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Il lato oscuro
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E-book311 pagine4 ore

Il lato oscuro

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Info su questo ebook


Una pianta rigogliosa, rara e bellissima troneggia nel lussuoso salotto di Lory; la donna riversa sullo straordinario esemplare tutte le sue attenzioni, trovandosi spesso sola nel silenzio della sua villa, in quell’atollo dell’Oceano dove ha seguito Daniele, suo marito, ricercatore e scienziato lanciato in una brillante carriera. Una vita patinata, condotta in realtà su due binari diversi; Lory soffre la distanza di lui, assorto nel lavoro, lo sente allontanarsi, assorbito nei suoi studi, sempre più ripiegato su se stesso. La pianta sembra colmare quel vuoto d’amore che in Lory dilaga, ingoiando attese, desideri e ricordi. La pianta sembra capire, comprendere, consolare. Un mistero l’avvolge, un fascino irresistibile dietro al quale si cela un terribile segreto; tutta la vita davanti, tutta la vita intera, tutto quanto la circonda e la riempie rischia di precipitare, dapprima sotto le provocazioni sottili del dubbio, poi travolto nella cruda verità di tradimenti e menzogne.
Il lato oscuro è un romanzo travolgente, una lettura appassionante, una spystory ricca di personaggi indimenticabili, interamente immersa in una atmosfera di suspense e tensione che tiene il lettore con il fiato sospeso fino all’ultima scena, spettatore di vicende e intrighi raccontati con abilità straordinaria.
LinguaItaliano
Data di uscita7 giu 2017
ISBN9788856783568
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    Anteprima del libro

    Il lato oscuro - Gabriella Izzi Benedetti

    Albatros

    Nuove Voci

    Ebook

    © 2017 Gruppo Albatros Il Filo S.r.l. | Roma

    www.gruppoalbatrosilfilo.it

    ISBN 978-88-567-8356-8

    I edizione elettronica giugno 2017

    Capitolo I

    Con l’aumentare del caldo, l’aria via via più asciutta, le piante parevano soffrire. E l’attenzione di Lory triplicava; verso una in particolare, strana e bellissima. Quella mattina l’aveva affrancata da foglie ingiallite rasenti il fondo e un raggio di sole, invadendo il terriccio, aveva restituito un vago baluginare; originato, si avvide, da un esercito di esseri microscopici che, in basso, salivano su per gli steli fino alle prime foglie, tornavano indietro. Insetti la cui sommità rossastra e lucida emanava una tenue luminescenza. Erano migliaia; producevano un suono appena percettibile.

    Dalle finestre lo scroscio del fiume, non distante, arrivava a ondate, a seconda del vento; un vento che di rado posava, frusciando fra le tende. Forse per questo non ci aveva fatto caso.

    Il suo sconcerto si tradusse in un grido soffocato che attrasse l’attenzione di Najba, la cui sagoma robusta sembrò dominare la situazione: si aggirò attorno al vaso, scrutò, scosse il capo. Infine sentenziò:

    «Buttarla via».

    Era tipico del temperamento di lei: nativa dell’isola, d’irrazionale reattività, tutto ciò che non era parte del suo schema mentale o vissuto, acquistava contorni sospetti.

    «Buttarla via?!». Lory ebbe un moto di disappunto; quella pianta era il suo orgoglio, straordinaria nel verde chiaro dei petali panciuti, sfilati in punta, simili a grandi stelle. Cinque petali a formare un fiore verde pallido. Un fiore che il fioraio si ostinava a definir foglie:

    «Sono foglie, signora, ha mai visto fiori verde foglia?».

    «La struttura è quella del fiore».

    «Nasceranno altre foglie» aveva proseguito, imperterrito, «ma di forma differente».

    Era stato convocato per un consiglio sulla manutenzione dell’arbusto e non rinunciava al proprio parere.

    «Differente, come?».

    «Di forma lunga e arricciolata».

    «Allora ho ragione io, queste foglie finali sono fiori».

    «Faccia lei». Il fioraio, un misto di europeo e asiatico, era un omino garbato, e Lory una cliente assidua. Meglio assecondarla.

    Foglie o fiori che fossero, avevano un che di seducente nel picciolo ricurvo, simile a un collo, nella filettatura giallo-oro che nasceva all’attaccatura del peduncolo e ingrandiva come piccola cresta sulla rotondità di ciascun petalo, per concludersi a forma di goccia a tre quarti di essa. Anomala rispetto alle poche viste in giro, prive della filettatura e della pastosità dell’epidermide. Cinque grandi fiori, ciascuno di cinque petali, posti sulla sommità di cinque steli, quattro dei quali a mo’ di bracci di un candelabro, germogliati dal grosso stelo centrale. I pistilli contrastavano scuri, dieci per ogni fiore, ravvicinati due a due.

