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Viaggio a Lost City
Viaggio a Lost City
Viaggio a Lost City
E-book371 pagine5 ore

Viaggio a Lost City

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Info su questo ebook

La tranquilla vita borghese di un avvocato di Pavia, Jonas Raisi, viene sconvolta, assieme a quella della sua famiglia, durante un weekend fuori città da cui non farà più ritorno. Suo figlio Rory, vittima della sindrome di Capgras a seguito di un raccapricciante episodio di violenza domestica, riuscirà inconsapevolmente a vendicarsi della doppia personalità del padre che ha sempre tentato di ignorare l’accaduto, nonostante i rimorsi, e di convincersi che i problemi del bambino non fossero dovuti a sue colpe specifiche.
Nel momento in cui i misteriosi disturbi di suo figlio trascinano l’intera famiglia in un incubo senza fine, Jonas, sua moglie Darla e i figli si ritrovano dispersi a Lost City, a tu per tu con personaggi simili a loro stessi ma non originali. Solo il piccolo Rory non ne sembra terrorizzato. Lui li conosce bene. Si compie, alla fine, l’estraniante, perfetta e agghiacciante metafora delle vendette sopite, e dei rimorsi che uccidono.
Se ci fosse dato modo di analizzare i traumi dell’infanzia, e le paure che hanno inquietato tutti noi da bambini, si farebbe luce anche su molte delle ombre che oggi tormentano il mondo degli adulti.
Il romanzo per giovani adulti, Viaggio a Lost City, di Raffaele Isolato, mette a confronto l’insospettata complessità dell’universo infantile con i drammatici, spesso sottovalutati chiaroscuri della responsabilità genitoriale.
LinguaItaliano
Data di uscita24 giu 2013
ISBN9788898041121
Viaggio a Lost City

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    Anteprima del libro

    Viaggio a Lost City - Raffaele Isolato

    Viaggio a Lost City

    Raffaele Isolato

    Copyright© Officine Editoriali 2013

    Tutti i diritti riservati.

    Il presente file può essere usato esclusivamente per finalità di carattere personale. Tutti i contenuti sono protetti dalla legge sul diritto d’autore. Officine Editoriali declina ogni responsabilità per ogni utilizzo del file non previsto dalla legge.

    È vietata qualsiasi duplicazione del presente ebook.

    ISBN 978-88-98041-12-1

    info@officineditoriali.com

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    Facebook: http://www.facebook.com/officineditoriali

    Ebook by: Officine Editoriali

    Elaborazione grafica della copertina: Officine Editoriali

    Foto di copertina: Luciano Bellino

    Ai miei giocattoli.

    I giocattoli sono come le persone, ci sono quelli buoni e quelli cattivi, e finché non li apri e scopri quel che c’è dentro, non riesci mai a capire di che pasta sono fatti.

    E loro erano tutti là, a Lost City, per pagare. La rabbia di un bambino non è così astuta da vendicarsi sul singolo colpevole. Per un bambino un genitore è qualsiasi cosa; è il mondo, è tutto l’amore che potrà mai sperare di ottenere dalla vita. Se arriva ad odiarlo, il suo dolore annegherà la Terra.

    … ma a scappare non ci riuscivo, perché il Signor J. mi stava davanti, ed era fortissimo e altissimo e non aveva la faccia. Mi ha preso per le spalle, mi ha alzato da terra e poi mi ha fatto cadere giù. Poi mi è saltato addosso subito, per tenermi fermo. E mi alzava la testa e me la sbatteva a terra, e me la rialzava e me la sbatteva ancora, e poi ancora, e poi ancora, e ancora, e ancora…

    Rory R.

    INDICE

    Un segreto

    Rispunta il signor J.

    Ancora un pagliaccio

    Si parte

    Un soldatino resta a piedi

    Mi piace, non mi piace…

    Finalmente, la torta!

    Il soldatino torna a bordo

    C’è qualcuno che spia

    Aspetta, Miss Michelle!

