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Lo spettatore creativo
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Lo spettatore creativo
E-book209 pagine3 ore

Lo spettatore creativo

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Info su questo ebook

Lo spettatore creativo consta di due saggi: Sul concetto di volto nel Figlio di Dio, spettacolo della Socìetas Raffaello Sanzio, la cui contestata rappresentazione al Teatro Franco Parenti di Milano a gennaio 2012 fece tanto rumore per nulla, perché lo spettacolo era una “pezzenteria culturale”, come comprovano le nostre “osservazioni critiche”, che sono inoltre una critica delle critiche scritte dai critici Sul concetto di volto nel Figlio di Dio, da cui può desumersi il perché da qualche anno la critica teatrale occupi ormai uno spazio marginale sulla stampa nazionale.

Il secondo saggio: La morte era già lì…, tratta della tragica morte di Alfredo Tassi sul palco di Digione. Il Tassi era macchinista nello spettacolo Inferno, della Socìetas Raffaello Sanzio, e morì, secondo Chiara Guidi, “in un contesto di gioco, stavano giocando, stavano ridendo”, ed è nel contesto di tale presunto “gioco” che si è inoltrata la nostra indagine, cercando di cogliere i perché dell’“assurda” morte del giovane macchinista, e non solo.

Circa le voci sull’autocensura del regista per la rappresentazione Sul concetto di volto nel Figlio di Dio al Teatro Franco Parenti di Milano, il cesenate, ad onta di equivoci, disse: “D’ora in avanti riproporrò sempre e solo la prima versione dello spettacolo con i bambini in scena che lanciano bombe a mano contro il volto di Cristo. Lo faccio per sgombrare il campo da ogni dubbio di autocensura. Preferisco subire un processo e andare in prigione piuttosto che essere accusato di autocensurarmi.”[Romeo Castellucci, Il Resto del Carlino, 18.02.2012]

Tuttavia, in quanto a censura, autocensura, processo, prigione, e altri fantasiosi rumori, nella fattispecie l’altisonante proclama del Castellucci ci apparve ridicolo, perché era ovvio che per la sua fetida “merda d’artista” non rischiava né processo né prigione, ma stava solo ottenendo appoggi e solidarietà che “molto poco hanno a che vedere con lo spettacolo in sé”, perché se ci fosse stata ancora una critica teatrale degna di questo nome, allora Sul concetto di volto nel Figlio di Dio si sarebbe dovuto stroncarlo già alla Prima, perché è “pezzenteria culturale”…

E basta leggere Lo spettatore creativo per averne inoppugnabile prova.
LinguaItaliano
Data di uscita28 feb 2017
ISBN9788826032764
Lo spettatore creativo

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    Anteprima del libro

    Lo spettatore creativo - Vincenzo Altieri

    Note

    Introduzione

    Era da qualche anno che sempre tornava sulle labbra dei membri della Socìetas Raffaello Sanzio la figura dello spettatore creativo.

    Siffatta invenzione ci apparve però un maldestro e furbetto modo di mettere le mani avanti, rivelando: se di fronte a uno spettacolo della Socìetas, lo spettatore rimane sconcertato, non avendoci cavato un ragno dal buco, vuol dire che è lui in difetto, perché spettatore non creativo.

    Pertanto, se così fosse, solo lo spettatore creativo sarebbe quello chiamato a cogliere la semenza riposta negli spettacoli della Socìetas, per ricrearli.

    E il regista Castellucci si spinse perfino a predicare:

    L’arte di quest’epoca è la creazione dello spettatore. Lo spettatore è dio che crea in una nuova luce figurativa. [1]

    Ogni spettatore era dunque un dio?