    Aggiunse il fioraio, a sottolineare la propria competenza:

    «Si aspetti a breve la mutazione degli steli». E così fu, difatti.

    Su ciascuno di essi apparvero piccole gemme, che mutarono in foglie oblunghe. Presero a restringersi intorno al gambo centrale, creando l’impressione di un’anfora fiorita.

    Lory era compiaciuta; la bellissima pianta era un dono di Daniele, dopo un lungo periodo di disattenzione. Miracolo dell’isola, forse.

    La rarità dell’arbusto aveva indotto il fioraio a chiederne la provenienza, ma Daniele era stato vago; geloso com’era della sua privacy, specie delle sue, anche minime, scoperte. Sicché Lory non possedeva risposte. Alla delusione dell’uomo:

    «Perché le interessa tanto?» s’informò.

    «È impossibile trovarne».

    Difatti non se ne vedeva una uguale, nella pur estesa isola del Pacifico, dove la vegetazione si mostrava in tutto il suo fascino strano che soggiogava Lory; e su di essa andava spostando, oltre al forte, disatteso istinto materno, la voglia di caldo buono, familiare, che quella terra lontana, nel sottrarglielo, le rendeva essenziale. Sicché nel soggiorno, nell’ingresso, sul terrazzo, era un susseguirsi di verde, frammisto a colori incredibili.

    Si aggirò intorno al vaso come a esorcizzarlo.

    «Buttarla via?» ripeté, «questa pianta è un dono del dottor Moratti».

    Ribadiva la sua preziosità.

    Najba non rispose; scrollò le spalle, inarcando le sopracciglia con impercettibile insofferenza che a Lory non sfuggì e fu per chiederne conto, ma si trattenne. Porre il problema significava discuterlo. E discutere del marito con Najba era fuori luogo. Aveva fatto proprio il ritornello della madre: A discutere con i sottoposti si perde in autorità.

    Il defilarsi della devozione di Najba verso Daniele le creava un oscuro senso di sconfitta, intuendo come dalla condotta del marito nascesse la reazione della donna, divenuta sottilmente inquisitiva verso lui e protettiva verso lei.

    E poi, si disse, cosa avrebbe potuto raccontarle Najba, più di quanto lei stessa intuiva? Daniele viveva per il suo progetto scientifico, la sua vera vita si svolgeva nel Centro, tra i colleghi, lei era divenuta un optional. Najba non era in grado di capire.

    «Andrò dal fioraio» decise, indossando maglietta e jeans che la resero simile a una ragazzina. Najba, benché coetanea, si sentì vecchia nei suoi trentatré anni sfiancati dalla fatica, ingoiati da ristrettezze; e non provò invidia, anzi sentì crescere un sentimento solidale verso quella donna dall’aria talvolta spaurita, tal’altra determinata e orgogliosa. E sacramentò in cuor suo verso il dottor Moratti.

    Lory trovò il fioraio sbrigativo.

    «Saranno coccinelle, stia tranquilla». Le allungò un flacone.

    Ma non era convinta:

    «Può venire a vederle?».

    «È impossibile, signora; mia suocera sta male, abita lontano». E già si aggirava organizzando la chiusura.

    Lory sospirò; avrebbe aspettato Daniele, ammesso di riuscire a interessarlo al problema. Il momento magico delle attenzioni di lui pareva dissolto. Si aggirò per le stanze, ma il pensiero era sempre là. Preoccupata che i microscopici insetti non dilagassero, immaginandoli fuoriuscire come da un bollitore e spaziare dovunque, decise di allontanare dalla pianta le altre; iniziò a trasferirle nel terrazzo.

    «Vuol toglierle proprio tutte?». Najba, le mani sui fianchi, scuoteva la testa.

    «Tutte».

    «Terrazzo pieno di piante».

    «Si stringeranno un po’».

    «È un caldo oramai che …».

    «Caleremo il tendone».

    «Piante sotto tenda? Poca aria, sacrificate».

    «Uffa, Najba, sei noiosa!».

