Giacomo, fragile casanova
Di Diego Montel
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Anteprima del libro
Giacomo, fragile casanova - Diego Montel
Giacomo, fragile casanova
Diego Montel
Copyright© Officine Editoriali 2015
Prima edizione ebook Febbraio 2015
Tutti i diritti riservati.
Il presente file può essere usato esclusivamente per finalità di carattere personale. Tutti i contenuti sono protetti dalla legge sul diritto d’autore. Officine Editoriali declina ogni responsabilità per ogni utilizzo del file non previsto dalla legge. È vietata qualsiasi duplicazione del presente ebook.
ISBN 978-88-98041-48-0
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Ebook by: Officine Editoriali
Foto di copertina di Patryk Sobczak
Elaborazione grafica copertina: Officine Editoriali
SOMMARIO
Eva
Maia
Arianna
Io, la figlia
Sofia
Io, la moglie
Perla
Io, l’altra
Mana
Io, l’esotica
Charlotte
Io, la moglie americana
Barbara
Io, l’assistente
Allegra
Io, l’amica
Marianne
Io, la moglie francese
Io, Giacomo
Io, Marianne
EVA
La prima donna che mi ha fatto piangere, dopo mia madre, si chiamava Eva.
Le sue mani hanno strapazzato la povera orchidea che le avevo regalato per il suo compleanno con un piacere sadico a me sconosciuto. Dopo cinque secondi, i petali, diventati fradici e scuri per la tortura, giacevano ai suoi piedi insieme alla scatolina trasparente che li conteneva.
Io, Giacomo, dodici anni; Eva, tredici, stessa classe, terza media. Un anno avanti, studente di media qualità, media presenza, medi interessi, una sola passione: Eva.
L’orchidea mi era costata tutta la merenda della settimana. E prima di Eva vivevo per quel momento di piacere: gustare la mia focaccia farcita, lentamente, durante la ricreazione.
Piangevo senza imbarazzo, le lacrime sgorgavano lente, incredule del fallimento. Che avevo fatto per meritare un simile trattamento? Non era frustrazione o vergogna ma dolore vero.
Del resto, come aveva spiegato più volte la prof di lettere, non piangono, forse, gli eroi come Achille, Agamennone, Odisseo? Eccome! Loro piangevano spesso, per sentire meglio lo scorrere del sangue nelle loro vene, per sentirsi vivi dopo una sconfitta, per rinascere e prendere nuovo vigore. Con simili esempi potevo piangere anch’io senza timore.
A differenza delle mie compagne che piangevano a comando per ottenere immediatamente quello che volevano, io piangevo per me, per il dispiacere provato sulla mia pelle.
In una classe di indigeni del centro storico e zone limitrofe, quando ancora l’ondata di extracomunitari non era visibile all’orizzonte, Eva era l’incarnazione dell’esotismo. Appena arrivata da un’altra regione, parlava sottovoce con accento emiliano, trattenuto e dolcissimo. Alta, slanciata, aveva un viso largo e piatto, orientaleggiante, con incredibili occhi verdi a mandorla e capelli sottili, dritti con una lunga frangia: era facile disegnarla. Nel diario scolastico l’avevo abbozzata in una delle pagine vuote delle vacanze di Natale, dove nessuno avrebbe mai guardato.
I compagni ripetenti, dalla voce arrochita da picchi di testosterone, la rincorrevano tra i banchi appena un professore ritardava; tutto avveniva in silenzio, anche lo spostamento veloce dei tavolini. Cercavano di bloccarla e di toccarla. Solo lei, l’unica ape regina della classe, le altre non esistevano, neppure come api operaie. Lei reagiva non reagendo. Silenziosa si limitava a scappare imbronciata, consapevole di essere una preda ma non per loro. Io guardavo attento, in silenzio, come davanti al televisore.
Mi ero innamorato di Eva a prima vista, mia, appena entrata in classe due mesi dopo l’inizio della scuola. Lei non sembrava interessata a niente, né curiosa né emozionata, quando la prof la presentò alla scolaresca, lo sguardo liquido, verde, dritto davanti a sé un po’ spostato in alto, a un interlocutore fortunato quanto misterioso. Sembrava timida, riservata, i suoi modi erano gentili con tutti, il suo sorriso illuminava l’aula, ma non legò veramente con alcuno di noi compagni. L’idea di poterla rivedere ogni giorno, dava un senso alla mia vita fino ad allora banale. Con Eva in classe non mi ammalai più fino all’esame.
