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Cocktail d'anime per l'avvocato Alfieri
Cocktail d'anime per l'avvocato Alfieri
Cocktail d'anime per l'avvocato Alfieri
E-book286 pagine4 ore

Cocktail d'anime per l'avvocato Alfieri

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Info su questo ebook

È l’inizio di agosto del 1971 quando a Torino due sacerdoti vengono assassinati, a poche ore l’uno dall’altro.
Il vicecommissario incaricato coinvolge nelle indagini Ennio Alfieri, avvocato cinquantatreenne ritiratosi prematuramente dalla professione perché deluso dalla giustizia degli uomini e incapace di abituarsi all’idea di difendere i colpevoli.
Alfieri vive in piazza Solferino, nella grande casa di famiglia affacciata sulla Fontana Angelica, con l’unica compagnia di Beppegaribaldi, un canarino permaloso che si arrabbia se non viene nutrito a orari precisi. Don Mario è l’amico di sempre: insieme hanno frequentato il liceo e l’università e hanno combattuto la guerra partigiana.
Se, dopo il primo delitto, sembra prevalere la pista, facile da percorrere e poco faticosa nel caldo opprimente di quei giorni, del tentativo di rapina finito male, altre strade si propongono dopo il secondo delitto, da quella dei furti d’arte sacra su commissione agli omicidi rituali perpetrati da una setta della collina.
Lungo i vicoli deserti del Balon, nelle sale lussuose dei caffè del centro e in quelle fumose delle vecchie piole di Porta Palazzo, la caccia dell’Avvocato continua, sul filo di nuovi indizi e antichi ricordi.
LinguaItaliano
Data di uscita7 apr 2021
ISBN9788868104665
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    Anteprima del libro

    Cocktail d'anime per l'avvocato Alfieri - Marco P.L. Bernardi

    cover.jpg

    Marco P.L. Bernardi

    COCKTAIL D’ANIME PER L’AVVOCATO ALFIERI

    Prima Edizione Ebook 2021 © Damster Edizioni, Modena

    ISBN: 9788868104665

    Immagine di copertina su licenza

    Adobestock.com

    Damster Edizioni è un marchio editoriale

    Edizioni del Loggione S.r.l.

    Via Paolo Ferrari 51/c - 41121 Modena

    http://www.damster.it e-mail: damster@damster.it

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    Marco P.L. Bernardi

    COCKTAIL D’ANIME

    PER L’AVVOCATO ALFIERI

    Romanzo

    Indice

    Domenica 1° agosto 1971

    Lunedì 2 agosto 1971

    Martedì 3 agosto 1971

    Mercoledì 4 agosto 1971

    Giovedì 5 agosto 1971

    Ringraziamenti

    L’AUTORE

     CATALOGO I GIALLI DAMSTER

     A Orietta

    Ai miei genitori

    E a mio nonno Paolo, l’Avocàt.

    Domenica 1° agosto 1971

    Ore 5.25 del primo giorno

    Beppegaribaldi cinguettò il suo buongiorno al primo raggio di sole.

    L’avvocato Ennio Alfieri lo sentì attraverso il sogno che stava facendo.

    C’era una spiaggia lunga e vuota e lui la percorreva sotto il sole cocente, in toga.

    Era uno dei suoi ricorrenti sogni in toga: di solito, però, affrontava la pioggia e camminava fra mucchi di foglie gialle e bagnate lungo le vie vuote di una città senza fine.

    Invece questa volta faceva un caldo del diavolo, avanzava a fatica e le scarpe gli si riempivano di granelli umidi e pesanti.

    Non era propriamente un incubo, era piuttosto un sogno disagevole e bizzarro, ma senza ombra di angoscia.

    Quando le onde presero a cinguettare come un canarino affamato, lui poté fare ancora un paio di passi, affondando nella rena prima di ritrovarsi in pigiama fra le lenzuola umide del letto.

    Per un attimo si chiese in quale delle camere della sua vita si trovasse, finché la stanza si ricompose e recuperò l’orologio sul comodino: erano le 5 e 28 e una lama di luce, proveniente dalla finestra aperta in salotto, penetrava da sotto la porta.

