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La rete di Thanatos.: Memorie digitali, commemorazioni e riti di commiato dell'IperModernità
La rete di Thanatos.: Memorie digitali, commemorazioni e riti di commiato dell'IperModernità
La rete di Thanatos.: Memorie digitali, commemorazioni e riti di commiato dell'IperModernità
E-book460 pagine6 ore

La rete di Thanatos.: Memorie digitali, commemorazioni e riti di commiato dell'IperModernità

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Info su questo ebook

Studiata da ogni prospettiva possibile, la Rete è oggi considerata un contesto sociale all’interno del quale si consumano relazioni, incontri, affetti e pratiche di ogni genere. Meno esplorato fino ad oggi è stato l’uso di questi spazi per forme di partecipazione che intercettano l’esperienza straordinaria, ultima: il limite umano. Questo libro propone un percorso socio-antropologico e comunicativo all’interno delle maglie della Rete alla ricerca di nuove forme di ritualità che assumono un carattere commemorativo. Un’attenzione particolare è rivolta ai contesti partecipativi e alle loro recenti evoluzioni nei social network sites. Dopo una breve contestualizzazione del tema della morte nella società di oggi e un’analisi dei principali cambiamenti socio-antropologici che hanno interessato questo argomento, verranno proposti i risultati di una ricerca esplorativa nel Web, al fine di individuare le caratteristiche principali delle nuove pratiche commemorative e proto-rituali dopo la perdita di una persona cara.
LinguaItaliano
Data di uscita31 ott 2012
ISBN9788896771532
La rete di Thanatos.: Memorie digitali, commemorazioni e riti di commiato dell'IperModernità

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    Anteprima del libro

    La rete di Thanatos. - Alessandra Micalizzi

    Sitografia

    Utopie digitali e…

    «l’uomo è l’unico tra i viventi a non essere corredato d’istinti e perciò è quell’essere la cui esistenza, non essendo precodificata, è posta come compito. Eludere tale compito equivale a rinunciare alla condizione umana, a perdere la propria vita prima che sopraggiunga la morte, che a questo punto suggella la fine non di un’esistenza, ma di un semplice percorso biologico».

    U. Galimberti, (La casa di Psiche, 2005)

    Velocità, Sovrabbondanza, Possibilità (Gamba, 2002). Queste sono tre delle parole chiave utilizzate per descrivere il nostro tempo.

    La società occidentale oggi, infatti, sembra soggetta a moti sempre più accelerati che contraggono la linea temporale su un unico punto cristallizzato in un istante eterno (Maffesoli, 2003), e non più in grado di definire la corrispettiva coordinata spaziale, perduta nelle disseminazioni virtuali e virtualizzate.

    Velocità, dunque, accompagnata da un processo di deterritorializzazione di tutto ciò che concerne l’esperienza umana: azioni, comunicazioni e relazioni (Abruzzese, 2000). Lo svincolamento dalla dimensione spaziale, così come la riduzione del tempo ad una presentificazione eternizzata (fra gli altri Maffesoli, 2003), è il risultato di un processo di espansione della natura umana al di là della propria epidermide grazie soprattutto all’ausilio delle tecniche e delle tecnologie di ultima generazione.

    (…) alcuni dispositivi tecnologici, la fotografia, il cinema, l’elettrificazione della società, riuscendo a fissare nell’istante il mondo, cominciano quel processo di spazializzazione del tempo e di conseguente assoggettamento dello stesso al presente (…)» (Pecchinenda, 1997, p. 111).

    E se la storia dell’homo sapiens è stata segnata dall’acquisizione del linguaggio, l’uomo della tarda modernità è in grado di produrre sofi-sticate strumentazioni che neutralizzano i confini corporei per estendere le potenzialità di ciascun essere umano, esponenzialmente¹.

    Fanno parte delle fantasmagorie del nostro tempo anche i media – prima elettronici, oggi soprattutto digitali – che sono sempre più mediatori di esperienza, si interpongono nella nostra percezione del mondo e si fanno costruttori di immaginari e di rappresentazioni della realtà.

    Velocità che consuma il senso e il valore dei contenuti e dei prodotti scambiati all’interno del mondo occidentale, richiedendo un ulteriore accelerazione dei processi produttivi e di quelli di consumo, a discapito, spesso, di quello che chiamiamo esperienza.