    Papà ha un coltello

    Scoperti e in fuga

    Rory, un bambino speciale

    Il signor J. è arrabbiato

    L’addio della mamma

    UN SEGRETO

      – No, non l’avrei mai immaginato neppure io, Lily. Sai che penso? Che se ci fosse data la possibilità di sapere tutto in anticipo, sarebbe bello poter scegliere anche se venire al mondo oppure no…

      – Ma… Darla, che cosa orribile da dirsi!

      – Sei stata tu a cominciare la conversazione! E lo sai che odio quando si parla così di mio figlio.

      – Non sono io a desiderare che non fosse mai…

      – Li-ly! Ora io non mi stavo riferendo a lui! Dicevo di me! Di me! Mi capisci una sola volta, quando parlo?

    Darla strinse tra le dita il cavo del telefono e gettò un’occhiata distratta al grande armadio a specchio che dominava la camera da letto. La lastra le rimandò l’immagine impietosa di una donna giovane, ma triste e in disordine, che dal lato opposto della stanza litigava con la sua unica sorella quando, invece,  avrebbe dovuto occuparsi del suo bambino. Erano mesi che Rory non bagnava il letto; mesi che non aveva incubi. E poi, proprio quando le cose sembravano cominciate a migliorare…

      – Non che fosse cambiato tanto negli ultimi tempi. Ma davvero, Lily; io ci speravo. Ci speravo tanto.

    Un sospiro dall’altra parte e sentì tutta la compassione della sorella. Dopotutto, Liliana era una delle poche persone con cui potesse parlare liberamente. A parte la loro madre, che ormai era troppo vecchia, e poi c’era Jonas. Ma quando si trattava del bambino, Jonas era diverso; lo era sempre stato, da quando erano iniziati i problemi.

      – Lo sai, cara, che in questi casi i progressi si fanno poco a poco. E lui è così piccolo. Il mio Giacomo ha portato i pannolini fino a cinque anni! Quattro e mezzo, a dire il vero… Ma poi si è sistemato tutto.

      – Rory non ha quattro anni ma sei, Lily. E poi lui è di-ve-rso da Giacomo. Non farmi ripetere le cose, per cortesia.

      – Diverso, ora! Quando siete venuti da noi per Pasqua si comportava come un bambino normalissimo. Gli fa bene giocare col cuginetto.

    L’immagine riflessa ammiccò a Darla di rimando. Pasqua… Era stato sette mesi prima, e allora credevano davvero che Rory stesse facendo grandi progressi.

    – Darla, mi senti? – la sollecitò la voce squillante di Lily.

      – Scusami?

      – Ti ho chiesto cosa ne pensa la psichiatra.

      – Oh, Samantha. Lei dice che è tutto ok.

      – Tutto ok? Nient’altro?

      – Vorrebbero fargli degli esperimenti…  È  un sistema che…

      – Esperimenti? Che assurdità… Non vorranno trattarlo mica come un animaletto da laboratorio! Certe volte penso che tuo marito abbia ragione. Questi centri all’americana non mi ispirano tutta la fiducia che danno a te, tesoro.

    Ora la donna allo specchio passò una mano tra i folti capelli bruni in un gesto d’insofferenza. Ecco cosa succedeva a prolungare una telefonata con Liliana oltre i dieci minuti standard: si passava dal provocatorio all’esasperante in pochi secondi.

      – E invece io mi fido della dottoressa Moni, Lily. E quel che è importante è che a Rory piace.

      – Oh, a Rory piaccio anch’io se è per questo.

    C’era un tono fiero in quelle parole che la fece sorridere.

      – Ma certo che gli piaci.

      – Ti parla della zia, qualche volta? Quella simpaticona che ha visto durante le vacanze ad Aprile?

      – Certo… A volte. – mentì Darla.

    Più tardi, Darla passò in bagno per dare un’occhiata più da vicino alla sconosciuta dall’aria frastornata che poco prima la osservava dall’armadio della sua stanza. Aveva il viso gonfio, ma non aveva pianto; era come se quella notte fosse stata difficile anche per lei, oltre che per il piccolo.