    Beppegaribaldi era peggio di un gallo e si sentiva in dovere di informare tutto il quartiere che il mattino era arrivato.

    Alfieri si rigirò, la bocca impastata al ricordo della cena della sera prima alla piola sotto casa.

    Pensò che era domenica, l’unico giorno in cui, da quando era in pensione, non poteva permettersi di stare a letto fino a tardi.

    Si trascinò stancamente fino alla gabbia, nella quale il pennuto intonava una gamma di variazioni sui temi preferiti: — Svegli tutto l’isolato, Beppegaribaldi! Io ti sopporto perché mi fai da sveglia, ma gli altri vogliono godersi la domenica mattina!

    Lo rifornì di acqua e becchime, riuscendo infine a zittirlo.

    — Sei proprio un ingordo senza dignità. Sacrifichi la tua arte per due miseri semi... Pazienza... Ora facciamo tutti colazione e buona domenica.

    Si scaldò un po’ di caffè avanzato e abbrustolì una fetta di pane.

    Aveva due appuntamenti quella mattina e aveva fretta. Non poteva perdere tempo in cucina. 

    Gli sarebbe piaciuto scegliere un libro a caso, chiudendo gli occhi davanti agli scaffali della libreria, in modo da farsi consigliare dalla sorte. Oppure soltanto affacciarsi e guardare la piazza che si animava, ma era un uomo di parola: se prendeva un impegno, cascasse il mondo, lo rispettava.

    Così lavò via con l’acqua fredda i residui della notte e dell’afa appiccicosa, poi si specchiò e, come sempre, si riconobbe: il tempo lo aveva graziato, mantenendolo simile al se stesso giovane. Aveva appena compiuto cinquantatré anni e le rughe lo solcavano garbate, senza infierire.

    I capelli non volevano saperne di imbiancare e gli occhi, tanto blu da sembrare neri, erano sempre loro.

    Gli amici lo prendevano in giro, dicendogli che si era mantenuto così bene perché non si era mai sposato, ma lui sapeva che non era per quello e che, anzi, la più crudele di quelle rughe accennate, l’unica profonda, era la cicatrice di un antico amore.

    Nello specchio riconosceva un’increspatura più in basso, ai margini della bocca, che rendeva ogni sua espressione, anche la più drammatica, simile a un sorriso amaro: si era formata nel tempo, ogni volta che aveva ripensato a quell’amore infelice e aveva creduto di scorgere Ines, la dolce Ines del suo cuore, tra la folla, tra i mille volti indistinti e anonimi fra i quali aveva continuato a cercarla.

    I visi di tutte le altre donne si confondevano in un unico volto dai lineamenti indefiniti, come quello di una statua dagli occhi vuoti e senza espressione. Anche se, da qualche mese, sembrava che qualcosa avesse incrinato lo scorrere pacato dei suoi giorni tutti uguali. Ma era una novità alla quale faceva fatica ad abituarsi e della quale taceva con tutti, soprattutto con se stesso.

    Il suo viso era modellato dalle passioni e dalla curiosità, che gli avevano aguzzato i tratti, rendendolo simile a un felino, di cui aveva lo sguardo mobile e cacciatore, capace di captare e anticipare.

    Un volto che nascondeva sotto la pelle – come lava che fluisce lentamente nei meandri della terra – le ferite e gli insulti subiti in nome della libertà, per la quale aveva combattuto, e della giustizia, che aveva tentato di servire nelle aule di tribunale, immolandole carriera e denaro.

    Proprio per amor di giustizia, due anni prima, aveva deciso di ritirarsi dalla professione, nel momento in cui gli era stato fin troppo evidente che nulla era rimasto dello zelo giovanile che lo aveva animato, ed era subentrata una noia pigra e oziosa che aveva trasformato la lotta in routine.

    Si sbarbò alla bell’e meglio, indossò il consueto completo scuro, l’immancabile cravatta granata della domenica e fu pronto per uscire.

    — Ciao Beppegaribaldi, fai la guardia. Ci vediamo a pranzo.

    Dal lucernario delle scale entrava il sole violento e bruciante che lui aspettava tutto l’anno e che lo riempiva di nostalgia nelle giornate invernali, tutte ugualmente grigie.

