Dove gli angeli temono di avventurarsi
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Fantascienza - romanzo breve (78 pagine) - Un grande classico vincitore del Premio Hugo 1998 sul tema del primo contatto.
…Lo hanno descritto come un disco volante di circa venti metri di diametro e sei d’altezza, che volava senza alcun mezzo di propulsione visibile. Non sapevano con cosa avessero a che fare, ma il fatto che l’oggetto avesse rinunciato all’invisibilità tendeva a suggerire che gli occupanti non fossero ostili. Avevano bisogno di altro tempo per studiarlo; magari non veniva dalla costellazione del Cancro, ma di certo nemmeno dal Tennessee.
Dove gli angeli temono d’avventurarsi, che in seguito sarebbe stato sviluppato nel romanzo Chronospace, ha vinto il Premio Hugo 1998, il Premio Locus, l’Asimov’s Award e il Chronicle Award, ed è stato anche candidato ai Premi Nebula, Theodore Sturgeon Memorial e Seiun.
Allen M. Steele, Jr ha iniziato a scrivere fantascienza a tempo pieno nel 1988 con il racconto Live From The Mars Hotel apparso sulla rivista Asimov’s. Da allora è diventato un prolifico autore di racconti, romanzi, saggi e i suoi lavori sono stati tradotti in numerose lingue. Steele è nato a Nashville, Tennessee. Si è laureato in scienze della comunicazione presso il New England College di Henniker, New Hampshiree ha poi preso la laurea in giornalismo presso la University of Missouri in Columbia. Prima di arrivare alla fantascienza ha svolto diverse mansioni in ambito giornalistico, scrivendo sia per la stampa d’informazione sia per quella commerciale. I suoi romanzi di fantascienza: Orbital Decay, Clarke County, Space, Lunar Descent, Labyrinth of Night, The Jericho Iteration, The Tranquillity Alternative, A King of Infinite Space, Oceanspace, Chronospace, e il ciclo di Coyote di grande successo anche in Italia. Ha inoltre pubblicato diverse antologie di racconti tra le quali: Rude Astronauts, All-American Alien Boy, Sex and Violence in Zero-G, e American Beauty.
Con il romanzo breve Morte di capitan Futuro ha vinto nel 1996 il Premio Hugo, riconoscimento che ha poi riconquistato nel 1998 con romanzo Dove gli angeli temono d’avventurarsi.
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Anteprima del libro
Dove gli angeli temono di avventurarsi - Allen M. Steele
9788825407136
Giovedì 15 gennaio 1998, 23:12
Quando l’affare di lago Hill si concluse, vennero inviati i rapporti agli enti interessati i cui comitati tennero riunioni riservate. A tutte le persone che in qualche modo erano coinvolte nella cosa, fu assicurato che la situazione, anche se non del tutto risolta, almeno non era più critica.
Allora, ripensando all’evolversi della faccenda, Murphy capì che tutto era cominciato la sera prima, al Bullfinch della Pennsylvania Avenue.
Il Bullfinch era un famoso locale di Capitol Hill, a tre isolati dal Rayburn Building. A due passi da uno dei quartieri più malfamati e con il più alto tasso di criminalità di Washington. Il locale a mezzogiorno era frequentato per il pranzo dai congressisti, mentre nel tardo pomeriggio veniva invaso dai giornalisti per gli aperitivi. Di sera, infine, si riempiva di dipendenti di dipartimenti degli Enti federali, che dopo aver lavorato dodici ore, con le camicie bagnate di sudore uscivano dagli edifici degli enti del Commercio, Agricoltura, Giustizia e arrivavano al Bullfinch per una bevuta, prima di raggiungere la stazione del metrò per tornare alle loro case del Maryland e della Virginia.
Il giovedì sera il locale era riservato ai dipendenti dell’USP (Ufficio Scienze Paranormali). Murphy non frequentava spesso quei raduni; preferiva rimanere con moglie e figlio nella sua casa ad Arlington. Tuttavia, in quel momento, la moglie, Donna, non era di compagnia, essendo addolorata per la morte della madre, avvenuta nel periodo natalizio, e il figlio Steve era più interessato alla raccolta di figurine che a parlare con il padre.
Perciò, quando verso le otto di sera, il suo collega Harry Cumisky si affacciò alla porta del suo ufficio per invitarlo ad andare a bere una birra, Murphy decise di accettare. Era parecchio che non si concedeva una pausa e se fosse tornato a casa con un’ora di ritardo, amen. Donna si sarebbe comunque raggomitolata nel suo lato di letto, dandogli le spalle, e Steven non si sarebbe neppure accorto, a lui importava solo che il sabato papà lo portasse al bookshop dove vendevano i suoi fumetti preferiti.
Murphy chiuse l’ufficio, e con i suoi colleghi s’incamminò tra nevischio e fanghiglia per raggiungere il Bullfinch, a cinque isolati di distanza.
Quando arrivarono, trovarono i colleghi dell’USP che si erano già sistemati nei tavoli che per l’occasione erano stati avvicinati l’un l’altro. Una cameriera stressata aveva già servito caraffe di birra e ciotole di noccioline americane.