    È a questo processo di proliferazione, distribuzione e consumo di contenuti di varia natura che ci riferiamo quando parliamo di sovrabbondanza. Le tecnologie e soprattutto i media ci consentono contatti, inimmaginati e inimmaginabili per le generazioni del passato, con quantità di materiali prodotti appositamente, rimediati o recuperati a piccoli frammenti dal reale. Contenuti che ricodificati entrano a fare parte della nostra esistenza e del nostro modo di percepire e comprendere il mondo-della-vita in cui siamo immersi.

    Dalla sovrabbondanza si origina la possibilità, intesa come «il potenziamento tendente all’infinito delle capacità umane» (Gamba, 2004, p. 64).

    Possibilità che riduce a un limite che tende a zero i vincoli che caratterizzavano la nostra specie, quei vincoli che da sempre erano criteri definitori del nostro essere nel mondo: lo spazio e il tempo.

    Le nuove tecnologie – primo fra tutti la Rete – offre la possibilità di essere contemporaneamente qui e altrove in un tempo che è costantemente declinato al presente: il tempo reale.

    Ancora una volta, il tecnopolio che caratterizza l’Oggi, dunque, vede il trionfo della disseminazione della propria presenza attraverso surrogati mediali e mediati, alla ricerca di luoghi personalizzati e personalizzabili, ridefiniti e ritagliati sulle esigenze del singolo (La Cecla, 2005).

    Con l’esperienza e dunque con la propria presenza, viene anche smaterializzata e distribuita la propria identità, in nome di un’estroflessione cognitiva (Longo, 2000), che vede al centro un individuo sempre più desideroso di unicità, di ubiquità ed anche di eternità:

    «ci appaiono frammentate le persone con cui comunichiamo con i mezzi diversi e la distanza fra quei frammenti cresce in misura proporzionale col crescere della velocità dei mezzi utilizzati: con l’effetto di proiettare anche dentro di noi, mediante la relazione emotiva stabilita dalla comunicazione, la frammentazione esterna e inocularci la sgradevole sensazione di non essere uno bensì cento mila.» (De Carli, 1997, p. 69)

    La sovrabbondanza di stimoli, il bisogno di velocità per coglierli tutti e l’estensione costante delle proprie possibilità portano l’individuo della tarda modernità a cercare di superare l’ultimo grande limite, ad oggi ineludibile: la propria morte.

    Confrontarsi con la propria natura finita significa anche riflettere sul senso della vita. Ma la tecnica, la tecnologie e di conseguenza media e prodotti mediali che ne fanno parte, possono davvero costituire una valida risposta al bisogno di dare un senso al proprio esistere?

    Abbiamo aperto questo breve capitolo introduttivo con una citazione di Galimberti che non dà una risposta rassicurante a questo interrogativo. No, forse la tecnica non può e non basta. Anzi, forse la tecnica – e aggiungiamo noi la tecnologia – è, secondo l’autore, la causa della perdita, da parte dell’uomo, di un posto che abbia un suo significato all’interno del ciclo della Vita. Ricorda, infatti, l’autore che:

    «la domanda di senso si fa più acuta nell’era della tecnica, perché la tecnica tende a mortificare l’individuo nella sua peculiarità, per ridurlo a puro funzionario di un apparato, la cui efficienza è garantita dalla sostituibilità degli individui più che dalla loro specificità (…), senza una visibile finalità che possa giustificare e rinsaldare la loro identità» (p. 13)

    La tecnica diventa in questo modo un supporto, un completamento della natura incompleta e incompiuta dell’uomo, e al contempo un vincolo.

    Un vincolo in termini di acquisizione di abilità, di mediazione di un rapporto con il reale che per lungo tempo è stato caratterizzato da immediatezza.

    Qualcosa di simile è accaduto alla morte. Pur nella sua tragicità, un rapido sguardo alle società tradizionali mostra come l’esperienza del morire, vissuta attraverso la perdita dell’altro significativo, aveva un sua sensatezza. Attraverso ritualità declinate nel tempo secondo prassi differenti, la morte aveva un suo posto nel quotidiano e soprattutto, veniva vissuta collettivamente, tramite il supporto della comunità.

    Oggi, le società tradizionali non esistono più nel mondo occidentale e i grandi ed efficienti sistemi post industriali sembrano troppo coinvolti dalla sovrabbondanza, dalla velocità e dalla possibilità offerte del loro tempo per occuparsi di morte:

    «impoverimento del linguaggio tipico della morte, restringersi del campo simbolico, rifiuto dei riti, elusione del lutto, incertezza delle credenze cofortanti, è questo il segno (o l’effetto) dello smarrimento che l’uomo occidentale prova oggi» (Thomas, 1976, p. 34).