    Najba arrossì; era gentile, ma di temperamento fiero; nonostante il bruno intenso della pelle, il rossore s’intravedeva sulle gote; Lory si dolse, cercò una frase riparatrice, ma Najba prese ad afferrare un vaso dopo l’altro come fossero fuscelli, srotolò la tenda, si terse il sudore. Gli occhi, nerissimi, mandavano lampi d’indignazione. Era fatta così, una vera forza della natura. Infine, tirato a fatica il grosso vaso vicino alla portafinestra, nel soggiorno rimase solo lei, la pianta a forma di stella.

    «Vasi al sicuro, matrimonio meno».

    Doveva essere proprio irritata per osare una frase del genere.

    «Cioè?!». La donna la guardò senza rispondere.

    «Vuoi spiegare per piacere?».

    «È un detto di qui». Lory la guardò, interrogativa, e la donna, dispiaciuta, con il tipico tono sopra le righe di chi si sente in diritto di esprimersi e tuttavia ne prova la fatica:

    «Troppo pensiero sopra i fiori, meglio un bambino, no!?» disse d’un fiato.

    Un argomento così personale, affrontato da un essere così discreto! Si girò di scatto:

    «I bambini sono un gran peso, specie qui». Anche la sua voce era sopra le righe.

    Najba la guardò confusa:

    «Io non dovevo dire, signora, non dovevo».

    «E intanto in tutta questa confusione non sono riuscita a preparare un pasto decente». Il tono era di chi tronca un discorso; l’argomento la feriva troppo.

    «Ci penso io, non si preoccupi». Najba, conscia d’aver creato disagio, intendeva riscattarsi. Era sensibile, capace di devozione pressoché totale.

    «Ti aspettano a casa».

    La donna si strinse nelle spalle:

    «Si arrangeranno, una volta tanto».

    Lory sorrise: Fra tante una volta tanto pensò, la famiglia di Najba deve detestarmi; o forse no. In fondo erano straordinari ben retribuiti, nonostante i rifiuti della donna che odiava cronometrare il tempo. Dopo strenue lotte, era riuscita a imporre regali ai bambini di lei. Che Najba accettava come segno di stima.

    «Sicura?» chiese più che altro per cortesia, sollevata all’idea di un supplemento di mansioni da sbrigare. Il giorno seguente era il compleanno di Daniele.

    Nell’uscire si avvide che il vento era cresciuto: un vento caldo, asciutto, di cui provava il gusto in quell’aggrovigliarsi intorno al corpo, ai capelli che le danzavano sul volto. Benché scomodo le piaceva quel vento; parte di un’atmosfera essenziale che in quell’angolo di mondo lievitava all’interno del vivere, assorbendone e scomponendone l’assetto. Un contrasto insoluto. Ma il contrasto in quella terra assumeva valore di sistema: l’alternarsi continuo di allegria e malinconia, lo sfarzo dei colori nella riservatezza dei modi, la ricchezza spropositata contro realtà d’indigenza. Di questo aspetto soffriva e talvolta da esso, vilmente, prendeva le distanze, addentrandosi nella zona più elegante della città, europeizzata; si procedeva fra raffinatezze di ogni genere. Oppure cercava una mediazione nei luoghi dove le due realtà parevano coesistere: i mercati coperti, bazar chiusi da inferriate di tendenza liberty per lo più, eleganze minute e assolte dal tempo, dove si trovava di tutto. Sobrietà e opulenza parevano tollerarsi, farsi l’occhietto tra lo sfarfallio delle voci, i molteplici linguaggi, bizzarria delle esposizioni. In uno di essi si addentrò: il Mercato grande.

    Il flusso ininterrotto di gente, i richiami, la varietà della merce, le diedero un senso di appartenenza globale. Si aggirò fra i banchi: comprò barattoli di cibo per gatti, Poldo ne era ghiotto; un trenino e due bambolotti per i bambini di Najba, oggettini per i bimbi del corso presso il capanno-scuola; infine vide sventolare, in uno stand di merce ricercata, un superbo coordinato maschile: per il compleanno di Daniele sarebbe stato perfetto. L’avrebbe trasferito in un’elegante sacca di boutique; Daniele era divenuto molto selettivo. Lo era sempre stato, ma un tempo anche lui amava la gente e con essa il gusto della semplicità. Ora non più.