    Cos’avrà mai sognato? La Darla con le borse sotto gli occhi le rispose scuotendo la testa, risoluta:

    Sai bene che non te lo direbbe mai. Non quando sta così.

    Prese la spazzola e iniziò a domare le ciocche crespe che le piovevano sugli occhi. Era stata una cattiva idea licenziare la donna di servizio, ma a Rory non piaceva. A Rory non piacevano le persone nuove; a volte neanche quelle a lui più vicine. Jonas aveva liquidato la questione col licenziamento immediato dell’anziana ucraina, che quasi aveva pianto nel separarsi da loro.

      – L’assumeremo part-time, magari quando il piccolo andrà a scuola – aveva cercato di tranquillizzarla, e pareva aver funzionato all’inizio.

    Salvo che Rory non aveva mai iniziato le elementari, Irina non si era fatta più vedere, e a casa le faccende era costretta a sbrigarle ancora tutte lei. Niente più lavoro, niente più giri per supermercati e negozi, niente più tv sul divano mentre i bambini erano a scuola. Ma al diavolo! Che importanza avevano quelle sciocchezze se in gioco c’era la felicità del piccolo? Di lenzuola bagnate ne avrebbe lavate dieci al giorno. Avrebbe rassettato i letti per lui, l’avrebbe coccolato e non si sarebbe mai separata da quegli occhioni scuri che a volte la facevano sentire così…

    Posò la spazzola e si accorse di non poter completare la frase. Perché una parola unica non c’era. Amata? Odiata? provò a suggerire la Darla allo specchio. No, odiata mai. E Samantha (dottoressa Moni per quelli che insinuavano che era troppo parziale con lei) glielo aveva assicurato: a volte Rory faceva un po’ di confusione, tutto qui. A volte dimenticava di avere una mamma e un papà che gli volevano bene, e qualcosa in quella testolina così carina si metteva a dirgli di stare in guardia.

    La signora così simpatica che li aveva ospitati a Pasqua non era più la zia; la donna che gli aveva rimboccato le coperte la sera prima assomigliava solo, alla sua mamma e per qualche motivo ne aveva preso il posto.

    Una volta aveva provato a parlargli, stringendogli la manina tra le sue:

     – Te lo sei sognato, piccolino. Di mamma ce ne hai una sola, e sono sempre stata qui. Dove vuoi che vada ora che Irina se n’è andata e a casa c’è tanto da fare?

    In quell’occasione Rory le aveva sorriso mostrandole i dentini bianchi, come una smorfia che si fa per scherzo. Dio sa se aveva anche in quel momento le sue vocine nella testa.

    Darla controllò l’orologio da polso: le undici e dieci. Jessica usciva prima da scuola, il sabato e non aveva ancora pensato al pranzo. Per giunta Jonas sarebbe rincasato con lei. Quella sera avevano in programma di uscire; ne avevano davvero tutti bisogno, in quella famiglia, soprattutto dopo l’incidente della mattina. Ci voleva qualcosa che servisse a distendere un po’ i nervi, tutto lì.

    Prima di andare in cucina, passò in camera di Rory. Era ancora seduto lì sul materasso spoglio, a giocare ai videogame. Il videogioco gliel’aveva comprato lo zio Michele per il suo compleanno, ed era un po’ troppo violento per i gusti di Darla.

    Si correva per tunnel senza uscita, si sparava ai nemici, per metà zombie, che sbucavano da ogni dove (perfino da botole nascoste nel soffitto), e si correva verso una luce che indicava solo il livello successivo. Pareva non ci fossero mai nemici ammazzati a sufficienza per smettere di giocare.

    Il bambino però si divertiva un mondo. Pigiava furiosamente i tasti del joystick con i ditini troppo piccoli per adattarsi ai pulsanti, e accompagnava ogni zombie abbattuto con versi striduli che gli alteravano la voce facendola sembrare lo squittio di qualche strano animaletto strozzato.