    E allora ci sembra opportuno alla luce di questo cono d’ombra – ossimoro voluto – porci alcuni – i primi – interrogativi che fanno da sfondo a questo lavoro e cui cercheremo di dare una risposta nel corso della nostra trattazione e attraverso la ricerca esplorativa, il vero oggetto del presente lavoro. Che posizione occupa la morte oggi nella nostra società, post-industriale e secolarizzata? Che ruolo hanno i media, vecchi e nuovi, rispetto al modo di fare e condividere l’esperienza della morte?

    Sono due i processi in atto. E tali processi si intrecciano con la tecnica e la tecnologia poiché coinvolgono e sono coinvolti dalla sempre maggiore penetrazione dei media nel quotidiano. Il primo riguarda la tabuizzazione della morte, da parte della società occidentale. Il secondo ha a che vedere con un processo diametralmente opposto e comunque presente che è quello dell’oscenizzazione dell’esperienza della morte – ad opera soprattutto di alcuni media.

    Ma procediamo con ordine. Il nostro periodo storico sembra caratterizzato da un rifiuto generalizzato di affrontare il tema della morte nel quotidiano. La medicalizzazione del morente, la privatizzazione dei riti di commiato e – in maniera indiretta – i contenuti socialmente condivisi di eterna giovinezza, di orrore verso il naturale processo di invecchiamento del corpo e della mente che introduce alla morte, sono alcuni dei segnali più evidenti di questo rifiuto collettivo dell’accettazione della nostra natura finita.

    Tutti i ritrovati tecnologici che compensano la nostra caducità sono la materializzazione di questo profondo desiderio di non esaurirsi in un tempo che, essendo percepito come sempre più veloce, non viene goduto e dunque non basta mai. L’individuo non è più in grado né di staccarsi dalla sua Vita né di lasciare andare chi ama, anche perché privato delle Storie e delle Grandi Religioni, a loro volta non più in grado di essere una valida risposta sull’Aldilà (Morin, 2005).

    Fra questi processi vi sono anche i tentativi di ibridazione del corpo umano con la macchina, con la tecnica non più semplicemente assimilata nel proprio quotidiano attraverso l’uso, ma addirittura incarnata, fatta propria in senso fisico, per sostituire, estendere, prolungare quell’involucro – il corpo – che avvolge l’uomo che ci vive dentro.

    Tabù significa anche non lasciare uno spazio per la riflessione e la socializzazione della perdita quando questa diventa realtà, significa farsi trovare impreparati da una esperienza che prima o poi, in maniera più o meno attesa, si concretizza per ciascuno di noi.

    Al silenzio assordante del proprio intorno sociale di fronte alla concreta perdita di chi amiamo, si contrappongono i racconti messi in scena – riprodotti o semplicemente comunicati – dei media, soprattutto di quelli testuali e audiovisuali.

    Racconti che in certi casi parlano di altri quotidiani, di altre vite comuni che per il solo fatto di essere al di là dello schermo o della pagina di giornale, appaiono lontane, quasi non del tutto reali. Sono storie che a volte attirano la nostra attenzione quasi sotto una dimensione estetica e stuzzicano la fantasia macabra che è in ognuno di noi.

    In altri casi i media ospitano racconti che sono la trasposizione di miti e fantasie connessi alla morte. Il cinema, l’editoria sono i contesti dell’Industria Culturale maggiormente coinvolti da questo processo affabulatorio. La morte, sotto le sembianze della Nera Signora o di qualsiasi altra restituzione immaginifica più o meno condivisa, entra nelle nostre case.

    In questa tensione tra tabuizzazione e oscenizzazione della morte si scorge l’importanza del ruolo dei media, divenuti per molti aspetti una fonte di socializzazione a tutti gli effetti.

    Attraverso film, fumetti, racconti gialli etc. la morte da un lato seduce e si lascia toccare, dall’altro lato, si allontana e trova un sua ricollocazione nelle fantasie, nell’intangibile, nell’irreale.

    Certamente i media di ultima generazione, con particolare riguardo alla Rete, non sono più semplicemente mezzi attraverso cui viene veicolata informazione, ma diventano degli spazi interattivi entro cui si costruiscono o si consumano – a seconda dei punti di vista – relazioni.

    Molte delle attività del nostro quotidiano trovano una loro traduzione digitale: transazioni economiche, acquisti, corsi di formazione, relazioni amicali e amorose. Tutto può essere codificato e mediato dal linguaggio binario dei computer. Può dunque avere un suo spazio anche la morte?