    Sì, stando alle credenze del cesenate e alle sue indubbie posizioni:

    Io credo nella potenza creatrice dello spettatore. Direi che è la figura più nuova e straordinaria. L’ho detto, per me è dio, [2]

    e quindi, se lo spettatore era dio, al contrario:

    Io non credo più nella figura del grande artista illuminato che cala il suo asso. [3]

    Così il credo di Castellucci apparve chiaro ed eloquente: l’artista illuminato era per lui lo spettatore creativo, che si faceva dio nel preciso momento in cui crea in una nuova luce figurativa, altrimenti rimaneva un povero diavolo.

    A fronte delle proteste per i tagli alla cultura, vale a dire al FUS, inseriti nella Legge finanziaria 2010, nonché delle accese polemiche che ne seguirono, tra cui l’erudita battuta del ministro Brunetta: Una cosa è la cultura, una cosa è lo spettacolo, alla domanda di Francesca Leoni:

    Cosa rispondi alle persone che affermano che lo spettacolo non è cultura?

    Il regista Romeo Castellucci rispose:

    Non so cosa dire. Una frase talmente idiota che mi lascia senza parole, mi lascia di stucco. [4]

    A prescindere dalla frase idiota, nella risposta di Castellucci si può cogliere chiaramente che per lui spettacolo è cultura, dunque pure gli spettacoli del regista cesenate sono sempre cultura?

    Il lettore creativo non potrebbe che rispondere affermativamente.

    Nondimeno, ancorché il cesenate stigmatizzasse come frase idiota l’opinione espressa dal ministro Brunetta, in realtà è quello che credeva pure lui, perché, per il noto regista Castellucci, una cosa è la cultura, una cosa è lo spettacolo della Socìetas Raffaello Sanzio.

    Difatti, dichiarò in proposito il vate Romeo:

    Il nostro non è un teatro culturale, vorrei dire anche questo, sono onde emotive. Il teatro di repertorio necessita di un certo tipo di preparazione, di una certa cultura anche, il teatro contemporaneo, ma l’arte in generale è in realtà un viaggio verso l’ignoto, in una dimensione sconosciuta. [5]

    Quello del Castellucci non è dunque un teatro culturale, perché questo tipo di teatro è fatto da quelli che filano il repertorio, e per intrecciare i fili degli stessi rocchetti in modi sempre diversi, così da infondere apparenza di nuovo al noto e al conosciuto, necessita di un certo tipo di preparazione, di una certa cultura anche, preparazione e cultura di cui è invece avulso lo spettacolo della Socìetas Raffaello Sanzio, che non tesse i fili, bensì li pizzica, attivando un potente flusso di onde emotive capace di trasportare lo spettatore-dio verso l’ignoto, in una dimensione sconosciuta, in cui potrà mettere in atto la sua creatività, così da conferire alle ombre implicate nelle risonanze emotive ricevute una nuova luce figurativa.

    E per seguitare a diffondere onde emotive, le sole capaci di nutrire la mente dello spettatore creativo, il Castellucci gridò che certo non bisogna aspettare le istituzioni, perché queste sappiamo che non esistono: in Italia sono morte, morte, morte! E vogliono la morte: non sono soltanto paludate, ma si auspicano la morte di un nuovo pensiero, hanno paura di nuove immaginazioni teatrali.

    Bene. E allora andiamo a vedere in che cosa consisteva il nuovo pensiero e le nuove immaginazioni teatrali che nutrivano lo spettacolo del genio cesenate, pomposamente denominato Sul concetto di volto nel Figlio di Dio.

    1.

    Il tocco del mattone

    C’è bisogno del brutto,

    altrimenti la gente perché viene a vedere noi?

