Jean-Pierre e Luc Dardenne
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La singolarità evenemenziale del reale non è qualcosa di immediato, ma effetto di un processo, che vede il personaggio passare attraverso la lotta per il riconoscimento (lavoro, paternità), e il cinema attraverso un denso lavoro di composizione.
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Anteprima del libro
Jean-Pierre e Luc Dardenne - Alessia Cervini
modello"
INTRODUZIONE
di
Alessia Cervini e Luca Venzi*[1]
1. Come tutti i grandi cinema che pensano «povero, semplice, nudo»1, anche quello di Jean-Pierre e Luc Dardenne è un cinema pieno di strati, di pieghe, di fondi impensati e di fitti e finissimi orditi di senso. Un cinema in definitiva molto complesso, fosse anche soltanto per il fatto che vi si addensano senza sosta temi grandi e gravi, formidabili – paternità, filiazione, attesa dell’altro, tradimento, dignità, tentazione dell’omicidio, insomma, un’interrogazione dell’umano –, gli stessi che innervano una parte larga e importante della cultura occidentale e della sua pratica artistica, pratica che (lo ha detto una volta suggestivamente Godard e i Dardenne ne converrebbero[2]) dell’Occidente non sarebbe stata nel tempo altro che la morale. Dunque, un cinema arduo e alto, e insieme quanto più è possibile terrestre e materico, che incontra la stratificazione delle forme e delle figure proprio in ragione dello sforzo di fare semplice e di fare chiaro.
Certo, il cinema dei Dardenne, almeno da quando trova e percorre le proprie inclinazioni e mette in pratica le proprie misure, vale a dire da La promesse in giù, fino al recente Il ragazzo con la bicicletta o fino a questo Deux jours, une nuit attualmente in pre-produzione, è senza dubbio anche un modello di cinema rigoroso. E come tutti i grandi cinema del rigore ostinato, dell’austerità formativa, è un cinema aperto, pulsante e in lungo e in largo percorso da correnti di vita. Un cinema che nell’atto di raccogliersi, di proteggersi, perfino di appartarsi – e di salvaguardare la propria allure documentaristica –, trova le ragioni del proprio consistere e quelle della propria libertà. E che serrandosi attorno alle proprie ossessioni e a quelle dei propri personaggi, conformandosi come alcunché di chiuso, di compresso, di impenetrabile, si fa capace di sorprendenti momenti di apertura, di distensioni inattese, di autentiche prese del respiro. Queste zone d’aria, questi varchi, coincidono talora coi tratti conclusivi dei singoli film (i finali sfiniti di Rosetta, de Il figlio, de L’enfant, dello stesso La promesse) e per ciò stesso li liberano dalla morsa configurativa che li attanaglia, oppure, più semplicemente bucano il corpo del testo e, magari soltanto per un istante, lo costringono a girare a vuoto, a disperdere e a disfare il suo dominante stato di tensione (la corsa in go-kart di Igor ne La promesse, la pedalata notturna di Cyril dopo l’ultimo rifiuto del padre ne Il ragazzo con la bicicletta, ecc.). Questa dinamica di compressione e distensione, presa e mancanza del respiro è ciò che segna il passo, il ritmo del cinema dei Dardenne, cui spesso i due cineasti fanno riferimento e che Luc descrive talora proprio nei termini di un processo di respirazione («Il ritmo, il respiro è la nostra forma cinematografica. […] Una specie di febbre, di affanno, di frenesia, di irrequietezza interrotta da calme respirazioni ancora percorse da un brivido inestinguibile»[3]).
In ogni caso, a guardarlo inscritto nel vasto e mosso panorama contemporaneo della produzione di immagini, il cinema dei fratelli Dardenne si presenta soprattutto e con ogni evidenza come un cinema profondamente inattuale. Nel tempo delle poderose, rinnovate attrazioni del cinema spettacolare, della performatività ludica, combinatoria, neoformalistica di molta produzione cosiddetta postmoderna, di certe stratificate sperimentazioni audiovisive, i Dardenne appaiono forse gli ultimi (grandi) eredi di un certo modo di fare e di pensare il cinema, vale a dire di una tradizione cinematografica vera e propria che nel cosiddetto cinema moderno ha avuto il suo territorio d’elezione e le sue configurazioni più compiute: quella tradizione per cui l’azione di uno sguardo è l’unità operativa di uno stile e insieme già sempre una presa di posizione sul mondo.