    Lo studio che proponiamo nelle prossime pagine cerca di indagare se il mondo digitale dalle trame reticolari possa effettivamente costituire uno spazio di socializzazione entro cui ricollocare l’esperienza della morte.

    In modo particolare, nel primo capitolo, tenteremo di ripercorrere storicamente il complesso rapporto tra uomo e morte. Cercando di non perdere di vista il focus della nostra trattazione, descriveremo il ruolo della morte nelle varie forme di organizzazione sociale che si sono succedute nel tempo, fino ad arrivare ai giorni nostri.

    Indagheremo, attraverso la presentazione del punto di vista di diversi studiosi, le cause che hanno portato a una lenta espulsione del tema della morte, rendendola il nuovo tabù.

    Prima di addentrarci nei dettagli della ricerca empirica che abbiamo condotto e che sono presentati nel terzo capitolo, nel secondo affronteremo più nel dettaglio il tema a cui abbiamo fatto cenno nelle pagine precedenti. Considerata la vastità della letteratura esistente sul mondo della Rete, proporremo solo una lettura di alcuni aspetti del medium, cercando di focalizzare la nostra attenzione su come possa essere messa in discorso la morte anche on-line. Faremo soprattutto riferimento alla morte come oggetto di rappresentazioni condivise e veico-late dal medium ed anche alla morte come esperienza esperita, condivisa o semplicemente archiviata attraverso la rete.

    Infine, la seconda parte del lavoro è interamente dedicata alla ricerca condotta per verificare se e in che modo la rete possa costituire un nuovo spazio sociale entro cui condividere l’esperienza della morte.

    Nel terzo capitolo, come anticipato, descriveremo la metodologia utilizzata. La ricerca ha infatti previsto una fase desk, di esplorazione del mondo digitale per verificare forme e modi della socializzazione di questo tema, e una fase field volta a indagare le motivazioni che inducono a visitare e utilizzare spazi digitali per affrontare questi argomento, le pratiche d’uso e le dinamiche relazionali che si generano al loro interno, e le funzioni che un medium come la Rete assolve per i fruitori. Come avremo modo di approfondire nel capitolo metodologico – ma come si scorgerà anche in altre parti della tesi – l’approccio che caratterizza tutto il nostro lavoro è quello narrativo. Il presupposto che guiderà le interpretazioni e che ha condizionato anche l’impianto metodologico, così come alcune premesse teoriche, è che l’uomo è immerso in un mondo fatto di storie e che la narrazione costituisca non soltanto una modalità enunciativa ma anche e soprattutto una struttura cognitiva che guida il nostro modo di percepire noi stessi, ciò che ci circonda, e di costruire una rappresentazione della realtà: «in un certo senso un individuo non ha una storia ma è una storia» (Pecchinenda, 2005, p. 17).

    Il mondo della Rete è fatto nella maggior parte dei casi da narrazioni. E ciò è ancora più vero nel caso di esperienze di perdita, messe in comune in ambienti digitali, e di ricordi personali, archiviati nei cosiddetti siti della memoria.

    Questo è il motivo per cui, costruire la scheda di analisi del contenuto dei siti e degli altri ambienti in chiave narrativa, per trattare materiale che già presenta una sua struttura discorsiva impregnata di storie di vita, ha reso il lavoro interpretativo più semplice.

    Allo stesso modo la struttura narrativa dell’intervista condotta con i soggetti che hanno preso parte alla fase field ha agevolato la raccolta delle informazioni e ha permesso di analizzare e interpretare il materiale, tenendo sempre in considerazione la prospettiva che ha orientato il nostro lavoro.

    Gli ultimi capitoli sono dedicati alla parte più sperimentale, fornendo alcune proposte interpretative per la lettura socio-antropologica e comunicativa di questo fenomeno. Nel quarto racconteremo le principali osservazioni connesse alla fase esplorativa della ricerca descritta e offriremo dei modelli interpretativi per schematizzare sinteticamente modi e forme della messa in discorso del tema della morte. Considerata la complessità dell’argomento e la ricchezza del materiale trovato, suddivideremo l’analisi contestuale - relativa alle caratteristiche dei diversi ambienti individuati in rete – da quella testuale – che riguarderà i contenuti effettivamente presenti in questi ambienti e gli elementi formali e narrativi che ne derivano.

    Prendendo in considerazione alcune dimensioni della scheda d’analisi – il tempo della narrazione, il referente e il soggetto della stessa – proporremo una lettura sintetica delle tipologie di contenuti individuati.