In verità, nei primi mesi di scuola non mi rivolse mai la parola nemmeno per sbaglio o per un saluto. Le ero indifferente o, meglio, del tutto invisibile. Era la prima ragazza per cui provavo qualcosa e non riuscivo a rivolgerle la parola. Mi limitavo a seguirla con lo sguardo appena pensavo di non essere visto. Mi innamoravo sempre di più pur vivendo la mia cotta in modo estremamente conflittuale, intimo, senza cercare un vero ma neppure un qualsiasi contatto con l’oggetto del mio amore. Amore a distanza ravvicinata, Eva era a due banchi da me, sulla sinistra. Amore fatale per i risultati scolastici: dal sette al cinque in tre mesi e il traguardo dell’esame sempre più vicino. Non ero un ragazzo studioso ma fino ad allora tranquillo e razionale: mi bastava leggere attentamente qualcosa per ricordarla senza fatica. Già, attentamente, ma se tutta l’attenzione era ormai concentrata su Eva come potevo ricordarmi qualcosa? Leggevo, rileggevo ma non assimilavo niente.
Mi sentivo come un extraterrestre rintronato, non in grado di capire in quale pianeta mi stessi muovendo; specialmente non capivo i suoi abitanti che si affannavano a fare cose per ricavarne un piacere che non riuscivo a decrittare.
Il crollo del mio rendimento ebbe ripercussioni prima in classe, perché Luigi il mio compagno di banco non poteva più copiare i compiti la mattina prima di entrare in aula (ero generoso: se riuscivo in qualche cosa, davo agli altri senza problemi), poi in casa. Mamma e papà non si capacitavano: come potevano immaginare che il loro unigenito, normodotato, di buon carattere aveva ben altro per la testa che giocare o studiare? Non erano esigenti né autoritari, volevano solo il mio bene e si preoccupavano per la mia salute anche mentale. Non avevo mai dato problemi, figlio unico senza preoccupazioni; fino a quell’autunno il mondo girava intorno a me e non chiedeva che girassi anch’io.
Così mi portarono da un collega di mio padre, un neuropsichiatra infantile a cui non raccontai proprio nulla di Eva ma fu l’unica persona a vedere il suo disegno sul diario. Capì tutto e tranquillizzò i miei genitori che alla fine misero in dubbio le sue effettive capacità di medico.
Passavo i pomeriggi a disegnare, ascoltare musica, ad amare la pioggia che batteva triste sui vetri, così simile al mio stato d’animo.
Era soddisfatto del mio amore platonico. Lo centellinavo come faceva papà con un buon vino d’annata. Non chiedevo nulla, neppure di entrare in contatto con Eva. Mi limitavo a seguirla in corridoio durante la ricreazione per ascoltare le sue risate mentre parlava o scherzava con le altre e anche in bagno per vederla specchiarsi e aggiustarsi la frangia. Trovavo sempre qualche buona scusa per tenerla nella mia visuale e rimanere concentrato sul mio paradiso privato. Se Eva usciva, uscivo anch’io: mi ero dimenticato qualcosa nell’aula di disegno, avevo lasciato l’ombrello in cortile, dovevo andare in segreteria per un cerotto. Tremavo all’idea che il mio segreto potesse essere scoperto dai compagni o dagli insegnanti, eppure continuavo a fare cose stupide, infantili, a comportarmi come un imbecille.
E, nascosto sotto il banco, avevo inciso il nome di lei. Eva, il mio primo grande amore sui banchi di scuola, per me l’unico possibile nella mia intera vita. In terza media pensavo di aver incontrato la persona capace di sconvolgermela. Oltre la mamma, c’era di più.
E finalmente accadde. Il giorno del mio compleanno, tredici anni, ma non alla mia festa, Eva si ruppe una gamba per colpa di un cretino con lo snowboard che le era piombato addosso su una pista poco innevata dell’Abetone.
Già faticavo a non vederla la domenica, figurarsi il lunedì quando, scrutando ansiosamente tra i banchi, vidi rimanere inesorabilmente vuoto il posto di Eva. Volevo tornare a casa subito, mettermi a letto per immaginarmela.
