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C Note
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E-book150 pagine2 ore

C Note

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Info su questo ebook

In un mondo che non è ormai più mondo, ma globo, la tecnologia non si presenta solo come ciò che distrugge i costumi della tradizione, ma anche come l’ultimo elemento unificatore dell’uomo. Tramite C-Note, ossia un programma informatico che cambierà radicalmente la vita del protagonista di questo romanzo, si aprono perciò alcuni quesiti: la tecnica è forse l'ultimo vero dio? E se così fosse, come l'uomo deve rapportarsi con essa, come vivere la situazione drammatica di estraniamento che essa ci impone?
LinguaItaliano
Data di uscita30 gen 2015
ISBN9788898894208
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    Anteprima del libro

    C Note - Giacomo Pasotti

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    Titolo: C-Note

    Autore: Giacomo Pasotti

    Editore: Temperino rosso edizioni

    Prima edizione 2015

    © 2015 Temperino Rosso Edizioni Fortini

    ISBN 978-88-98894-20-8

    1

    A aprì lentamente gli occhi. Per qualche secondo rimase immobile, sdraiato sul letto, gli arti spezzati, la testa inclinata. Sentiva il corpo intorpidito, ancora sotto il peso del sonno, che poco a poco si dissipava. Anche quella notte aveva dormito male, balzando da incubi ad ombre a cui non riusciva a dare un volto, ma che recavano con sé la memoria di un passato non del tutto frantumato. Rinunciò ben presto all'impresa di dar senso a quelle immagini sciolte. Si mise seduto, accompagnato dal suono delle ossa che timidamente scricchiolavano ad ogni singolo lieve movimento. Prese un profondo respiro e, sempre con la massima cautela, gli occhi rossi e gonfi, girò la testa verso il comodino, mirando alle lancette della sveglia. Un ghigno storto gli s'impresse sul viso quando si accorse che era quasi mezzogiorno: l'ora del colloquio di lavoro era ormai già da ore fuggita, inesorabile.

    Provando un leggero formicolio alla base della nuca, un senso di colpa dovuto non tanto all'essersi svegliato tardi, ma al fatto di non provare dentro di sé nemmeno un'oncia di rimorso, A si alzò dal letto con un basso borbottio. Dopo di che, lasciando che un piede dopo l'altro cadesse con gravità sul tappeto scuro della sua camera, uscì dalla stanza, spinto più che altro da una fame che lo sgranocchiava dall'interno. Una volta giunto nell'intima e stretta cucina, preparò, con gesti spenti e meccanici, una moca per il caffè e la mise sulla fiamma bluastra del gas. Prese un altro, profondo respiro: con un guizzo d'occhio vide il pacchetto che il padre aveva dimenticato la sera prima sul tavolo. Afferrò l'ultima sigaretta e l'accese. Dalle sue labbra secche si allungavano con pigrizia sottili linee di fumo. Un senso di nausea allora cominciò a salirgli, dalla bocca dello stomaco, su fino alla gola: era un timido colpo di acidità, invitato dal sapore amaro della prima sigaretta della giornata. Fu in quel singolo attimo che emerse il pensiero delle conseguenze delle azioni mancate di quella mattina. Presto i suoi genitori l'avrebbero cercato, ansiosi di sapere il responso del colloquio, colloquio per il quale non si era nemmeno alzato dal letto, non degnandolo così della pur minima attenzione. Non era la prima volta, certo, che marinava un incontro di lavoro, ma ormai stava diventando sempre più complicato inventarsi delle nuove scuse per ingannare i genitori. Il non mi hanno assunto, manco di esperienza, risuonava alle sue orecchie, ormai, come una giustificazione fin troppo stantia: si vergognava solo a pensar di dover riproporre ai genitori la solita filastrocca. Com'era possibile che ogni volta ne rimanessero incantati?

    Il fischio della moca lo ridestò. Fece un ultimo tiro e spense la sigaretta, la testa rossa schiacciata sulla fredda e bianca plastica del posacenere. Per alcuni secondi osservò, in religioso silenzio, il sottile velo di catrame dissiparsi nell'aria.