    Si sentiva proprio di buon umore quella mattina.

    Ore 6.04 del primo giorno

    Il campanile aveva battuto da poco le sei.

    Nel dormiveglia don Mario Scassa aveva contato i rintocchi sperando che si fermassero prima... Invece era già ora di alzarsi. Da un paio di anni gli toccava celebrare la messa presto, in un convento di suore alle pendici della collina, così isolato da costringerlo a una lunga scarpinata in salita.

    Orario scomodo e posto scomodo, disagi abituali per un prete bislacco, senza nessuna parrocchia da amministrare e nessun incarico di prestigio, a dispetto di capacità non comuni e, a detta dei membri della diocesi torinese, mal sfruttate: talenti sperperati, come amava ripetergli, con pungente crudeltà, l’assistente del vescovo, che lo detestava e non perdeva occasione per tormentarlo.

    Gli era toccato in sorte un peregrinare continuo in luoghi disagiati del mondo e della città, in quei posti in cui gli altri preti pregavano di non finire mai, alla faccia della vocazione.

    Mario era contento così. Lui era uno che la vocazione l’aveva avuta davvero e dei Vangeli amava il messaggio più crudo, quello che invita a sporcarsi le mani col fango.

    Così, ora se ne stava in una cameretta senza finestre, ospite di una congregazione con la quale non aveva niente da spartire e che lo sopportava poco e male, trattandolo da ospite imposto dall’alto e indesiderato.

    Poteva fare quasi tutto quello che voleva e, a eccezione della messa alle sette in collina e di quella del pomeriggio nella più remota delle nuove periferie in una chiesa immensa e vuota, aveva un sacco di tempo a disposizione.

    Con gli occhi ancora chiusi annusò l’aria, nella speranza, delusa, di riuscire a cogliere dalla cucina l’aroma di un caffè in preparazione. Ma non sentì niente.

    C’era un silenzio compatto, rotto solo dal russare sommesso e ritmato di qualcuno che occupava la camera vicina.

    Lì la prima messa era alle 8 e 30 e tutti se la prendevano comoda.

    Li invidiò e avrebbe voluto imitarli, ripiombando subito nel sonno appena interrotto, alla faccia delle suorine in attesa, ma sapeva bene che non se lo poteva permettere.

    Si mise a sedere faticosamente sul bordo del letto, anche se non aveva nessuna voglia di affrontare la domenica, gli sguardi annoiati dei fedeli, gli spostamenti eterni su autobus roventi, gli incontri inevitabili e quelli fortuiti.

    Si vide riflesso nello specchio sopra il lavabo e fece fatica a riconoscere in quell’essere invecchiato e stanco lo stesso uomo bello e coraggioso che, vent’anni prima, aveva sbigottito gli amici e spezzato il cuore delle spasimanti entrando in seminario.

    Guardò le rughe profonde del volto e gli occhi meno luminosi di un tempo, i capelli argentati e un paio di vecchie cicatrici sugli zigomi e sul sopracciglio.

    Il tempo ti segna, pensò, E ancor di più la libertà. Quante volte, da ragazzi, ci siamo presi un sacco di botte dalle Camicie Nere per il nostro non voler fare come gli altri. Ce lo dicevano che sarebbe stato più comodo e salutare, per noi, starcene buoni e allineati. Ma noi non siamo gente da gregge, siamo quelli che scelgono sempre l’altra strada.

    Che poteva essere anche quella di decidere di diventare sacerdote, avendo prima conosciuto le idee e gli ideali degli uomini. E l’amore. E la ricchezza. E la lotta. E la morte.

    Ed era in un caso come quello che la libertà diventava un arduo dovere.

    Guarda in faccia il mondo e non abbassare lo sguardo, ci diceva il professor Landolfo ai tempi del liceo, ripeté al sé nello specchio, a quegli occhi stanchi e cerchiati. Proprio nel riflesso di quegli occhi colse la conferma che lui lo sguardo non lo aveva mai abbassato.

    Si fece la barba e si vestì, come sempre in borghese.

    Si sentiva un prete in incognito nel mondo.

    E quella mattina era di pessimo umore.