Vedendo entrare Murphy, tutti rimasero sorpresi, ma gli fecero subito posto perché si unisse a loro. Lui, che non voleva apparire troppo formale, si slacciò la cravatta, ordinò a un giovane collega che pareva appena uscito da Yale di non chiamarlo signore
ma semplicemente Zack, e si versò la prima delle due birre che si riprometteva di bere quella sera.
Un paio di drink con i colleghi, un po’ di risate, poi sarebbe rientrato a casa.
Ma probabilmente non era questo che il destino gli aveva riservato. Fuori la sera era fredda e umida. Lui si trovava in un locale caldo, asciutto, dove nel caminetto lingue di fiamme a gas avvolgevano finti pezzi di legno, mentre la loro luce si rifletteva sulle pareti coperte di foto in cornice con tutti i più famosi eroi sportivi. Tra gli avventori le conversazioni si incrociavamo in modo del tutto disimpegnate: si discuteva del prossimo Super Bowl; degli ultimi film visti, fino a sussurrare maldicenze di corridoio.
Cindy, la cameriera, per quanto esibisse nell’anulare sinistro l’anello di fidanzamento, non disdegnava le attenzioni dei ragazzi dell’USP, i quali si affrettavano a svuotare le loro caraffe per chiamarla e approfittare dell’occasione per le loro avance.
Dopo essere andato un paio di volte in bagno, Zack chiese il permesso di usare il telefono e chiamò Donna per dirle di non aspettarlo alzata.
– No, non sono ubriaco; solo un po’ stanco. Tutto qui. Comunque non tornerò a casa con la mia auto. La lascio in garage e prendo un taxi. Sì, tesoro. No, tesoro. Ti amo anch’io. Dolci sogni, buonanotte.
Riattaccò la cornetta e tornò al tavolo, dove Orson stava raccontando a Cindy la barzelletta piccante del senatore, la prostituta, e la giovenca.
La serata passò così velocemente che prima che Murphy se ne rendesse conto, metà del locale si era svuotato. I suoi colleghi finivano di bere, indossavano cappotti e giacconi e uscivano nella gelida sera.
Ormai erano rimasti solo in tre: Kent, Harry e Zack, tutti in bilico sul difficile precipizio della scarsa sobrietà.
Cindy, dopo che i ragazzi più intraprendenti se n’erano andati, non era più disposta a divertirsi, e guardava quegli ultimi tre clienti un po’ disgustata. Si accostò al loro tavolo per portar via i boccali vuoti, quindi tornò con una nuova caraffa annunciando che quella per loro sarebbe stata l’ultima.
Poi chiese se qualcuno aveva bisogno di un taxi per tornare a casa.
Murphy riuscì a risponderle che chiamargli un taxi era un’ottima idea, quindi si riportò nel pieno della discussione con i due amici, i quali stavano dissertando sul problema del viaggio nel tempo.
Forse quell’argomento non era tanto strano. Per quanto il viaggio nel tempo fosse trattato in modo del tutto discutibile in testi di fisica teorica, quelli dell’USP che per la natura del loro lavoro avevano uno spiccato interesse per il bizzarro, erano costretti a considerarlo.
Murphy quindi non trovava assurdo essere lì a discutere con Kent e Harry. Oltretutto erano tutti e tre sbronzi e le parole fluivano con grande facilità.
– Immaginate... – Harry si interruppe, portò la mano alla bocca e ruttò. – Scusate... Dicevo: immaginate che viaggiare nel tempo sia possibile. Che sia possibile tornare nel passato...
– Impossibile – affermò Kent.
– Ma certo. – disse Harry. – Lo so che è impossibile. Però per finta ipotizziamo che...
– Ma cosa vuoi ipotizzare? Non si può e basta. Ho letto anch’io quei libri e ti dico che nessuno oggi come oggi possiede la tecnologia per...
– Io non sto ipotizzando che la cosa si possa fare adesso, Cristo! Penso al futuro. Tra due o tremila anni, è lì che voglio arrivare, hai capito?
– Tu stai pensando a qualcuno che venga a farci una visitina dal futuro, vero? – Murphy da ragazzo aveva letto parecchi libri di fantascienza, dove i viaggi nel tempo erano uno degli argomenti ricorrenti. Anzi, probabilmente in solaio conservava ancora parecchi di quei libri, ma non lo avrebbe mai ammesso, specialmente con i suoi colleghi.
La fantascienza non era una narrativa rispettata all’USP, salvo che non si trattasse delle storie di X-Files.
– Esatto – annuì Harry. – È proprio di questo che sto parlando. Qualcuno del futuro che torna qui a vedere cosa facciamo.
– Be’, io continuo a dire che è impossibile – disse Kent. – Non potrà succedere nemmeno tra un milione di anni.
– Forse hai ragione – convenne Murphy. – Ma per amore di discussione, facciamo finta che qualcuno dal futuro...
– Non solo qualcuno – disse Harry prendendo la caraffa semivuota, per versare un po’ di birra nel suo boccale. – Supponiamo che un sacco di gente torni dal futuro, riuscite a immaginare?
– Sì, va bene, pensiamo che torni un sacco di gente. – Non appena Harry posò sul tavolo la caraffa, Kent l’afferrò e versò quel poco che restava nel suo boccale. – Giochiamo a immaginare che... Bene, dove sarebbe questa gente?
– È questo il punto. È questo che i firsici...
– I fisici – lo aiutò Murphy. – Come me. Ma, come vedi, io sono quel