    Infine, L’ultimo capitolo è dedicato a una riflessione sull’uso degli ambienti social di ultima generazione, con particolare riferimento a Youtube.

    Come avremo modo di specificare meglio durante la trattazione, la parte esplorativa del lavoro di ricerca ha riguardato soprattutto il 2007. A partire da quei risultati, abbiamo sviluppato due filoni di lavoro sul campo.

    Il primo era più connesso al tema del lutto e della condivisione dell’esperienza della perdita on-line che ha portato alla realizzazione di uno studio comparativo tra ambienti dentro e fuori la Rete².

    Il secondo ha riguardato soprattutto il tema della memoria e della commemorazione e le pratiche di partecipazione a riti di commiato. Quest’area di studio ha visto la conduzione di alcuni studi mirati sul terremoto in Abruzzo e la comunicazione dal basso condivisa su Facebook³ e alcune ricerche di carattere esplorativo su Youtube e i vidememorials.

    L’ultima parte di questo lavoro, dunque, ripercorre gli aspetti più significativi introdotti dai social network sites rispetto alle pratiche di espressione e partecipazione al dolore per la morte di una persona cara.

    Lasciamo dunque il lettore libero di addentrarsi nelle pagine di questa pubblicazione, rimandando alle conclusioni il tentativo di tracciare le maglie di Thanatos nell’Iper Modernità.

    Sul morire: excursus storico-sociale attraverso l’esperienza della morte

    «La morte è lo specchio in cui il nostro spirito si contempla: la morte è il riflesso, l’eco del nostro Essere.»

    L. Feuerbach

    1. Il concetto di morte

    Uno dei grandi interrogativi che accompagna da sempre la storia dell’uomo, sin dai suoi primi passi verso l’ominazione, riguarda la ricerca di senso della propria esistenza. Questo tema non può prescindere da una definizione e comprensione dell’esperienza del morire che sembra annullare ogni possibile significato dell’essere-nel-mondo⁴. Come ricorda Freud (1915), infatti, «i filosofi hanno affermato che l’enigma intellettuale suscitato nell’uomo primogenio dall’immagine della morte lo costrinse a riflettere e fu il punto di partenza di ogni successiva speculazione» (p. 141).

    Detto in altre parole non è possibile rescindere il significato della vita da quello della morte e una definizione accurata di questo concetto deve confrontarsi con la complessità delle diverse prospettive da cui si può osservare e tentare di capire il senso della finitezza umana.

    Da un punto di vista strettamente biologico, la morte è il risultato di un aumento di entropia che fa prevalere il Caos sull’ordine iscritto nella natura della creatura vivente, generando la disgregazione e, dunque, la fine della vita⁵. Alcune prospettive di matrice scientifica ritengono che la fine dell’esistenza di ciascuna forma vivente sia una conseguenza del processo di diversificazione alla base della ricchezza di varietà delle manifestazioni della vita sulla terra. Il lento e naturale processo di differenziazione dall’indeterminatezza del Tutto e del Nulla ha generato la vita e quindi, con essa, la morte (Sermonti, 2008)⁶.

    In questa accezione, la fine dell’esistenza è inscritta sin dal primo attimo di vita in ogni essere vivente e costituisce la diretta conseguenza dell’essere parte di un ciclo naturale che ha inizio in un dato momento, procede con lo sviluppo dell’essere e si conclude in uno specifico punto, dettato dall’informazione genetica contenuta nel DNA più o meno complesso di quella particolare forma di vita, purché non ci siano eventi esterni che possano interrompere prematuramente il concludersi del ciclo vitale. Per dirla con Scheler (1987) «la morte non si trova solo alla fine di un processo: ciò che si trova è la realizzazione più o meno accidentale di questa essenza» (p. 63); essa è dunque «un a priori per ogni osservazione ed esperienza induttiva relativa al contenuto mutevole di ogni processo vitale» (p. 64)

    Da questa prospettiva non si può che riconoscere la naturalità della fine dell’esistenza del singolo, inscritta all’interno di un processo eternizzante per la propria specie: la Vita nella sua accezione più ampia.

    Se in un’ottica generale e spersonalizzata la posizione biologica è assolutamente condivisibile, non si può dire lo stesso quando viene calata nella realtà del singolo individuo e soprattutto nella propria realtà.

    Questa visione del ciclo di vita e di morte appare indubbiamente nuda, crudele e senza senso per l’essere umano che da secoli cerca di trovare una risposta sufficientemente sensata al suo essere-nel-mondo.