    Ore 7.03 del primo giorno

    Bisognava rischiare l’attraversamento di via Garibaldi di prima mattina e del suo traffico distratto dalle insegne dei negozi.

    Il traffico svagato della domenica, quando ancora tutti dormono: tram vuoti, sporadiche automobili stupefatte, rari motorini fracassoni, anacronistiche biciclette.

    Era la chiesa più mattiniera della zona e meritava lo slalom tra i veicoli: facciata ampia e alta, incastrata fra le case eleganti, due file di lesene e finestroni, un bizzarro campanile dimenticato sull’edificio a fianco, come una propaggine dispersa dal vento.

    Alfieri schivò un Ciao sonnolento, sbucato improvvisamente da dietro il tram numero 4 e guidato da un brufoloso ragazzotto.

    Non oggi, che devo andare a fare compere, si disse. Non è giorno per farsi arrotare.

    Giunse al sicuro sul marciapiede davanti al portone spalancato. Vi arrivava un odore dolciastro di cera e incenso che si mescolava a quello prosaico di gomma bruciata della città boccheggiante.

    La facciata era bianca e rosa e sapeva di gelato alla fragola e panna.

    Tutt’intorno c’erano grigi palazzoni ricchi e addormentati, a dispetto di tubi di scappamento e clacson.

    In fondo, lontana, come uno spartitraffico, svettava la sagoma bianco sporco di palazzo Madama, quasi bella in quella prima mattina più povera di auto. Gli ricordava altre mattine di tanti anni prima, quando i veicoli a motore erano una rarità e i bambini potevano giocare quasi al sicuro.

    L’avvocato credeva che agli uomini toccasse l’ingrato compito di percorrere il loro cammino sulla Terra cercando di limitare i danni e facendo il minimo affidamento possibile sugli aiuti dall’alto.

    Ma, da sempre, non si perdeva la prima messa della domenica mattina. Quella delle vecchiette, dei pescatori e degli insonni, in cui il parroco sbadiglia, dimentica i pezzi e, generalmente, striminzisce il sermone a poche battute.

    Aveva trovato in quella chiesa don Eligio Pazienza, celebrante mattiniero, che alle sette era già in pista. Così, ogni domenica, era lì, in terzultima fila, in un banco perennemente vuoto che gli altri habitué gli lasciavano libero.

    Si conoscevano tutti e si salutavano con un cenno del capo.

    Quando qualcuno mancava per due o tre volte di seguito, gli altri lo davano per morto e si creava un vuoto incolmabile nell’angolino che quel corpo occupava, come quello di un albero abbattuto da un fulmine nella foresta.

    L’avvocato a messa vagava con la mente meglio che in qualsiasi altro posto e, appena il parroco partiva con la consueta filippica delle sette e un quarto, lui cominciava a fluttuare per i banchi, ripercorreva casi passati e ripeteva mentalmente vecchie arringhe.

    A differenza della maggioranza dei preti mattinieri, quella domenica don Eligio la stava facendo lunga e Alfieri poteva spaziare, saltando continuamente dai ricordi di lavoro alla sua passione sportiva.

    Così, tra un caso e l’altro, ripassava mentalmente tutte le formazioni del Toro degli ultimi quindici anni e i tabellini delle partite, comprese le sequenze dei goal.

    Don Eligio era un grasso, rubicondo pretone dalla voce tonante e dalla risata facile e forte, come lo scroscio di una cascata montana.

    Aveva un triplo mento imponente, una pelata lucida e rossa e due manone da boscaiolo, più facili da immaginare all’interno di un ring che su un altare.

    Diceva cose così noiose da essere il sottofondo ideale per i pensieri in libertà e, di prima mattina, soporifere come una ninna nanna.

    Molti, in effetti, dormivano e l’avvocato pensava che nella vita aveva conosciuto un solo prete capace di non farlo precipitare nei suoi pensieri sconclusionati durante l’omelia e che quel prete era Mario, il suo migliore e più vecchio amico.