      – Bam! Bam! Bam! Zac! Sì, vai giù così!

    Darla lo chiamò dalla soglia, ma ovviamente il volume era troppo alto perché lui la sentisse. Per un attimo la sconvolse la sensazione che lui non potesse aver affatto bisogno di lei. Affettivamente, s’intende. Se al posto suo fosse tornata la sconosciuta che gli aveva rimboccato le coperte, avrebbe sentito la mancanza della vera Darla?

    Sciocca! si disse, mordicchiandosi la lingua per aver osato pensare una cosa simile. Poi si avvicinò al piccolo per richiamare la sua attenzione.

      – Rory, tesoro. È da due ore che sei attaccato alla tv; non ti va di prendere il quaderno e scrivere qualche letterina per la tua mamma? Ehi, Rory?

    Lui si interruppe nel mezzo di un gridolino esaltato, poi schiacciò il pulsante di pausa. Si voltò appena e Darla intravide gli occhioni scuri che parevano penetrarla, intuendo i suoi pensieri. Anche quello assurdo che le era venuto a proposito della falsa signora?

      – Solo un’altra mezz’ora, mamma! Ti prego! – implorò col faccino atteggiato nella solita espressione tragicomica che usava per estorcere regali a Jonas.

      – Lo dici tutte le mattine, e poi va a finire che i compiti non li fai mai.

      – Ma i compiti non li faccio perché a scuola non ci vado!

      – Ah sì? E tu dimmi, perché non ci vai come tua sorella? È perché te ne vorresti stare a giocare senza scrivere sul quaderno? È per questo?

    Lo sguardo s’indurì di colpo, poi il bambino si voltò e schiacciò di nuovo il pulsante di pausa. La musichetta del gioco ripartì, ma Rory non gridava più per incitare il suo eroe.

      Ho sbagliato ancora? si chiese Darla con un pizzico di frustrazione. Dopotutto era stato un risveglio difficile per lui.

      – Mamma, mi dispiace di avere fatto la pipì a letto. Non lo faccio più.

    Lo disse all’improvviso, senza distrarsi dal videogame.

      – Non è stata colpa tua, tesoro. La mamma lo sa.

    Di colpo gli occhi le si riempirono di lacrime. Quella mattina l’aveva chiamata mamma già due volte; spesso passava un’intera settimana senza che lo facesse.

    Restò qualche momento a lasciarsi ipnotizzare dalle immagini luccicanti e intermittenti sul televisore, poi decise di dargliela vinta, stavolta.

      – D’accordo. Solo una mezz’ora e poi prendi lo zainetto, d’accordo?

    Non ci fu nient’altro che un cenno di testa in risposta.

    Lo zainetto giaceva sotto la scrivania ingombra di pennarelli, soldatini e fogli scarabocchiati; pareva un pallone sgonfio, dai colori sgargianti, lasciato lì in attesa di servire ancora a qualcosa. Rory non lo aveva usato che per tre giorni, un paio di mesi prima, a scuola.

    Prese qualcuno dei fogli tra le mani, cercando di riordinare, anche se a Rory non piaceva che qualcuno toccasse le sue cose senza avvisarlo.

      – Bam! Bambam! – gridò all’improvviso, accompagnato dal rumore di una esplosione.

    Su un foglio c’erano disegnate quattro persone, due grandi e due piccole, che si tenevano per mano sotto un sole fatto di tanti ghirigori arancioni. Dovevano essere loro, i quattro componenti della famiglia Raisi, perché la bambina aveva due corte treccine bionde come quelle che portava Jessica d’estate. E la figura che rappresentava Darla aveva degli scarabocchi neri sulla fronte e ai lati del viso. Il disegno doveva essere incompleto, però. Sui volti non c’era disegnato niente; erano quattro cerchietti rosa con uno spazio bianco al centro. Strano che un bambino interrompesse un disegno a quel modo.