Che senso aveva restare in aula senza di lei? E invece ne era valsa la pena: alzai la mano quando la prof cercò la vittima designata e fui incaricato ufficialmente di portare i compiti a casa all’invalida.
Per aiutarla, ricominciai a studiare, mi preparavo affinché lei, con poca fatica, si mettesse al pari con la classe e mi fosse riconoscente. Ogni giorno coglievo o rubavo un fiore che Eva con gesti sublimi metteva in una bottiglietta di Coca vuota sul davanzale della finestra, ringraziando puntualmente. Mi sentivo adulto, il più maturo della classe. Per intrattenerla azzardavo comportamenti per me inusuali, la divertivo con commenti sui compagni, specialmente i ripetenti, tanto non m’avevano mai preso in considerazione. Le davo ad intendere che nella scuola ero un personaggio, conosciuto dai bidelli che erano addirittura amici. Facevo il gradasso, davo consigli da ‘esperto’:
"Se non vuoi essere interrogata rimani in bagno per tutta la lezione."
Alle gite bisogna subito correre per accaparrarsi gli ultimi posti, lontano dai professori per essere lasciati in pace e sentire la musica che ci piace
.
Eva ascoltava, raramente parlava, privandomi così del suono eccitante della sua voce. Sembrava credere alle mie balle, rideva e il suo sorriso mi rendeva felice come non ero mai stato. Ma un occhio un po’ più esperto del mio avrebbe subito notato che suscitavo in lei l’interesse di una regina per il buffone nano di corte.
Infatti un pomeriggio, a due giorni dal rientro a scuola, mentre rideva per l’ultima cazzata narrata e che doveva essere proprio grande, vista la sua reazione, Eva mette una mano sulla mia spalla, tra la clavicola e il deltoide come a spingermi incredula, come si fa tra compagni di fronte a un’assurdità. E io? Guardo incantato la sua mano, piego la testa sul collo e, incredibile, la bacio veloce. La mano.
Eva si rabbuia, smette di ridere, si pulisce il dorso sui pantaloni come dopo la leccata di un cane randagio e ritorna la ragazzina assente di sempre. Mi saluta con un annoiato "Ci vediamo a scuola allora, grazie ma non ho più bisogno di te per le lezioni".
Non ci fu più nulla da fare con lei. Tagliato fuori dalla sua vita come se niente fosse successo in quei venti giorni. Tutti gli sforzi per risparmiarle lo studio delle lezioni, le confidenze, le stupidaggini che avevo fatto per intrattenerla non avevano scalfito la sua anima, non ero riuscito neppure a diventare suo amico, come avevo almeno sperato. Nell’ultimo tentativo, il regalo dell’orchidea per il suo compleanno, fui miseramente e definitivamente affondato. Eppure gli altri fiori le erano piaciuti tanto. O almeno sembrava, forse era stata pura cortesia nei confronti di un insulso bambino dal buffo comportamento.
Dopo il fattaccio dell’orchidea era terribile doversi vedere tutti i giorni: qualcosa di antipatico era accaduto, ormai eravamo in imbarazzo l’uno con l’altra. I compagni non si erano accorti di niente perché niente era cambiato tra prima e dopo, tranne che non chiedevo più di uscire durante le lezioni. I miei voti risalirono, non più distolto da Eva; le avevo messo una pietra sopra ma non dimenticata, una caratteristica che avrei sviluppato in futuro con le altre donne della mia vita, dandomi la possibilità di sopravvivere.
Non mi considera, non mi vuole? Ho messo tutto il mio impegno, ho fatto tutto il possibile, l’immaginabile, talvolta anche l’inimmaginabile per lei. E allora basta farsi male, abbandono la lotta.
Questi i pensieri con cui sarei tornato a rivedere le stelle tutte le volte che un essere femminile mi avesse ferito mortalmente.
Finché un giorno, poco prima degli esami, ci ritrovammo soli in aula; tutti gli altri avevano marinato le due ore di disegno con compito in classe come risposta al comportamento del Giusti, il prof che riteneva tutti incapaci e si divertiva a torturarci.
Seduta vicino al mio banco, Eva scoppiò improvvisamente a piangere. Era umana anche lei, dunque. Quando mi accostai con un fazzoletto, alzò gli occhi e