    Romeo Castellucci [7]

    Eravamo arrivati a un punto di svolta: o ci chiudevamo in noi stessi o facevamo il grande salto verso un progetto che portasse aria nuova. [8]

    Ora, se era l’aria nuova il fine cui mirava il progetto promosso da Bacci, si deve perciò desumerne che la performance Sul concetto di volto nel Figlio di Dio, portata al Festival Teatro Era 2010, fu comprata a scatola chiusa, solamente in base alla fama che aleggiava attorno al nome di Romeo Castellucci, o forse solo per il costo accessibile di quest’ultimo spettacolo ideato dal fertilissimo ingegno del cesenate?, perché ci sembra fuor di dubbio che una persona dai gusti teatrali raffinati com’è il Bacci, se l’avesse prima audio-visto, poi di certo non lo avrebbe mai portato al Teatro Era, in quanto di una siffatta performance era impossibile anche solo accennare a una boccata d’aria nuova, perché si trattava piuttosto di aria fetida e puzzolente, come poi esperirono i nasi degli spettatori creativi.

    E altresì era invalsa da tempo l’ usanza di ripetere pedissequamente le più ardite ed enigmatiche rivelazioni del genio cesenate, senza però verificarne il corso, il brodo di coltura e la qualità degli ingredienti, per cui poteva succedere che quanto il vate Romeo aveva già pronosticato, lasciandoselo poi alle spalle, per indirizzare la sua feconda e perspicace mente a novelle invenzioni, venisse da altri riproposto come in corso d’opera, inducendo così negli spettatori creativi l’idea che il vate Romeo stesse ancora ingegnandosi attorno a pensieri e immagini preannunciati, mentre ormai non stava più lì, perché già altrove, in periglioso cammino su altre opere e sentieri.

    Ed ecco un esempio volto a suffragare la suaccennata curiosa usanza.

    Francesca De Sanctis: Questo progetto biennale sul volto di Cristo confluirà, il prossimo anno, in uno spettacolo che dovrebbe chiamarsi «J», è così?

    Castellucci: "J era un titolo provvisorio. Lo spettacolo si chiamerà Il velo nero del pastore, tratto da una novella dello scrittore americano Nathaniel Hawthorne. È un lavoro che ha dei punti in comune con quello in scena in questi giorni. Il volto di un pastore si copre con un velo nero. Ma sono due spettacoli diversi." [9]

    E il Festival Teatro Era 2010, nella sua pagina web dedicata allo spettacolo Sul concetto di volto nel Figlio di Dio, in programma per il 20 e 21 novembre, ossia un mese e mezzo dopo l’intervista del regista cesenate a L’Unità, informò:

    Le rappresentazioni presentate a Essen e ad Anversa sono il primo mattone di quella che sarà la rappresentazione sul concetto di volto di Gesù dal titolo «J».

    Il titolo «J», benché provvisorio e sorpassato, come disvelato alla De Sanctis su L’Unità da Castellucci, tuttavia fu poi riportato pedissequamente sulla pagina web del Festival Teatro Era 2010, mentre il genio cesenate era già passato da «J» al progetto di uno spettacolo denominato Il velo nero del pastore.

    Nondimeno, per il regista Castellucci Sul concetto di volto nel Figlio di Dio era una storia, per la verità non è neanche una storia, [10] tuttavia, a prescindere fosse storia o non storia, era però solo il primo mattone di una concezione sì pomposa ma abortita, e che fosse in realtà un solido mattone fu cosa che provarono tutti quelli che ebbero la ventura di saggiarlo con la propria testa.

    E sembra che vate Romeo ne avesse suonati così tanti di santa ragione con «J», che infine stancatosi, decise che il suo seguente, atteso e promettente mattone si sarebbe chiamato Il velo nero del pastore, che però ha dei punti in comune con quello in scena in questi giorni, difatti è ormai risaputo che «J» è universalmente conosciuto anche con l’appellativo di buon Pastore.

    Ma nonostante i punti che li accomunavano, Castellucci tuttavia rimarcò che sono due spettacoli diversi, perché, mentre il pastore narrato da Nathaniel Hawthorne si copre il volto con un velo nero, [11] «J» invece è venuto a rivelare sulla terra il Volto del Padre celeste.

    Colpito dalla piccante frecciata della De Sanctis:

    Sbaglio o la compagnia continua ad andare in scena più all’estero che in Italia?