    Darla raccolse altri disegni. Un albero, una casa coi muri trasparenti, un’altra figura che rappresentava un pupazzo col cappello a campanellini... A quel punto chiuse le dita con più energia e gualcì il foglio. Fu più forte di lei; fece sparire quell’ultimo disegno. Il bambino continuava a darle le spalle.

    Non pensarci più Rory, non pensarci più, ti prego gli chiese in silenzio, aspettando che si decidesse a spegnere quel giochetto infernale.

    Sospirò profondamente.

    Tre giorni di scuola, al terzo circolo didattico di via Solferino, la scuola che fino all’anno prima aveva frequentato anche Jessica. Tre giorni di scuola per valutare un bambino e rispedirglielo a casa con la scusa di non avere ancora un insegnante di sostegno adeguato al suo disagio.

      – Il comune assegna fondi assistenziali per contribuire a questo tipo di spese. Ma purtroppo negli ultimi due anni siamo stati a corto di finanziamenti… E d’altronde questo è il primo caso… Ma le assicuro che tra non più di qualche settimana suo figlio potrà ritornare con ogni sicurezza tra i suoi amichetti – era stato il discorsino della direttrice.

    Darla ricordò che il suo primo pensiero era stato: amichetti? Mio figlio non conosce nessuno in quella classe. Poi finalmente si venne al punto, e fu informata che Rory aveva cominciato a lanciare segnali d’allarme già dal secondo giorno di scuola. Pareva convinto che le insegnanti non fossero quelle del giorno prima, che i suoi compagni di classe si scambiassero i posti per fargli dispetto, che la scuola stessa non fosse nel posto dove si trovava la volta precedente.

      – Abbiamo cercato di aiutarlo, tranquillizzarlo. Ma ha spaventato tutti gli altri bambini. Le maestre mi hanno riferito che molte bambine sono state aggredite e hanno avuto crisi di pianto. Come saprà di certo, i primi giorni di scuola sono difficili per tutti.

      – Lo sono anche per mio figlio – aveva protestato Darla. Ma c’era stato poco da fare; la società decideva, a un certo punto nella vita, se accettarti o meno nei suoi circoli a numero chiuso. E a Rory quel giudizio inappellabile era piovuto addosso davvero troppo presto.

    Ma chi avrebbe avuto cuore di giudicarlo un diverso, a vederlo seduto lì, tranquillo, a giocare ai videogame? All’asilo i suoi problemi non erano stati così evidenti; forse era più abituato all’ambiente, o aveva finito per convivere con le sue paure (o i suoi sospetti, come li chiamava Samantha).

      Cosa c’è che non va, tesoro? continuò quel suo monologo interiore.

    A un certo punto Rory si voltò, facendola trasalire, ancora coi fogli in mano. Ma non guardò lei; si era accorto del gatto, che era entrato sornione a fare le fusa a sua madre. Miss Michelle (Micha per la famiglia) si strusciò contro le caviglie di Darla, lasciando qualche traccia del suo morbido pelo bianco, poi miagolò per avvertirla che anche lei era affamata.

      – Visto che anche Micha è venuta a dirci di sbrigarci? Devi far presto se vuoi riempire almeno una paginetta prima di pranzo.  -  disse Darla, alzando la voce quel tanto che le permetteva di coprire gli spari e i tonfi che provenivano dal monitor.

    Si accorse che il ciclo di lavaggio delle lenzuola doveva essere terminato da un bel po’ perché dalla lavanderia di fronte alla stanza di Rory il ronzio della lavatrice si era interrotto. C’era da tirar fuori il bucato, infilarlo nell’asciugatrice… E doveva ancora pensare a cosa cucinare. Per fortuna sarebbero stati a cena fuori quella sera; non avrebbe dovuto sforzarsi troppo per il pranzo.

    Spazientita, allontanò la gatta un po’ troppo bruscamente e si avvicinò a Rory, coprendo in parte la visuale del gioco.