    Come suggerisce Galimberti (2005), questa prospettiva «confligge con la vita del singolo individuo che vuol durare. In lui la naturalità della morte non coincide con l’accettazione passiva della morte perché, se è vero che ogni singola vita deve morire affinché la vita viva, è altrettanto vero che ciascuna vita non vuole consegnarsi alla morte, non perché teme quel che può accadere dopo, ma perché è vita e in quanto vita rifiuta la morte» (p.24).

    L’evoluzione della specie umana, infatti, ha determinato, nel tempo, l’acquisizione da parte dell’ominide della capacità di autopercepirsi e di considerarsi individuo, ovvero essere dotato di una propria coscienza che, pur facendo parte di una collettività, agisce e pensa in funzione di obiettivi personali che possono o meno coincidere con quelli del gruppo. La percezione del mondo come altro da sé e il riconoscimento della propria individualità sono alla base della presa di coscienza della morte come dato di fatto dell’esistenza e, dunque, della paura della dissoluzione, intesa come fine della propria individualità, che essa determina (Morin, 2002).

    Se dovessimo leggere questo ulteriore passaggio della storia dell’uomo da ominide a individuo sulla base di quanto affermato precedentemente in un’ottica biologica, potremmo dire che anche da un punto di vista psicologico la coscienza della morte è la conseguenza della propria capacità di autopercepirsi e quindi di cogliere la propria differenza dal resto del mondo.

    Distinguersi come essere vivente o come individuo significa, dunque, morire.

    Ecco che la storia dell’uomo, a partire da quel guizzo irreversibile di acquisizione di autocoscienza, si caratterizza per i tentativi adattivi di riuscire a fronteggiare il paradosso inscritto nella sua stessa natura di individuo inserito nello schema cosmologico, apparentemente crudele e senza senso, della Natura⁷.

    La contraddizione è determinata dal desiderio profondo dell’essere di rientrare nel quadro generale della Vita e dall’altrettanto forte bisogno di affermare se stesso sul mondo in quanto individuo, diversificato, specifico, dotato di una sua coscienza: l’uomo è dunque eternamente combattuto tra il desiderio di riappacificazione con la natura attraverso l’inserimento nel ciclo vitale, e il profondo bisogno di essere individuo, di esistere in quanto entità autonoma dotata di una sua personalità, soggettività e capacità d’azione (Morin, 2002). Una contrapposizione che vede affrontarsi l’istinto di conservazione della specie e la necessità di protezione della propria individualità.

    Di fronte alla certezza della propria fine, numerosi sono i meccanismi di autodifesa che l’uomo ha messo in atto nel corso del tempo. La posizione di Borkenau (1987) è che di fatto la storia dell’uomo sia stata plasmata dall’esperienza della morte, che ha determinato l’innescarsi di meccanismi evolutivi sul piano sociale. Ad esempio, proprio la cultura è ritenuta dall’autore una delle forme di organizzazione sociale sorta in risposta alla minaccia della fine:

    in questo senso la cultura si definisce non solo con ciò che si oppone all’informe, al selvaggio, al caos, all’indefinito, come tutto ciò che sta dietro alla morte e che dalla morte è riattualizzato, ma anche come un ‘incessante gigantesca elaborazione del lutto (trad. Cavicchia Scalamonti, 1992, p. 17).

    Della stessa opinione è Fuchs (1969) quando sostiene che ogni forma di organizzazione sociale ha una base adattiva di protezione contro la morte:

    (…) ogni società, nei modi e nelle vie per essa specifici, serve alla conservazione della vita umana, come pure, indirettamente, offre protezione contro la morte (p.14)

    Ma anche i miti, le religioni, le leggi, la filosofia e le scienze possono essere considerati tutti artefatti volti a superare il carattere effimero e caduco dell’esistenza da parte dell’uomo, da sempre, alla ricerca di figure di stabilità, «forme eternizzanti sottratte al flusso del divenire, per difendersi dalla lucida visione del tragico» della propria finitudine (Galimberti, 2005, corsivo nostro). È attraverso la morte che gli uomini hanno imparato a generare cultura mediante esperienze collettive (Berzano, 2001):

    poiché la morte è ineluttabile, gli uomini sono obbligati a elaborare una cosmologia, a negoziare scambi con questa realtà sconosciuta, e in questa negoziazione e scambio simbolico a costruire rapporti sociali. La morte provoca l’elaborazione della cultura perché è limite, cioè determinazione del rapporto con il mondo (Mauss 1936, p. 89)