    Con incredulità, tra il moltiplicarsi dei volti inquadrò quello di Susan Withney, l’amica migliore di quella terra lontana; aveva l’aria di sfuggirle. La cercò spostandosi in qua e in là, la vide uscire frettolosa da un cancello laterale. Strano. Nel girare lo sguardo si accorse che un uomo alto, robusto, dalla barba rossiccia e brizzolata, la stava seguendo. Ancor più strano. Il volto dell’uomo non le riuscì nuovo, ma pescò invano nella memoria. Fu sul punto di rincorrere Susan per metterla in guardia, ma si avvide di un secondo uomo, di cui colse lo sguardo e che, a un cenno del primo, gli si aggregò in fretta. Era una sagoma a lei nota: l’uomo della bicicletta che talvolta percorreva lo stesso tragitto da lei percorso, in fondo al quale sorgeva il capanno scuola; pedalava lento dietro di lei che percepiva il fruscio dei raggi e il sobbalzar delle ruote, salvo affrettarsi più o meno allo stesso punto. Non ci aveva mai trovato niente di strano, poiché oltre la curva sorgevano villette. Automaticamente continuava a fissare l’uomo che, nel percepirne lo sguardo, si volse appena con un che di ambiguo, che tradiva contrarietà.

    Talvolta, rifletté Lory, nel tratto di strada sterrata le si affiancava Susan. Era in quelle occasioni che l’uomo pedalava dietro di loro, porgeva orecchio ai loro discorsi?

    I due si affrettarono dietro la donna.

    Che ci faceva in città Susan, in anticipo sulla data del rientro? Mike la faceva seguire? Le parve assurdo, anche se il rapporto fra i due era cambiato …

    Mike e Susan: Mike agile fra gomene e sartίe, tutt’uno col vento, Susan accanto a lui; intimità di sguardi, felicità che traspare da ogni gesto; in pochi mesi quante situazioni stravolte. C’era un nesso fra l’insolita scena e la frettolosa partenza di Susan? Svolgeva un’indagine segreta?

    Partita con un’équipe di antropologi verso vicine isole, Susan si era fatta viva con Lory all’inizio, poi non più. Prima della partenza il loro rapporto era poggiato su di una reciproca stima. S’incontravano presso il capanno creato per un corso di studi a favore di ragazzi meno abbienti e notavano identità di vedute, dalle quali traevano un senso di solidarietà indispensabile in quel Paese lontano, dove la vita le aveva condotte a seguito dei mariti, scienziati amici, anche se spesso in polemica fra loro. Mike Withney, un australiano dal viso più che bello, simpatico, scuro di capelli e dagli occhi mobilissimi, aveva un atteggiamento rigoroso verso gli obiettivi della scienza. Contrario ai pregiudizi come all’uso indiscriminato della ricerca scientifica e genetica in specie, si scontrava con Daniele, giudicato un genio in campo biotecnologico, la cui finalità era la sperimentazione fine a se stessa, svincolata da inutili orpelli moralistici.

    Mike, tempo addietro, era stato il geniale ideatore di un ecosistema estensibile e adattabile a qualsiasi realtà ambientale. Avrebbe risolto radicalmente, a suo dire, ogni problematica legata alla qualità del vivere, del convivere, del produrre: il progetto eco-52. Un progetto che, partito dal tema produttivo, era andato ben oltre.

    Daniele era scettico:

    «Utopie, un ecosistema del genere non può esistere se non in un contesto teorico. Si tratta di coinvolgere una gamma troppo vasta di risposte biologiche, fisiologiche, comportamentali, ambientali, psicologiche perfino».

    «Certo la gamma è vasta. Ma l’interconnessione armonica globale è possibile, lo dico a ragion veduta».

    Non entrava in dettagli; temeva che la foga lo portasse a trasferire il dialogo in formule. Le sue ricerche erano andate troppo oltre, qualcuno avrebbe potuto abusarne. Non che temesse Daniele, ma dell’amico non apprezzava il cinismo. Era sempre stato contrario a esasperazioni transgeniche, troppo spesso eticamente incompatibili. Il suo concetto poggiava sul fatto che la mutazione è parte dell’evoluzione naturale dell’uomo e della natura, e che essa avrebbe dovuto avvenire in una forma, una mutagenesi, capace di accelerare i tempi, a seconda dei luoghi, dei climi, delle connessioni fra simili, senza violazioni d’identità, del dna dei soggetti. Una rimodulazione armonica a livello planetario.

    «A me interessa la naturale adattabilità del soggetto» sosteneva.

    «Che è sempre un’incognita; l’istinto di supremazia, animale, sanguinario, persisterà comunque».

    «Non se si potenziano stimoli di tolleranza ambientale e, perché no? Morale».

    «Questa poi! Allora se riesci in questo puoi riuscire anche nel contrario, quindi non parlare in forma riduttiva per piacere, non con me!».