      – Allora? Siamo pronti o no?

      – Un attimo, ti ho detto!

      – Non alzare la voce, signorino. Con la mamma si impara ad essere educati e a parlare con garbo, te l’avrò detto mille volte.

      – Scusa.

      – Scusa che?

      – Scusa mamma.

    Bene disse lei tra sé. Era stato più facile del previsto; quella mattina era stranamente trattabile, anche se in parte poteva esser dovuto al senso di colpa per aver bagnato il letto.

    Quando finalmente Rory bloccò il gioco e le permise di spegnere la console, gli si sedette accanto sul letto, e gli porse i disegni che aveva raccolto sulla scrivania.

      – Più tardi dovresti finire quelli che hai lasciato a metà. Sono molto belli.

    Lui la guardò inarcando le sopracciglia, con una strana smorfia da adulto che gli aveva visto fare tante altre volte. Era quella che usava per far capire a lei o a suo padre che avevano commesso qualche grossolano errore da adulti.

      – Quelli li ho finiti già. Non mi servono più.

      – Neanche questo?

    Gli porse quello con la famiglia Raisi al completo.

      – Sì.

    Si alzò senza neppure degnarla di uno sguardo, e andò a frugare nel ripiano sotto la scrivania in cerca del quaderno.

      – Rory?

    Lui ritornò mogio con carta e penna. Fare i compiti per fortuna non richiedeva mai troppo tempo; quando sarebbe tornata Jessica, avrebbe terminato  o rimandato tutto al giorno dopo. Che la donna che aveva davanti si fosse arrabbiata o meno, non avrebbe avuto nessuna importanza. Non quel giorno, perché fin dalla mattina presto sapeva che i mostri erano in agguato, e presto o tardi sarebbero tornati a prenderlo.

      – Rory, mi ascolti o no?

      – Sì, mamma.

      – Non vuoi proprio dirmi cosa ti ha fatto gridare stanotte?

      – Non me lo ricordo.

      – Prima hai detto che non volevi dirmelo. Né a me né al papà. Te lo ricordi?

      – No.

      – Lo dirai almeno a Samantha?

    Rory gettò il quaderno sul letto e sbuffò in un gesto di stizza che sarebbe parso quasi comico in altre circostanze; ma Darla teneva fisso su di lui uno sguardo particolarmente ansioso che lo metteva a disagio.

      – Forse.

    Era tutto quello che per il momento avrebbe potuto ottenere da lui. La donna si alzò e posò il quaderno sulla scrivania.

      – Non importa se non te lo ricordi o non vuoi dirmelo, sai? – gli disse quando cominciò a vederlo ripetere le letterine che lei stessa aveva tracciato per lui sulle prime righe.

    Lui alzò lo sguardo, incuriosito.

      – L’importante è che tu sappia che va tutto bene, e che non c’è da aver paura. Neanche in sogno.

    Il bambino sorrise, scaldandole il cuore. Comparvero le fossette sulle guanciotte forse troppo pallide, poi le rispose senza un attimo di esitazione.

      – Veramente? Anche se tu non sei la mia vera mamma?

    Di sabato le lezioni terminavano un’ora prima, e all’una Jessica irruppe dalla porta d’ingresso col suo solito carico di pettegolezzi e segreti inconfessabili da raccontare alla madre. La scuola media le piaceva molto di più di quella elementare; c’erano ragazzi più grandi, non i soliti bambini piagnucolosi, e poi le sue compagne di classe erano quasi tutte simpatiche.

      – Mamma! – gridò già dal soggiorno. Poi gettò la cartella in un angolo e si concentrò sull’odore di bruciato che proveniva dalla cucina. Uova… Frittata. Storse la bocca e si avviò delusa verso il salone.

      – Buongiorno, bentornata. – la salutò sua madre senza allontanarsi dai fornelli. Pareva indaffarata col contenitore del sale, o forse no, era formaggio.

    Jessica la osservava ancora con le labbra imbronciate, dalla finestrella che metteva in comunicazione la cucina con la sala da pranzo.