    *

    Con le braccia incrociate sul petto per proteggersi dal freddo gelido di quella mattina, B guardò frettolosamente intorno a sé, in cerca di qualcosa che fosse degno di attirare la sua attenzione. Poiché non vi era nulla per cui valesse la pena perder tempo, riprese a camminare con uno sbuffo, imperterrito, il viso spiegazzato in una maschera corrucciata. Ad ogni passo un gran peso gli attanagliava le gambe, come se trascinasse dietro di sé una sfera di metallo nero. Per questo motivo si sentiva un condannato a morte che va verso il patibolo: il suo turno di lavoro al Bar Vanilla era sul punto di iniziare. Dato che l'attimo dell'esecuzione era sempre più vicino, ogni tentativo per bighellonare era da lui ben accetto, anzi cercato: avrebbe accettato di far di tutto pur di rimandare anche di qualche secondo l'entrata al fatidico luogo di lavoro. Nel suo cuore si combatteva una battaglia di secondi, allo scopo di vincerne altri: ma B sapeva che era solo un lento massacro, guidato da un nemico ben più potente di lui, l'orologio che portava al polso.

    Assaporando l'inevitabile e così dolce sconfitta, si fermò dunque un'ultima volta, dandosi così lo spazio di un'ultima pausa e quindi di un'ultima piccola vittoria. Si appoggiò ad un basso muretto, di un marrone spento, al fianco della strada. Prese una sigaretta e, con calma, dopo che l'aria gelida della mattina fece breccia nel suo petto, l'accese, lasciando che la mente vagasse tra lampi improvvisi di pensieri.

    B odiava profondamente il suo lavoro: non tanto per il motivo che avesse a che fare tutti i giorni con clienti stupidi, fastidiosi ed arroganti, non perché il suo capo fosse semplicemente un incapace. No, queste cose poteva anche sopportarle. Era da tanto tempo che portava quel peso sulle spalle, da così tanto che sentiva una profonda cavità sulla schiena, come se avesse una gobba capovolta. Non era questo però a spingere B a detestare con spudorata sincerità il suo lavoro: ciò che lo tormentava, il demone che lo torturava era più che altro il fatto che, di questo mestiere, non ne poteva fare a meno. Dover lavorare senza possibilità di scelta, senza la libertà di poter frantumare, di demolire quel tremolante castello di carte quando più lo desiderava, con il soffio più leggero di cui erano capaci le sue labbra carnose. Tutto questo gli era proibito, costretto, per il solo motivo di mantenersi. Solo l'idea gli dava il più profondo disgusto, che si manifestava come un pugno dritto e ripetuto, a scadenze regolari, allo stomaco. B non voleva infatti dipendere da niente, ma soprattutto da nessuno: vedeva infatti di mal occhio ogni forma di rapporto con il prossimo, in cui percepiva sempre, dichiarata o meno, una certa ostilità. L'altro desidera sempre qualcosa: per questo motivo è spinto a cercare di stringere legami con le altre persone. Questa era la filosofia spicciola di B che non poteva che vedere nei rapporti, di ogni tipo, specie o razza, sempre e solo sinonimi di relazioni di compra-vendita: un favore per un altro, una cortesia per un'altra.

    Era fortemente convinto che l'alzarsi ogni mattina per andare al lavoro fosse, in sostanza, con una convinzione pressante come un pugnale al cuore, una vera e propria perdita di energie. Aveva ben altro a cui pensare, su cui lavorare, su cui spendere le proprie forze: aveva infatti un gran progetto, il suo grande sogno. Solo ciò era degno, ai suoi occhi, delle sue capacità; solo per la fortuna di esso, B aveva, stava e avrebbe sacrificato ogni secondo del proprio tempo passato, presente e futuro. Il progetto era la sua vita. Certo, era in un momento di transizione, aveva bisogno di soldi e quindi di un lavoro. Tuttavia ciò non toglieva il fatto che era una situazione temporanea, un periodo odioso della sua giovinezza che presto avrebbe lasciato il posto all'attuazione del suo gran piano e al battesimo dell'età adulta: l'età della pace, ma in primo luogo della grande conquista. Mancava poco, B lo sentiva sulla propria pelle, nel ritmo del proprio cuore. Ma, proprio perché i momenti di quell'umiliazione erano ormai agli sgoccioli, sopportare l'alito pesante del suo datore di lavoro non fu mai così difficile come in quegli ultimi turni.