    Il risentito ma sensibile e perspicace genio cesenate rispose subito a tono:

    "Non sbaglia per niente. L’unica eccezione, per quanto mi riguarda, è il Romaeuropa festival. Per il resto in Italia non c’è spazio per noi. Forse il nostro lavoro non rientra nei parametri e nelle logiche del mercato. La questione ha a che fare con una certa «pezzenteria culturale» da parte delle istituzioni e degli enti." [12]

    A fronte di quanto denunciò il regista Castellucci, dunque, il suo fertile genio in Italia veniva bistrattato, a parte alcune lodevoli eccezioni, perché istituzioni ed enti italici erano adusi a una certa «pezzenteria culturale».

    La pungente invettiva era di quelle che lasciano il segno, tuttavia nessuno se ne curò, e del resto perché avrebbero dovuto farlo, stando al fatto che chi ingiuriava, ricorrendo a una generica e corriva diffamazione di istituzioni ed enti italici, era uno che accollava agli altri pure la propria «pezzenteria culturale».

    E che Sul concetto di volto nel Figlio di Dio fosse in sostanza una sfrontata e vile «pezzenteria culturale», se ne forniranno di seguito argomentazioni e prove.

    2.

    A ognuno il suo

    Il teatro non serve a mostrare una verità,

    ma a nasconderla.

    Romeo Castellucci [13]

    […] in particolare un’azione, una storia, per la verità non è neanche una storia, ma un momento di vita quotidiana di questa famiglia composta di un vecchio padre e suo figlio, suo figlio che si prende cura di lui […]. [14]

    Ciò che si lesse e vide Sul concetto di volto nel Figlio di Dio, indusse in noi la convinzione che il regista Castellucci non sapeva niente di preciso dell’azione che inscenò nello spettacolo, difatti il genio cesenate ammise apertamente che la sua performance non è una forma chiusa, tant’è vero che la seconda sera sarà differente dalla prima, perché al contrario ci sono occasioni per me di provare delle cose, [15] come a indicare che partorita la geniale ideuzza : Un vecchio padre e suo figlio che si prende cura di lui, avrebbe proceduto per tentativi ed errori, aggiustando di sera in sera misura e tiro, affinché il mattone andasse a segno, e facendosi nondimeno pagare per i propri esperimenti, a guisa del peggiore teatro sperimentale, che usa il palco come campo di prove.

    E dei semi drammatici dell’azione fece mostra di non saperne alcunché, non solo perché dallo spettacolo si arguiva che il regista non avesse alcuna esperienza diretta di cosiffatte situazioni di un figlio che cura il padre, ma diede prova di non essersi neppure coscienziosamente documentato su ciò che si agita e fermenta negli animi degli attori di queste spinose e diversificate vicende in cui dei vecchi sofferenti, malati, invalidi, e rinchiusi tra pareti domestiche, sono presi in carico da chi in vario modo si cura di loro. [16]

    Prima di morire, mio padre trascorse ammalato gli ultimi dieci anni, e dopo il secondo ictus, non poté più da solo alzarsi dal letto, rimanendovi perciò allettato per circa sei anni.

    Benché abbia assistito mio padre per lunghi periodi durante la sua malattia, non ho però scritto quasi nulla in merito alle esperienze vissute con lui, tranne qualche nota, tra cui quella inviata, guarda caso, proprio a Castellucci, come risposta a una asserzione del cesenate:

    "Ho rimesso da parte il libro che stavo leggendo. Dico rimesso, perché anche un’oretta fa ho fatto la stessa cosa per mettere a letto mio padre. «I vecchi vanno curati», dizione impersonale [ del Castellucci]. Per me invece suona: «I vecchi li dobbiamo curare», siffatta dizione implica la partecipazione diretta… Non è un invito a… ma un impegno a… Così, messo a letto mio padre - e non il ‘babbo’ - ho dovuto subito dopo ventilare la cucina e il corridoio, perché saturi di pulviscolo di peperoncino che mio fratello aveva appena finito di macinare. E sebbene l’aria fosse fredda, ho spalancato finestre e balconi. Prima, però, è stato tutti un rincorrersi di starnuti dai toni e accenti più vari: e sembravano accordati come per una composizione da camera. Solo mio padre, stranamente, non starnutiva; chissà, forse la malattia!" [17]