      – Buongiorno, mamma.

      – Hai chiuso la porta?

      – Papà è ancora in garage.

      – E tu chiudila lo stesso, no?

    La bambina si esaminava le unghie. Lo smalto fucsia, assai poco evidente, che sua madre l’aveva aiutata ad applicare il giorno prima era ancora più sbiadito; era stato bello però quando le sue amiche le avevano fatto i complimenti. Avrebbe voluto… Avrebbe voluto che la mamma le chiedesse com’era andata. Non le piaceva come se ne stava concentrata a cucinare dandole le spalle. Frittata, per giunta. Frittata bruciata.

      – Non mi piace la frittata, e tu lo sai! – esclamò all’improvviso, cambiando argomento. Ecco, ora non avrebbe più potuto chiederle di accompagnarla da Noemi a studiare quel pomeriggio. A Noemi aveva promesso una delle boccette di smalto rosso della mamma, e sapeva che lei non avrebbe potuto negargliela… Se fosse stata gentile e beneducata per tutto il pranzo.

    E invece no. Era stata colpa di sua madre; era lei che aveva rovinato tutto a causa di quell’odore insopportabile di uova, e poi perché non le aveva chiesto: Allora, Jessica, com’è andata oggi? Che mi racconti?.

    Eppure sapeva quanto a lei piaceva parlare delle sue giornate; e non solo di quando prendeva un sei. Una banale sufficienza era meno interessante dell’anellino nuovo che aveva sfoggiato Noemi in classe, o del ragazzo di terza di cui una delle sue compagne era segretamente innamorata.

      – Ma ci ho messo il formaggio fuso, quello che piace a te. Fa’ la brava, stasera usciamo e puoi ordinare la pizza con le patatine. Ora però va’ a lavarti le mani, e chiama tua fratello.

    La voce di sua madre non fece che aumentare il suo malumore. Era sovrappensiero a causa di Rory, ecco cosa c’era che non andava, e tutto per via di quella mattina. Con le sue urla da bamboccio piscialletto, Rory era riuscito a svegliare anche lei, che aveva la stanza dall’altra parte della casa.

      – Ok, prima però dopo pranzo puoi accompagnarmi da…

    In quel momento sua madre gridò, portandosi un dito alle labbra.

      – Mamma? – chiese Jessica, correndole accanto.

      – Non è niente, uno schizzo d’olio. Allontanati che è bollente. Fa’ presto che la tavola è già apparecchiata, su!

    La bambina scrollò le spalle e rinunciò alla richiesta che stava per fare. Mentre si lavava le mani, si chiese se uno schizzo d’olio potesse bruciare a tal punto da far riempire di lacrime gli occhi di sua madre.

    Jonas rientrò poco dopo, con la valigetta da lavoro sotto braccio e un sacchetto bianco da panetteria ancora fumante. Due larghe chiazze d’olio andavano formandosi su entrambi i lati.

      – Jessica! Hai lasciato ancora la porta aperta! – esordì mettendosi il sacchetto tra i denti e lasciando la valigetta su una poltroncina all’ingresso.

      – Sì, papà! – rispose la figlia dal bagno.

      – Non ti ho detto mille volte che dietro non hai lo strascico, e che va richiusa immediatamente?

      – Sì, papà!

      – E non dire sempre sì papà! La prossima volta…

      – Sì papà!

    Jonas sbuffò, si tolse la giacca sempre col sacchetto unto in bilico tra i denti, poi si avviò verso il soggiorno. Puzza di frittata; sua moglie non si era sprecata, per pranzo. Magari era uno di quei giorni in cui decideva di fargliela pagare per aver mandato via Irina con un po’ troppa fretta. O forse era perché… Beh, dopotutto quello non era un giorno come gli altri.

      – Darla? Dov’è il piccolo?