Immediatamente riconoscibile e per molti versi unico nell’orizzonte composito e incerto di questo nostro presente postmediale, il cinema dei Dardenne eredita dalla tradizione della modernità e in modo sorprendente la ripensa e la rifigura, esattamente come il cinema di un Eastwood fa con un’altra grande tradizione cinematografica, quella della classicità hollywoodiana: né nell’uno né nell’altro caso, è chiaro, agisce alcun tipo di istanza manierista, ma solo il timbro marcato, coerente, nitidamente fuori tempo, di una concezione del mondo e del cinema che lo mette in forma. E se è difficile pensare ad autori più distanti tra loro di quanto lo siano Eastwood e i Dardenne, è proprio sotto il segno di una vistosa e potente inattualità che pare possibile accostare i loro nomi.
È allora soprattutto in ragione di questa inattualità che questo libro collettivo, in accordo con le linee portanti della serie che lo ospita – che proprio a Eastwood aveva dedicato il suo titolo d’esordio[4] –, ha scelto di interrogare il cinema dei Dardenne, di rilevarne e discuterne in un disegno d’insieme i tratti individuanti, i modi, le forme caratterizzanti. Un disegno d’insieme che lavora per lo più attorno alla stagione matura dell’opera dardenniana, quella inaugurata da La promesse, non senza tuttavia ripercorrere in più di un passaggio – per rimandi, rifrazioni, richiami – anche il composito e importante lavoro dei due cineasti che precede quella stessa stagione. Perché al di là dei decisivi cambi di regime discorsivo (già nei secondi anni ’80: dal documentario politico al film di finzione), delle ricerche singolari, dei disorientamenti temporanei, delle svolte, il cinema dei Dardenne, tutto intero, appare infine un cinema organico e per molti versi coeso. Un cinema che dai lavori sulla classe operaia vallona ai titoli più celebrati e importanti degli ultimi anni si è sempre sforzato di abitare il proprio tempo come una forza contraria. E che con costanza, lo rilevava acutamente M.-E. Mélon, che scriveva appena dopo La promesse, ha consegnato la propria azione e la propria presenza a un’ostinata, tenace postura di resistenza[5].
2. Ci sono luoghi in cui questa resistenza tenacemente si manifesta e ci sono modalità specifiche attraverso le quali il cinema dei Dardenne, altrettanto tenacemente, dispiegandoli li rivela. Sono questi due piani che, fra le altre cose, questo volume vuol mettere in connessione, mostrando l’intreccio, per certi versi unico, che i film presi in analisi mettono in rilievo, fra il ricorrere di un nucleo preciso di temi e un modo preciso, assolutamente riconoscibile, di raccontarli. Una ragione scarna, ma senz’altro sufficiente, sulla base della quale accogliere i Dardenne fra coloro che, nel panorama del cinema contemporaneo, sono capaci di riattualizzare, problematizzandola, l’idea stessa di autorialità
.
C’è, nel cinema dei Dardenne, una galleria omogenea di corpi (forse nessuno dei loro personaggi è davvero in grado, infatti, di contraddire questa sorta di paradigma
fisiologico) che manifestano la loro capacità di (r)esistere per esempio nel lavoro che compiono, quest’ultimo essendo lo strumento a disposizione anche di chi è senza parole (e i personaggi dei film dei Dardenne sono spesso, per estrazione sociale soprattutto, incapaci di esporre dialetticamente – comprendendola essi stessi – la propria condizione) per sperare di ottenere un riconoscimento di tipo sociale; quel riconoscimento che, almeno in prima istanza, non si può non avere, per sperare di essere qualcuno
per sé e per gli altri. A questo primo, essenziale, livello del discorso ciò che rivela la sua capacità di resistenza è dunque quel piano di immanenza a cui la vita è consegnata e con il quale il cinema dei Dardenne mantiene un rapporto di contiguità, così come dimostra il loro modo di usare la macchina da presa, mai esterna al racconto, sempre vicina (eppure mai indiscreta) ai corpi degli attori, ai loro gesti, alle loro più segrete espressioni.
Ma c’è ancora di più, in considerazione del fatto che è esattamente nelle pieghe della contingenza assoluta, in cui la vita si dispiega, che si nasconde e si alimenta una forma di resistenza ancor più radicale. Essa ha a che fare, in questo caso, con un senso di spiritualità, che la materialità non seppellisce ma anzi rafforza, dal momento che, nella forma della grazia, esso sembra poter far capolino soltanto attraverso il silenzio del vuoto della materia. Stiamo parlando, evidentemente, di una spiritualità che è intrecciata e trova manifestazione nell’etica di uno sguardo che sa guardare fra le cose e trovare in esse il luogo in cui silenziosamente nasce l’umanità stessa dell’uomo. Uno sguardo capace di far questo è incardinato in una condizione che è la condizione umana, ma da dentro
sa, al contempo, come non perdere la capacità di guardare fuori, salvaguardando quello spazio d’apertura, in cui si rivela il senso più profondo dell’essere uomo.