    Con questo non voglio alludere che il Castellucci abbia mutuato da me la sua ideuzza, no, ma che a differenza di lui, ho diretta e lunga esperienza di figlio che si prese cura del padre, quindi potrei dire cose sull’argomento con cognizione di causa, ciò nonostante non lo farò, limitandomi a criticare l’azione, o meglio la «pezzenteria culturale» del cesenate.

    Iniziamo quindi osservando l’arredo di scena, e riportando le descrizioni che ne diedero sulla stampa i critici teatrali:

    a) "[…] immagine di umana sofferenza tra i rari mobili bianchi da interno casalingo […]." [18]

    b) "[…] troviamo la ricostruzione di un interno di meticoloso realismo, sia pure sospeso nel vuoto della sala. Un letto da un lato, dal lato opposto i divani ad angolo di fronte al piatto schermo televisivo. Tutto di un bianco assoluto, immacolato […]." [19]

    c) "[…] quello che si vede è uno di quei perfetti saloni arredati con il tipico minimalismo del design contemporaneo […], il bianco domina. […] è impassibile sul divano bianchissimo […]." [20]

    d) "Poi c’è il resto della scenografia: è tutto un insieme di acciaio, vetro e bianco. Letto bianco, parete bianca. Tutto pulito, lucido e immacolato." [21]

    e) "[…] la restante scenografia bianca asettica […] Un televisore, un divano, un letto, rigorosamente bianchi […]." [22]

    f) "La scena viene definita minimalista: tutta in bianco […] in accappatoio bianco sul divano […]." [23]

    g) "[…] il pavimento bianco, un letto bianco, un fastidioso ordine che sottolinea l’asetticità di quel luogo candidamente incontaminato. E l’uomo anziano è già lì, seduto su un divano bianco […]." [24]

    Nelle recensioni succitate, nondimeno nessuno dei critici si chiese del perché il regista Castellucci avesse concepito una scena in cui l’ambiente borghese ikea riluceva tutto di un bianco immacolato.

    Non poteva forse scegliere un colore diverso, marrone, per esempio?

    No, un colore scuro era escluso, perché altrimenti tutto l’ effettismo della merda che cola, insudicia, macchia e imbratta il divano bianco, l’ immacolato pavimento, il candido accappatoio, non avrebbe potuto certo ferire gli occhi degli spettatori creativi, la merda sul bianco invece sì, conficcando in tal modo nei loro sguardi, già attivati dalla gigantografia del volto di Cristo, posto alle spalle della laica via crucis, i semi adatti a quel gioco ermeneutico che Franco Cordelli intuitivamente definì orgia interpretativa, che si scatena ogniqualvolta si pone innanzi a delle persone un’appariscente scatola in sostanza vuota ma addobbata però con figure quotidiane, riconoscibili e allettanti, le quali, ancorché inscritte in una simbologia stereotipata e logora, sono nondimeno in grado di attivare ancora quel giochino esegetico in cui ognuno, ad libitum, attribuisce a questa o a quella figura il senso che più gli aggrada, in base alla propria cultura, sensibilità, credenza, opportunità, ecc., in breve, l’artefice, avvalendosi del proprio nome e della propria posizione di potere, indusse gli spettatori creativi a crogiolarsi in un piacevole inganno.

    Ciò nonostante, l’orgia interpretativa toccò con la merda accenti sublimi:

    h) "[…] vecchio malato, in preda a crisi di dissenteria […] nel mare

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