    Si erano conosciuti al liceo, nella sezione C di quell’istituto di cui lui condivideva l’illustre cognome. Quel ragazzo aveva tutto per essergli antipatico: era il più intelligente e ribelle della classe e gettava la sua ombra sui compagni maschi, mettendo in secondo piano persino i suoi celebri occhi blu. Ma, nonostante tutto, era nata un’amicizia più forte dei decenni e delle traversie.

    Mario era stato il suo punto di riferimento, in pace e in guerra, quando si erano uniti alle schiere partigiane di Giustizia e Libertà. In quegli anni di lotta, avevano messo da parte i comuni ideali di pace e giustizia e avevano fatto cose destinate a tormentarli per tutta la vita e alle quali non erano stati capaci di dare la giustificazione della storia e della necessità.

    Dalla guerra erano riemersi, fradici e scortecciati come tronchi dopo la tempesta, per combattere altre battaglie, meno cruente, ma altrettanto crudeli, sempre in bilico fra i loro begli ideali e la prosaica quotidianità del vivere.

    Nel bel mezzo dell’omelia, Alfieri, cullato dal monotono borbottio, stava pensando alla cena di quella sera e al fatto che doveva sbrigarsi a invitare l’amico, se voleva che non prendesse altri impegni.

    La domenica, considerata la professione che si era scelto, era una giornata campale per Mario, durante la quale nuovi impegni tendevano a sommarsi a quelli già fissati.

    Ti chiamo subito dopo pranzo, mentre schiacci il tuo pisolino, pensò con una punta di sadica soddisfazione, Vecchio mio, non vorrai mica impigrirti?.

    Stava scorrendo la sua agenda mentale alla voce ristoranti, alla ricerca di un posto che lo ispirasse, quando un brusco cambio di tono del celebrante lo strappò dalle sue elucubrazioni.

    Don Eligio stava sostenendo che, siccome Gesù non si era mai concesso vacanze, il concetto stesso di ferie avesse un che di peccaminoso.

    Era famoso per i suoi sbotti: i parrocchiani dicevano che era ruspante e che parlava come mangiava. Ed era vero, a giudicare dalla lunghezza delle prediche e dal numero dei menti che gli erano spuntati.

    Ora si stava infervorando sempre di più, rosso e lustro nel calore del primo mattino, e l’avvocato pensò che forse sarebbe morto d’infarto prima della Consacrazione e che gli sarebbe toccato cercarsi un’altra messa in un quartiere e in un orario a lui estranei.

    Invece, le coronarie del reverendo ressero, il sermone bene o male finì e il resto della messa si svolse senza ulteriori scossoni.

    Nessuna delle vecchiette presenti andò in ferie quell’estate.

    Ore 7.20 del primo giorno

    Suor Ermelinda lo scrutava con fare sospettoso.

    Era la decana del convento e non perdonava a don Scassa certe prediche vagamente libertarie degli ultimi mesi, in cui si era lanciato in interpretazioni un po’ troppo personali del pensiero del Redentore.

    Era l’unica che si concentrasse sulle sue omelie, nelle quali  si sentiva autorizzato ad andare a ruota libera, rassicurato dall’impunità che gli derivava dall’assoluto disinteresse del pubblico.

    Ogni qual volta le sparava troppo grosse, lei trasaliva come percorsa da una scarica di alta tensione e, addirittura, una volta proruppe rumorosamente in un Ma insomma! che svegliò di soprassalto la superiora e provocò un eccesso di tosse alla povera suor Renata, tanto sensibile e delicata.

    In quella prima domenica di agosto, l’umore pessimo fu reso ancora più nero dal caffè imbevibile che le suore gli avevano propinato prima della funzione.

    Riteneva che il primo caffè della mattina fosse lo specchio dell’intera giornata e quell’ignobile brodaglia non lasciava spazio ai dubbi e alla speranza.

    Iniziò il sermone con poca ispirazione e tanta voglia di farla breve, snocciolando annoiate banalità, e immediatamente si rese conto che l’uditorio era ancora meno ricettivo del solito, istupidito dalla grande calura.

    Soltanto suor Ermelinda, come un segugio, continuava a puntarlo, pendendo dalle sue labbra.

    — Senta, sorella — le disse a un certo punto, fissandola dall’altare, — e se ce ne andassimo io e lei a proseguire la discussione in giardino? Ci parleremmo meglio a quattr’occhi. E poi fa anche più fresco.