    Mike doveva ammettere in qualche misura, ma:

    «Ci sono differenze sostanziali e su quelle, non solo non lavoro, ma le rifiuto».

    «Qualcuno potrebbe arrivarci».

    «Se fornissi io i dati. E poi a chi servirebbe?».

    «A chi servirebbe?! Mike, sei uno sciocco idealista».

    «Oh, per piacere! A chi non interessa risolvere il problema globale; chi non ci guadagnerebbe, di’?».

    Queste discussioni iniziavano in genere dopo una partita a tennis, con l’irritazione di Mike nel vedere il collega accendersi una sigaretta.

    «Buon Dio, è possibile che non ti renda conto che il fumo nuoce?».

    Daniele, una volta tanto cedeva, con gran gusto di Lory. L’incontro di tennis era divenuto il collante dell’amicizia fra le due coppie.

    Daniele però, spenta la sigaretta, sembrava rivalersi su Mike. Le discussioni vertevano su svariati aspetti; quello produttivo in primo luogo.

    «Per quanto saremo in grado di risolvere il problema produttivo, esisterà sempre chi deterrà il potere economico e chi lo subirà» sosteneva Daniele.

    «È nostro compito lottare perché la biotecnologia non sia appannaggio delle multinazionali, tra finzione umanitaria e logica di sfruttamento di risorse veicolate a seconda dei profitti».

    «Enormi che siano le potenzialità della biotecnologia e i progressi della biologia molecolare, non siamo all’altezza di sviluppare un ecosistema perfetto».

    «Certo che sì, dai miei calcoli, sì. E risolveremmo anche il problema dell’inquinamento, frutto di un sistema esso stesso inquinante».

    «Perché ti basi su dati virtuali, simulazioni».

    «Nient’affatto, ciò che trasporto nel reale, corrisponde».

    «Insomma tu saresti il demiurgo!».

    «A parte che ogni scienziato, e lo vedi da te, finisce per sentirsi un demiurgo, al contrario io intendo interpretare leggi non scritte da me. Non può esserci casualità in un universo così grandiosamente e capillarmente programmato. Un’intelligenza superiore deve esserci».

    «Qualche abbaglio quest’intelligenza superiore l’ha preso, però».

    «Sembrerebbe. Ma chi ti dice che non abbia lasciato a noi il compito, se non l’obbligo, di proseguire nell’opera, volutamente? Accelerare l’evoluzione, operare mutazioni, senza stravolgere, qualunque sia il soggetto, in base al proprio codice evolutivo?».

    Un soggetto violato, sosteneva, vive una ribellione. Se della natura non si rispettano identità, codici, insiemi, essa si ribella. E natura è tutto, non solo noi e ogni esemplare animale o vegetale, anche un sasso; anch’esso ha una sua memoria, una sua identità. Ed è tutto collegato.

    «Non è che dica niente di tanto speciale» concludeva, «ma credo di essere arrivato alla radice; di aver trovato la chiave d’accesso».

    Daniele era stimolato dal progetto non tanto come tema sociale, ma ricerca in sé. L’idea dell’intreccio uomo-natura-ambiente da una prospettiva altra, lo intricava. Mutazioni in linea con l’etica e nel contempo con la soluzione economica. Dipanare la natura all’interno di una tastiera universale, in armonia, non contro. Un mondo nuovo. Un Eden.

    «E però» rifletteva, «esisterà sempre l’inestricabile incrocio fra mercato e politica. Mettiamo che tu riesca in questo potenziale paradiso terrestre; chi ci mette i capitali ti darà modo di usufruirne in autonomia?».

    «Intanto incominciamo col mettere a frutto il progetto, partendo da qui, dove le varietà genetiche favoriscono la ricerca».

    Daniele era sempre più interessato. La parte migliore di lui riemergeva.

    Poi, il fallimento. Improvviso. Tanto più amaro, quanto più inaspettato.

    I fatti sembrarono avvalorare le tesi di Daniele che, prendendo le distanze dalla ventata di entusiasmo, si distaccò da connesse tentazioni umanitarie.

    Il vento si era posato; il caldo mutava in calura. Lory si affrettò verso casa col pensiero a Susan il cui invidiabile rapporto con Mike si era come sfilacciato dentro inquietudini non chiarite. Non perché Susan si rifiutasse di parlarne, è che lei stessa non riusciva a collocare il problema in una logica convincente. Parlava di un Mike irriconoscibile.

    «Può un uomo di punto in bianco mutare personalità?!».