    Sul piano soggettivo, la contraddizione tra il senso cosmologico inscritto nell’appartenenza a una specie e il bisogno di restare nel tempo ha generato il tentativo di dare un senso alla propria presenza nel mondo che si traduce nella rimozione dell’idea di finitudine, che inevitabilmente minaccerebbe il valore e il senso di qualsiasi cosa, contaminandola con la caducità inscritta nella nostra stessa fine (Pascal, 1968). E così, come ci suggerisce Galimberti (2004), l’uomo deve confrontarsi con la contrapposizione tra «la vita della natura che, per vivere, esige la morte delle singole esistenze, e la singola esistenza che, per vivere, deve allontanare la morte» (p.24).

    Da qui il bisogno di mettere in atto meccanismi di legittimazione della morte che trovano la loro manifestazione nelle innumerevoli tracce lasciate dalle varie civiltà rispetto al culto dei morti. Ritornando alla posizione di Borkenau (1987), l’autore ha notato come da un punto di vista antropologico, l’uomo abbia elaborato due posizioni opposte di legittimazione psicologica dell’evento della morte e, nel corso della storia, si siano succeduti differenti tentativi di adattamento alla morte che tendevano ora all’una ora all’altra posizione.

    Secondo Borkenau (ivi), di fronte alla morte le varie civiltà hanno reagito o con il suo diniego, in risposta a un innato senso di immortalità che l’uomo si porta inscritto dentro, o attraverso la sua accettazione come tappa essenziale della vita stessa, ultimo compimento di un disegno naturale cosmologico. Fra questi due poli l’autore colloca una terza modalità di risposta di fronte al dramma della morte che pone le basi per le grandi religioni della salvezza, ovvero la sfida della morte e i relativi miti di immortalità.

    Quanto detto sino ad ora ci permette di sottolineare ulteriormente la difficoltà di una definizione chiara del concetto di morte, poiché si tratta di un tema irrisolto e ancestrale della storia dell’uomo che intercetta dimensioni individuali, sociali e biologiche che, pur nella loro contrapposizione, risultano contemporaneamente inscritte nell’essere umano.

    Da un lato, si ha la percezione di una morte astratta intesa come compimento naturale di un disegno cosmologico e ineluttabile a cui l’uomo appartiene e a cui non può sottrarsi; dall’altro lato, non si può fare a meno di cogliere il senso tragico dell’esistenza umana – nel suo essere reale – destinata alla sua indeterminata conclusione.

    L’assenza di una finalità, che sia accettabile, induce l’uomo al rifiuto di una simile definizione di morte, sperimentata e vissuta attraverso la perdita dell’altro, che ci ricorda la realtà della nostra natura e del nostro destino.

    È attraverso l’altro e la sofferenza che sperimentiamo per la separazione, che siamo messi davanti al nostro limite di esseri indeterminati, sospesi sul nulla:«dal Nulla venuti, al nulla destinati. Puri eventi consegnati alla precarietà dell’esistere che chiedono il senso della loro precarietà» (Galimberti, 2005, p. 13)

    E si va, dunque, alla ricerca di una senso, di un fine ultimo, che non coincida necessariamente con la fine della nostra esistenza e ci permetta di superarla⁹ (Jung, 1934).

    2. Il pensiero della morte in Occidente

    Definire il concetto di morte non può prescindere da un inquadramento culturale e storico che consenta di cogliere, anche semplicemente da un punto di vista adattivo, le risposte messe in atto dall’uomo e i tentativi, rimasti fino ad oggi vani, di trovare una soluzione all’angoscia del totale dissolvimento e del ricongiungimento con un insensato Nulla.

    Il nostro studio cercherà, dunque, di conciliare le prospettive di carattere socio-antropologico con le principali teorie psicologiche – che presenteremo nel prossimo capitolo – le quali, nel corso del tempo, si sono succedute per spiegare i meccanismi reattivi di fronte alla morte dell’altro e all’imminenza della propria fine. Cercherà inoltre di focalizzare l’attenzione sulla storia di una particolare Civiltà, quella Occidentale, che nei secoli ha modificato molto il suo modo di approcciarsi alla morte sotto l’influsso di particolari condizioni storiche e culturali, che vedremo nel dettaglio nelle pagine che seguono. Solo attraverso un percorso lungo l’asse temporale della storia dell’Uomo d’Occidente possiamo forse cogliere le radici degli atteggiamenti che caratterizzano l’attuale visione della morte e i meccanismi antropologici che la vedono al di fuori dell’interesse e della coscienza individuale, trasformata in un nuovo tabù.