    L’anziana sorella sgranò gli occhi sbigottita, mentre il resto delle monache continuava a sonnecchiare pigramente.

    Mario pensò che, per quella domenica, potesse bastare: — Sia lodato Gesù Cristo — bisbigliò con un filo di voce appena percettibile.

    L’intera congregazione, come toccata da una bacchetta magica, si rianimò di colpo ed esplose in un sollevato: — Sempre sia lodato!

    Ore 11.49 del primo giorno

    Il giorno prima, l’avvocato si era imbattuto in un’edizione ottocentesca della Summa Theologiae, con introduzione del venerabile frate Serafino Capponi da Porretta, quattordici volumi rilegati in pelle marrone che odoravano di cuoio e di carta vecchia, pieni di polvere e storia e santini usati come segnalibro da qualche antico reverendo studioso.

    Quei tomi se ne stavano accuratamente accatastati in un angolo della bottega di Gianvitaliano Pruni, suo fornitore ufficiale di rarità bibliografiche.

    Il Pruni era anche il più fine conoscitore delle storie e degli orrori nascosti di Torino e Alfieri, più di una volta, nei suoi anni di professione aveva risolto casi spinosi grazie alle dritte di Gianvito il Rigattiere, come lo chiamavano tutti.

    Tutti tranne lui, che si ostinava a chiamarlo Professore, nonostante l’altro si schermisse.

    Tuttavia, Pruni era stato davvero professore, anzi un professorone di Filologia Romanza all’Università. Fino al momento in cui, da un giorno all’altro, aveva abbandonato cattedra, discenti e colleghi per ritirarsi in quell’antro misterioso e buio nel cuore del Balon, pieno zeppo di volumi che leggeva di continuo.

    Nelle pause si informava: era amico dei peggiori malavitosi di Porta Palazzo e di certi notabili sofisticati della collina che spesso tessevano le trame più losche.

    Per questo il Rigattiere sapeva sempre tutto.

    In cambio delle sue indicazioni, l’avvocato lo aveva tirato fuori da grane complicate e, un paio di volte, addirittura dalle patrie galere, perché sapeva che, nonostante qualche piccolo incidente di percorso, Pruni era un galantuomo degno della sua stima, che lui dispensava con parsimonia.

    Da quando Alfieri aveva deciso di ritirarsi, il loro rapporto era diventato amichevole. In fondo, entrambi avevano fatto una scelta drastica a un certo punto della loro vita. Così, chiacchieravano a lungo nella bottega a proposito di libri introvabili, comuni conoscenti e vecchi crimini dimenticati.

    Un paio di volte l’anno, Pruni lo accoglieva con un Avvocato, venga a vedere che cosa le ho trovato questa volta! che spalancava le porte a una gioiosa scoperta, per la quale gli avrebbe lasciato una fetta voluminosa del mensile.

    L’avvocato chiamava mensile la somma autoimposta che destinava ai piaceri della vita.

    Il grosso della cifra andava in ristoranti e piole, anche se quelle le reputava spese di ordinaria amministrazione e di mera sussistenza e faticava a definirle voluttuarie.

    Era un fine intenditore di locali e un instancabile catalogatore di cene. Se uno dei rari turisti bighellonanti per il centro lo avesse fermato chiedendogli: — Mi consiglia un posticino dove mangiare bene? — avrebbe potuto intavolare una disquisizione con excursus sulla varietà delle proposte gastronomiche di città e dintorni e soluzioni culinarie adatte ai gusti e perfino agli stati d’animo degli interlocutori.

    Altre voci suntuarie erano le collezioni: i libri, in particolare, ma anche stampe e quadri antichi, dischi, francobolli, autografi, emblemi militari e altro ancora.

    E poi La Settimana Enigmistica, di cui aveva tutti i numeri in duplice copia: una intonsa, da esposizione, come amava definirla, e una completamente risolta, dalle parole crociate più elementari ai rebus più complessi.

    Gli rimaneva a sufficienza per cinema, opera e teatro. I viaggi non erano considerati spese: erano la vita, e alla vita non si può dare un prezzo e

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