    «In che senso è mutato?»

    «Non è più il mio Mike». Taceva, cercando parole: «La sua mentalità è mutata. I valori in cui credeva, per i quali si batteva, ora li osteggia».

    «E come si giustifica?».

    «Non si giustifica, sfugge l’argomento».

    «Sarà lo stress, dopo una così forte delusione. Ne hai parlato con i medici?».

    Susan assumeva un’aria inquieta e spaventata. Rispondeva invariabilmente:

    «Non risolve niente».

    Il malessere di Mike mentre si trovava in laboratorio, continuava a essere motivo di cruccio per Susan. Mike, ricoverato d’urgenza presso il Central Hospital, era rimasto molti giorni in totale isolamento:

    «Quando mi è stato concesso di vederlo era un altro».

    Non era solo Susan a notarlo; i colleghi di lui erano ugualmente perplessi. Daniele, che aveva assorbito Mike nel proprio gruppo di ricerca, dopo lo smantellamento del progetto eco-52, si era trovato di fronte un uomo del quale doveva perfino mitigare le posizioni oltranziste. Una singolare metamorfosi che gli procurava disagio, come avere di fronte un estraneo. E dell’estraneo aveva preso i modi Mike, elusivo e privo degli hobby per lui vitali, a parte l’andar per mare, da solo, però. Adduceva quale alibi il mal di testa che, a breve termine dal malessere e dal ricovero, aveva preso ad affliggerlo con alti e bassi. Le riunioni fra le due coppie si erano dilazionate fino quasi a interrompersi.

    Susan non si dava pace e si lasciava andare ad autocritiche spietate quanto ingiustificate: rientrando a casa con ritardo sul previsto, in Università un alunno le aveva posto un quesito, aveva visto l’auto del marito sparire in curva. Sul tavolo, un biglietto: Un grosso problema da discutere. Ci vedremo a cena.

    Nel pomeriggio il ricovero. Susan continuava ad arrovellarsi: se fosse stata presente, se ne avesse saputo di più, se gli avesse impedito di uscire.

    «Non puoi farci niente, è andata così».

    «Se avessi supposto».

    «Cosa avresti potuto supporre; il malessere è intervenuto dopo!».

    Susan cambiava argomento, ma non stato d’animo. Lory e le altre amiche che convenivano presso il capanno, erano perplesse. Adrienne Sorel e Sara Borodin, anch’esse mogli di scienziati, completavano il gruppo delle educatrici. Si prodigavano quanto Lory per distrarre Susan, che fingeva di assecondarle, ma era chiaro che rimuginava e un filo conduttore continuava a seguire. Alle amiche sorse il dubbio che una qualche sbandata sentimentale fosse alla base del mutamento, ma Susan, intuendo, ne sorrise:

    «Se una cosa è rimasta è l’attrazione per me».

    «E tu?».

    «Io vivo divisa fra l’amore per quel che lui era, l’uomo che mi attrae, il rifiuto per quel che è, oggi. Non è semplice».

    Un pomeriggio aveva annunciato la decisione di unirsi a un gruppo di antropologi, che si addentravano in zone dove nuclei indigeni erano rimasti isolati da ogni contesto cosiddetto civile.

    «Così, di punto in bianco?».

    «È il mio lavoro, dopotutto».

    Susan, che aveva a suo attivo molte pubblicazioni a carattere etnologico, aveva sempre sostenuto come ogni partenza dovesse essere programmata in ogni dettaglio. Con un anticipo di almeno due mesi. Sembrò dunque alle amiche una specie di fuga. Adrienne, donna volitiva, scuoteva la testa:

    «Susan sbaglia, le situazioni si affrontano».

    Sara taceva; personalità rigorosa ma prudente, difficilmente s’immischiava.

    «Non serve discutere, tanto poi ognuno rimane del proprio parere».

    «Sara appartiene a un’altra generazione» commentava Adrienne, «donne che non s’immischiano. Che tristezza!».

    C’era del vero nel giudizio di Adrienne. Sara badava soprattutto alla sua famiglia. Non varcava mai un certo limite di disponibilità, a meno che non rientrasse in imperativi morali.

    L’ultima conversazione con Susan tornava spesso alla mente di Lory.

    «I medici parlano di un virus in fase di verifica». Era un pomeriggio assolato. Susan parlava come chi faccia uno sforzo su se stesso.

    «Allora tutti i ricercatori sono in pericolo, anzi tutti noi».

    «Pare di no. La faccenda è riferita a un particolare

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