    Come ci suggerisce Fuchs (1969), gli orientamenti socioculturali nei riguardi delle visioni e delle credenze sul morire¹⁰, sono da intendersi come variabili dipendenti rispetto all’organizzazione sociale e alle regole di una data comunità: «essi riflettono, lo possiamo assumere con un alto grado di plausibilità, forme tipiche del morire, che sono al loro volta dipendenti dalle forme di influenza che la società esercita sulla morte» (p. 22).

    Come vedremo a breve, la storia delle civiltà occidentali ha seguito un corso differente rispetto a quelle di matrice orientale a causa soprattutto di due fenomeni. Il primo riguarda la graduale separazione del concetto di morte da quello di vita. Se in una visione più tradizionale, o se preferiamo primitiva, la fine era parte integrante dell’esistenza, ineluttabile destino che non costituiva una tappa finale ma un processo quotidiano di consumazione della vita verso l’assenza definitiva, oggi è evidente che si tende a definire la morte in contrapposizione alla vita e non come una sua tappa (Baudrillard, 1990).

    Il secondo processo che caratterizza la visione della morte oggi è strettamente connesso al precedente e riguarda l’esternalizzazione delle cause di morte. Se la morte non è più parte della vita, essa non può avere la sua spiegazione in un ordine cosmologico superiore che comprende l’uomo e ne compone la sua stessa essenza. Possiamo dire con Freud (1917), che oggi «tendiamo a spogliare la morte del suo carattere di necessità, considerandola come un evento puramente accidentale» (p. 70). La morte deve necessariamente essere collocata altrove. La visione della morte naturale¹¹, dunque, come processo biologico inscritto nella natura stessa dell’uomo, è stata abbandonata a favore dell’idea di morte come catastrofe, come il cattivo funzionamento di un ingranaggio che si autopercepisce come destinato a durare in eterno (Baudrillard, 1990).

    Partendo da questi due presupposti dell’attuale visione della morte in Occidente, nelle pagine che seguono, cercheremo di ricostruirne le cause storiche, antropologiche e sociali.

    2.1 Le credenze arcaiche

    È ormai consuetudine far risalire la prime espressioni di civiltà con i ritrovamenti delle rudimentali pratiche di sepoltura che sono testimonianza delle modalità dell’ominide di rapportarsi al dramma della morte. Il culto dei morti, anche nella sua modalità meno complessa, costituisce il segno di una prima forma di conoscenza della morte come momento di separazione, per lo meno fisica, dalla comunità: potremmo dire con Borkenau (1987) che nella fase iniziale della storia dell’individuo è come se «la morte umana fluttuasse vagamente tra la pallida conoscenza della morte e la speranza di sfuggirvi» (p.125).

    Alla base di quelli che diventeranno rituali¹² sempre più complessi vi è fondamentalmente, in questo primo periodo della storia dell’uomo, più che una paura della morte, il timore di possibili reazioni da parte dei defunti. La visione della vita, fortemente ancorata alla dimensione comunitaria, fa sì che la morte venga percepita come un passaggio di status che sancisce la trasformazione del soggetto da membro vivente della comunità a defunto, comunque presente all’interno dei gruppi, solitamente con il suo stesso ruolo sociale:

    Manca la concezione della morte come fine della vita, tipica di sistemi di idee più recenti; essa non viene concepita come un taglio, ma piuttosto come un percorso, come un cambiamento dal gruppo dei vivi a quello dei morti (Fuchs, 1969, p. 34)

    La morte è, dunque, molto presente all’interno della vita delle società tradizionali e, come si può notare, non vi è una netta differenza tra regno dei morti e regno dei vivi; al contrario, essi sembrano occupare lo stesso spazio fisico e ciò contribuisce a un contenimento del terrore nei riguardi della fine della propria vita. La morte appare, dunque, come un momento di passaggio socialmente definito¹³ (ivi, 1969).

    L’individualità, pur avendo iniziato il suo processo di affermazione, non occupa una posizione centrale nella vita comunitaria, la cui funzionalità e il cui ordine prevalgono sulle esigenze del singolo e quindi anche sul valore e l’importanza di ciascun componente del gruppo (Freund, 1987).

    Il rito in sé aveva una funzione adattiva di contenimento della paura della morte, ma anche e soprattutto costituiva, da un lato, un modo per purificare la comunità dal possibile contagio da parte del defunto ripristinando in questo modo la normalità della vita

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