michalkov. Il finisseur russo, dotato di genio e sregolatezza, di filmazioni che matrimoniano la scrittura registica con l’intelligenza colloquiatrice delle realizzazioni. Da qualche acuto perorativo di questioni cinematografiche (e altro) è sorto un interrogativo, doverosamente serio: Sembra un ‘caso’ al rovescio: perché dunque Michalkov è rimasto e ha avuto fortuna durante (e dopo) l’impero comunista, senza rinnegare il proprio pensiero e senza nemmeno divenire il regista ufficiale o il cineasta di regime? Le ragioni sono forse parecchie e complesse, ma si possono riassumere nella capacità di adattarsi alle regole, di aggirare il sistema, di parlare (in questo caso di filmare) mediante simboli e allegorie, di rendere gloria alle tradizioni e al contempo di trasformare questi omaggi in esercizi di genuino spessore artistico
.(6)
D’accordo. …Un attestato chiarificatore. Michalkov possiede uno scintillio in più, uno stadio di maggiore conoscenza sia dei mutamenti psichici dell’uomo sovietico che delle apprensioni della società. E disbriga e padroneggia il suo flemmatico e spaziale operare nel cinema, essendo confortato dell’innata passione di redigere e di porre in pratica il proprio credo nel piacere visivo e nella rilettura culturale della storia e dell’anima russa con l’impronta della salutarità del possibile godimento estetico. Ebbene il filmario Michalkoviano è cinema dell’interno, non del dissenso, né tanto meno di probabili eresie. È cinema che tronca i grandi assunti, le verità sul mondo, i massimi sistemi. È prettamente movie allusivo
, mediato
, affabilmente perturbativo
. È l’altro gemito, intriso di tristezza, ma di rianimazioni della memoria, che prende corposità non urlando
mistiche contemplazioni né inseguendo irrealistiche prospettive.
Alla domanda rivolta a Michalkov sulla funzione del cineasta nell’oggi, egli asserisce: "È qualcuno che deve avere una propria opinione, un proprio punto di vista su ogni questione. Soltanto un tale interesse può stimolare un impulso creativo… Un cineasta deve avere un’opinione interamente sua, personalissima su tutto e non già un’opinione ‘in generale’.
Sono convinto che, in arte, la più terribile è questa nozione di ‘in generale’. L’immagine di un uomo ‘in generale’, è irrisolutezza, lo spiazzamento di un creatore e, di conseguenza, l’impossibilità di conoscere esattamente questo stesso artista. È per questo che si vedono dei film girati da registi ‘in generale’, dei film privi di impronta individuale, dell’attitudine individuale del regista. La causa di molti fallimenti risiede nell’approccio, per così dire, filisteo del lavoro registico… Il punto di vista personale bisogna educarlo dall’infanzia e bisogna saperlo difendere".
Un cinema che solidarizza con i coefficienti della figuratività e che si brucia
nell’intarsio narrativo. Michalkov rivela doti di incalzante apprendistato riprendendo le aree di rottura dei dispositivi linguistici lievitati nell’alveo del disgelo
. È specificamente nell’ossigeno delle invenzioni che si dischiude un modulario di sconvolgente beltà. È nel campionario di fertilità trasfigurativa che, a gradazioni, si manifesta una programmazione di pronta divulgazione dell’Umano. È nel cinema-cinema che vengono a predominanza le sollecitazioni ad un riscontro delle positività dell’animus vivendi russo. Cinema indiretto
in quanto straniante pur nella estrosità formale e nella propensione dimorativa dei sentimenti. Poiché egli poggia sul set, sull’amalgama amicale della troupe, sulla forza della rêverie le sue vibrazioni poetiche, tant’è che il messaggio, o l’invito alla visione, si ordina in letture dal flusso graffiante
. A proposito della costruzione filmica, nel primo periodo, il cineasta si è avvalso sempre di cooperatori fissi dalla vincente professionalità, quali lo scenografo e sceneggiatore Aleksandr Abadasjan, il direttore della fotografia Pavel Lebesev, il musicista Eduard Artemjev, i fedeli attori (Elena Solovéj, Aleksandr Kaljagin, Olek Tabakov) per una ulteriore sicurezza e libertà, valutato il benessere ideale del cantiere collaborativo.
Il cinema per Michalkov è la possibilità di porsi domande e di non richiedere obbligatoriamente risposte; è anche la necessità di essere sinceri. Sono contrario al cinema pedagogico, ma vorrei credere che i miei film possano aiutare, non a rispondere, ma almeno a porsi domande; e tutto questo è indirizzato ad un unico scopo, ossia che nel mio paese si viva meglio, che si risolva una serie di problemi. Non sono tempi in cui si devono fare delle dichiarazioni per dire che questo va bene e quello male; credo che porsi domande incita a pensare, a svolgere un lavoro importante e costruttivo. Io cerco di fare questo attraverso la macchina da presa
.
E per quanto concerne la memoria biologica dello spettatore in relazione alla sua, queste due memorie non sono separabili. Ma forse, ripensandoci, il discorso è un po’ diverso. Penso che quando ci si ricorda di qualcosa, si ricorda non solo il fatto, ma anche come è avvenuto, quindi questo include non solo l’accaduto, ma anche l’atmosfera che lo circondava; quindi siamo già nella memoria biologica, una memoria dei sensi. Se, per esempio, una persona ricorda un amore e qualche momento di questo amore, si ricordano anche suoni, odori di quel momento, è già una memoria del tempo, biologica
.
Un cinema che incita l’uomo a rinverdire il bagaglio mnemonico e a meditare sugli accadimenti che hanno reso palpitante di cospicuo progresso il paesaggio della nazione, pur tra rimarchevoli brezze rivoluzionarie e frenanti rimbalzi. Assistiamo a un viaggio artistico in cui l’intercolleganza tra il turgore affabulativo e la cornice filosofica delle tematiche si combina perfettamente. Dopo il saggio di diploma Un giorno tranquillo alla fine della guerra, il cólto catalogo di amorose citazioni Amico tra i nemici, nemico tra gli amici. Ossia un brillante western, zeppo di pertinenti piani-sequenza, con i rossi
e i bianchi
che si contrastano secondo le cadenze della ballata
, offrendo un giocoso lavorio sul senso della vita
e il ritratto di alcuni episodi della guerra civile. Nel 1975, con Raba Ljubvi (Schiava d’amore), egli si impone come metteur en scène di prima grandezza.
Si narra la storia dei cinematografari (non tutti) che riparano in Crimea (zona ancora governata dalle guardie bianche) durante la Rivoluzione del ’17. Tra andature sonnolente e rimandi allo sfarzo zarista, essi si ingegnano a sognare sull’onda di un allestimento scenico decifrativo dello stato d’animo di chi trascorre il suo mènage sul filo del perenne attendere. Limitati dalla mancanza di pellicola, gironzolando tra il lieto sfavillio e capricci situati sul non-senso. Tra uno sbadiglio e l’altro, incuranti del vitale soffio dell’Evento, ansimano alla ricerca che possa scuotere il loro torpore. Tra volteggi mentali la diva (Olga Voznessenskaja) e l’operatore (Viktor) conoscono i fremiti dell’amore. Olga, all’inizio inabile a capire, ascolta gli sparsi frammenti