    Nessuna risposta. Qualcosa sfrigolava in padella. Di solito Rory era sempre in giro per il salotto a giocare coi suoi soldatini; si era abituato a vederlo corrergli incontro (se prima come al solito non stava litigando con la sorella).

      – Darla?

    Sperava davvero che non l’avesse rimproverato. Quel bambino era così sensibile e impressionabile; gli ricordava lui da piccolo, almeno stando alle descrizioni che gli aveva fatto la madre. Andava protetto… E se a scuola nessuno sapeva farlo sentire al sicuro, allora ci avrebbero pensato lui e Darla. No, era impossibile che sua moglie l’avesse punito relegandolo in camera sua. Avevano adottato quella punizione per una delle marachelle di Jessica soltanto una volta, ma poi avevano deciso di non prenderla più neanche in considerazione.

    Alla fine sua moglie parve accorgersi di lui.

      – Jon? Bentornato. Rory è nella sua stanza. Purtroppo è rimasto indietro con i compiti, oggi.

    L’uomo le si avvicinò furtivo di spalle, e l’abbracciò stringendole i seni.

      – E così ti ho trovata sola e indifesa, eh? Dolcezza?

    Lei non rise; si limitò a un gemito di sorpresa, poi rilassò le spalle e si lasciò baciare.

      – Cristo, ma questa puzza è orrenda! – fu la seconda romanticheria di suo marito.

    La donna si voltò di profilo e assunse un’espressione di finta umiliazione:

      – Scusami, volevo preparare il pranzo perfetto in dieci minuti, e ho rovinato tutto in cinque…

      – Hai avuto molto da fare?

    Jonas la squadrava più insistentemente; infine la costrinse a voltarsi del tutto. Il vapore dell’acqua in cui bollivano i carciofi gli aveva appannato gli occhiali, e Darla sperò che non si accorgesse della sua agitazione.

    E invece no. Proprio come era successo prima con Jessica, Darla non riusciva mai a nascondere niente. Era una pessima attrice.

      – Tesoro… Hai pianto? È successo qualcosa al piccolo? Ha fatto qualche…

    D’improvviso il tono di Jonas si era fatto affettuoso, protettivo; l’abbracciò stringendola a sé. Darla sentì il profumo forte di dopobarba, e in più la sua ansia. Non voleva lasciarsi andare proprio lì; i loro figli sarebbero stati a tavola tra qualche minuto, e non voleva neppure guastare il pranzo a suo marito. Dagli occhi già gonfi minacciarono di scivolare altre lacrime.

      – No, no. Non è successo niente a Rory, sta’ tranquillo. Ne parleremo dopo pranzo, ok?

    Jonas sembrò deluso e ancor più preoccupato. Si allontanò in modo da permetterle di governare la frittata troppo cotta. Poi si tolse gli occhiali e cominciò a pulirli con un fazzoletto.

      – Ha detto qualcosa? È quel sogno, non è vero?

      – No, Jonas. Il sogno non c’entra niente. È solo una piccola, minuscola parte di tutto quello che non va! Non te ne rendi conto?

    Si era voltata ancora. Il mutamento del suo viso era stato improvviso; ora gli occhi lucidi quasi lampeggiavano per la rabbia, e la frustrazione.

      – Che cosa mai… Ok, ok, dopo pranzo allora.

    I bambini erano già usciti dal bagno, dove Rory aveva approfittato della presenza della sorella per la cerimonia del sapone. Una generosa quantità dall’erogatore, e poi via a riempire il lavandino di schiuma; ce n’era ancora tra i capelli, quando il piccolo corse ad abbracciare suo padre.

      – Rambo all’attacco! – lo salutò l’uomo alto e imponente che lo sollevò. Rory rise, e pensò alla pistola giocattolo che aveva lasciato da qualche parte in cameretta. Gli piaceva giocare alle imboscate col suo papà.

    Jonas gli aveva trasmesso la sua passione per l’intera serie di film che avevano come protagonista il reduce vietnamita dal grilletto troppo facile. Contrariamente al volere di Darla, da un anno a quella

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