C’è dunque una strada, facilmente rintracciabile, nel cinema dei Dardenne che conduce dalla materia allo spirito e che equivale, su un piano formale, all’alternanza di inquadrature strettissime, a ridosso dei corpi degli attori, quasi a volerne ascoltare il respiro, e un uso del fuori campo che diventa voce di un fuori
radicale, aprendo uno spiraglio dentro e oltre la materia che il cinema mette in forma. A ben vedere, questo movimento è lo stesso che compiono gran parte, quasi tutti, i personaggi dei film dei Dardenne. Essi sono assegnati a condizioni di indigenza da cui sembrano non poter scartare; attraverso il lavoro o forme analoghe di riconoscimento sociale essi cercano un modo per ricollocarsi e vedersi restituita, attraverso gli altri, una immagine diversa di sé. Tale processo, però, è destinato a non subire scacco e a non chiudersi in un fallimento definitivo, solo se viaggia parallelamente alla ricerca di un legame che non ha garanzie societarie, ma umane soltanto. Così il cammino compiuto dai personaggi dei Dardenne non è funzionale semplicemente al loro riscatto sociale, ma punta dritto alla scoperta della loro più intima umanità, e per questo è cadenzato da incontri che dicono della necessità tutta umana di costruire relazioni d’amicizia, d’amore, di reciproca fiducia, capaci di sopperire, in molti casi, alla mancanza di padri e madri assenti.
Lo dicono, fra le altre, le storie di due donne, Rosetta e Lorna. Entrambe capiscono che non può esserci riscatto per loro se non si dimostrano capaci anzitutto di scardinare la rete di dispositivi, apparentemente inviolabili, in cui – per una sorta di necessità ineludibile – sono cadute. Se vuole ottenere un lavoro e sperare soprattutto che questo coincida con il miglioramento effettivo della propria condizione, Rosetta capisce di dover
salvare il suo nemico
caduto nello stagno e farlo diventare suo amico
. Lorna sa che per diventare cittadina belga non deve soltanto preoccuparsi di procurarsi un passaporto, ma anche e soprattutto di non veder compromessa la sua dignità di donna, per esempio decidendo di non assecondare il gioco di quelli che vogliono eliminare l’uomo che ha accettato di sposarla per farle avere i documenti necessari alla realizzazione del suo progetto. Lorna sa che la sua umanità
è qualcosa di più prezioso della sua cittadinanza
ed essa non ha bisogno di documenti che simbolicamente la certifichino, ma di gesti reali che se ne facciano dimostrazione: semplici gesti, come un abbraccio o un bacio.
Costruire un discorso che prenda in carico una tale sovrapposizione di temi e scelte di stile, significa pensarlo e concepirlo (pur nella sua organizzazione interna, articolata per lemmi, che connettono l’immagine al concetto), come ritorno costante su certe note che il lettore sentirà risuonare in maniera quasi regolare. Oltre che dalla coincidenza di punti di vista, maturati da un confronto costante degli autori fra loro, la forma omogenea del volume dipende in questo caso, anche e forse soprattutto, dall’estrema coerenza interna di un mondo
e un modo di fare cinema, quello dei Dardenne, che si contraddistingue per un rigore che, chiunque ne scriva, non può non rispettare.
[1]* A partire da una discussione comune dei temi di seguito affrontati, i curatori hanno così ripartito la stesura di questa Introduzione: Luca Venzi ha scritto il paragrafo 1, Alessia Cervini il paragrafo 2.
1 L. Dardenne, Dietro i nostri occhi. Un diario, tr. it., Isbn edizioni, Milano 2009, p. 10.
[2] Cfr. J.-L. Godard, Jean-Luc Godard rencontre Régis Debray (1995), in Id., Jean-Luc Godard par Jean-Luc Godard, Cahiers du cinéma, Paris 1998, vol. II, p. 423. Luc Dardenne scrive nello stesso periodo (1994) nel diario che l’arte si configurerebbe come «una modalità dell’istituzione dell’impossibilità di uccidere […] Guardare lo schermo, il dipinto, la scena, la scultura, la pagina, ascoltare il canto, la musica, sarebbe: non uccidere», Id., Dietro i nostri occhi. Un diario, cit., p. 31.
[3]Ivi, p. 68.
[4]Clint Eastwood, a cura di A. Canadè, A. Cervini, Pellegrini, Cosenza 2012.
[5] M.-E. Mélon, Les enfants de Prométhée, in Revue belge du cinéma
, n. 41 (1996-1997), numero monografico, Luc et Jean-Pierre Dardenne. Vingt ans de travail en cinéma et vidéo
, p. 5.
Alessandro Canadè
APERTURA
L’uomo è sempre in trappola,
nella condizione di dovere sempre