    B perciò, seduto su quel muretto, ancora distante da tutto ciò che era diventata la sua vita, espresse un desiderio, o meglio una preghiera, al tempo: gli chiese di percorrere con ali il suo cammino, di permettere a lui, B, di svegliarsi in un anno futuro, in un letto sconosciuto, in una stanza mai vista, lontano da quell'incubo che chiamava presente. E, se questo non fosse stato possibile, pregava almeno che il tempo si fermasse, anche per qualche secondo, così che gli permettesse di rimanere ancora per pochi, ma sacri attimi, da solo, lontano dagli ordini sgarbati dei clienti, dalle sfuriate del capo, dallo scorrere lento e noioso dell'orologio. Tuttavia, come B ben sapeva, il tempo mai ascolta e quindi mai si ferma; anzi, soprattutto quando si desidera che si congeli, aumenta il passo, così che sia tu costretto ad inseguirlo. Quindi, notando che la pausa era ormai diventata fin troppo lunga per giustificare un semplice ritardo e, temendo un'altra ramanzina da parte del suo capo, B gettò la sigaretta, fece un ultimo profondo respiro, e ritornò sulla sua via, in direzione del Bar Vanilla.

    *

    Immerso nell'oscurità della sua camera da letto, solo la luce dello schermo del pc acceso illuminava il volto di A, carico di un'espressione vuota. A amava i videogiochi: lo aiutavano a non pensare, ad estraniarsi da quella realtà di responsabilità e di doveri che assiduamente lo opprimeva. Sebbene avesse fin da bambino sentito intorno al proprio cuore quella morsa, costituita dalle pressanti pretese ed invalicabili ordini della vita adulta, solo in quei ultimi tempi essa era diventata così pesante da rivelarsi insostenibile. Anno dopo anno, mese dopo mese, lo schiacciava, come un peso che inesorabilmente cresceva, spremendogli con estrema lentezza tutta l'energia e la fantasia che possedeva, così necessari alla creazione del proprio futuro, impresa a cui già da tempo, in animo suo, aveva rinunciato. Solo quando aveva una tastiera tra le mani, A si sentiva attivo: in quei momenti era finalmente libero, in pace con se stesso e con gli altri, affrancato da ogni desiderio, esterno o proprio. Amava immergersi in quei meravigliosi universi virtuali, muoversi con libertà nei suoi ampi mondi, ricchi di storia e di forme strane e bizzarre, che lo spingevano a svelare ogni loro mistero, a superare ogni intrigo. Inoltre le avversità che gli si presentavano davanti erano superabili con pochi, ma decisi movimenti sulla tastiera. Poi, se anche avesse fallito, tutto ciò che era necessario fare era riavviare la partita, sempre grazie ad un semplice tasto. Però A sapeva bene che un videogioco rimane pur sempre un videogioco: prima o poi lo si deve spegnere. Era allora che sentiva di riprecipitare, poco alla volta, in quel mare di obblighi, delusioni ai genitori, appuntamenti inconcludenti, promesse rimandate.

    Un rumore familiare lo costrinse a ritornare nel mondo reale: nell'aria risuonava infatti l'acuta suoneria del suo telefonino. Senza degnare nemmeno di uno sguardo o di un fugace commento la morte del proprio personaggio, A abbandonò di malavoglia la sua postazione e si alzò per andare alla ricerca del proprio cellulare. Lasciando che il suono lo guidasse, lo trovò dopo alcuni secondi nella tasca posteriore di un pantalone, sepolto tra i vestiti usati e maleodoranti, sparsi sul pavimento della propria camera. Lesse velocemente l'avviso di chiamata sullo schermo, per scoprire chi lo stesse disturbando, e, quasi immediatamente, sospirò, sconsolato, nonostante già sapesse che quel momento, prima o poi, nell'arco di quella giornata, sarebbe giunto, inesorabile: era sua madre che lo stava chiamando. Prendendo coscienza che presto o tardi l'avrebbe dovuta comunque affrontare, preferì togliersi immediatamente il peso, parlandoci subito al telefono, piuttosto che aspettare la sera e stare tutto il giorno in ansia, pensando alle possibili azioni e reazioni da parte dei genitori. Così, senza più indugiare, aprì il cellulare e se lo portò

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