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I pittori maledetti
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E-book770 pagine11 ore

I pittori maledetti

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Info su questo ebook

Da Michelangelo a Van Gogh, da Caravaggio a Edvard Munch, da Frida Kahlo a Jackson Pollock: gli artisti folli, psicotici e infelici che hanno cambiato la storia 

È possibile raccontare la storia dell’arte attraverso gli occhi dei folli?

C’è l’artista geniale che ha commesso azioni gravi durante la propria vita macchiandosi di sanguinosi delitti; c’è quello di cui si conosce poco a livello biografico ma che ha lasciato opere incredibili caratterizzate da una sorta di follia onirica; c’è chi si è affidato all’uso di alcol e sostanze stupefacenti per creare la propria arte; chi ha subito stupro e ha dipinto la propria rabbia repressa; quello che è finito in manicomio; quello accusato dopo la morte di essere un assassino e di aver inserito nei quadri dettagli dei suoi crimini. Le biografie di tutti gli artisti che hanno mostrato il loro estro in comportamenti eccessivi o fuori dagli schemi raccontano l’arte da un punto di vista diverso, meno “ordinario”. Una storia dell’arte, dunque, presentata attraverso il filtro distorto della follia intesa in senso ampio. Pazzia sì, ma anche irrequietezza, disagio psichico e sociale, ribellione al sistema. Sono forse questi gli elementi indispensabili per fare di un artista un genio?

I ritratti degli uomini e delle donne che hanno unito un grande talento a una vita sregolata o fuori dagli schemi

Tra i grandi artisti presenti nel libro:

• Hieronymus Bosch (1453-1516)
• Michelangelo Buonarroti (1475-1564)
• Michelangelo Merisi detto il Caravaggio (1571-1610)
• Artemisia Gentileschi (1593-1653)
• Francisco Goya (1746-1828)
• Claude Monet (1840-1926)
• Vincent van Gogh (1853-1890)
• Henri de Toulouse-Lautrec (1864-1901)
• Edvard Munch (1863-1944)
• Egon Schiele (1890-1918)
• Mark Rothko (1903-1970)
• Frida Kahlo (1907-1954)
• Francis Bacon (1909-1992)
• Jackson Pollock (1912-1956)
• Vivian Maier (1926-2009)
I pittori maledetti
Nato a Roma nel 1980, è scrittore e divulgatore. Ha scritto C’era una volta. Riti, miti e vicende storiche che hanno ispirato le fiabe e le favole di tutto il mondo; Pionieri degli oceani. Viaggi intorno al mondo dall’alba dell’uomo a Cristoforo Colombo; Behind the Museum. La vita segreta dei musei. Ospite di diverse trasmissioni televisive, ha condotto per due stagioni il programma online Terra Incognita ed è stato inviato della trasmissione Nero Toscana. La Newton Compton ha pubblicato Le grandi dinastie che hanno cambiato l’Italia e I pittori maledetti.
LinguaItaliano
Data di uscita27 gen 2021
ISBN9788822753656
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    Anteprima del libro

    I pittori maledetti - Alessandro Moriccioni

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    742

    Prima edizione ebook: febbraio 2021

    © 2021 Newton Compton editori s.r.l.

    ISBN 978-88-227-5365-6

    www.newtoncompton.com

    Edizione elettronica a cura di Corpotre, Roma

    Alessandro Moriccioni

    I pittori maledetti

    Da Michelangelo a Van Gogh, da Caravaggio

    a Edvard Munch, da Frida Kahlo a Jackson Pollock:

    gli artisti folli, psicotici e infelici

    che hanno cambiato la storia

    Prefazione di Giovanni Giorgini

    marchio.tif
    Newton Compton editori

    Indice

    Introduzione

    Nota dell’autore

    Quando nacque l’artista

    Filippo Brunelleschi, l’uomo della cupola (1377-1446)

    Il Rinascimento dell’arte

    Hieronymus Bosch, il pittore dei mostri (1450 ca-1516)

    Michelangelo Buonarroti, il genio che era convinto di essere povero (1475-1564)

    Una crisi nell’arte

    Benvenuto Cellini, l’orafo assassino (1500-1571)

    Michelangelo Merisi il Caravaggio, l’arte della violenza (1571-1610)

    Manierismo, barocco e classicismo

    Artemisia Gentileschi, il coraggio di essere donna (1593-1653 ca.)

    La lunga cavalcata dell’arte

    Francisco Goya, il pittore delle figure nere (1746-1828)

    William Blake, poeta e pittore mistico (1757-1827)

    La liberazione dell’arte

    Richard Dadd, l’assassino folle che dipingeva le fate (1817-1886)

    Claude Monet, l’artista impazzito per le ninfee (1840-1926)

    Antoni Gaudí, un pazzo o un genio? (1852-1926)

    Vincent van Gogh, l’artista che divenne un’icona (1853-1890)

    Walter Sickert, pittore o serial killer? (1860-1942)

    Edvard Munch, un genio ossessionato dalla morte (1863-1944)

    Henri de Toulouse-Lautrec, il simpatico ubriacone (1864-1901)

    Camille Claudel, l’amante sfortunata (1864-1943)

    Egon Schiele, il pittore della disperazione umana (1890-1918)

    L’arte tra le due guerre

    Amedeo Modigliani, l’aristocratico senza portafoglio (1884-1920)

    Mark Rothko, il pittore insoddisfatto (1903-1970)

    Arshile Gorky, l’artista che non si chiamava Arshile e nemmeno Gorky (1904-1948)

    Frida Kahlo, la pittrice malata (1907-1954)

    Il secondo Novecento

    Antonio Ligabue, il folle genio del Po (1899-1965)

    Francis Bacon, l’artista che distrusse le apparenze (1909-1992)

    Jackson Pollock, lo sgocciolatore alcolizzato (1912-1956)

    Vivian Maier, il genio segreto (1926-2009)

    Jean-Michel Basquiat, genio e sregolatezza (1960-1988)

    Conclusione

    Bibliografia essenziale

    Ringraziamenti

    Ai miei genitori,

    perché con il loro amore

    hanno saputo immaginare l’opera più bella:

    la nostra famiglia.

    Introduzione

    Questo non è un libro di storia dell’arte, né di critica artistica. Esistono, infatti, moltissimi testi eccellenti ai quali riferirsi se si necessita di una carrellata competente e puntuale sull’argomento. Quello che state sfogliando è più che altro un punto di vista, un tentativo di scoprire una porzione di quel mondo fatto di grandi geni, di uomini e donne, che hanno donato sé stessi alla creazione del bello.

    Se ci pensate, dietro gli infiniti quadri, le grandiose sculture e le costruzioni più spettacolari ed eleganti vi sono altrettante storie. Storie di persone che non sempre hanno vissuto vite serene e gioiose; individui senza dubbio talentuosi ma infelici, violenti, depressi, egocentrici o semplicemente sfortunati. È tra questi sventurati che ho voluto porre l’attenzione del lettore, cercando di raccontare la storia dell’arte attraverso le loro vicende personali. Qualcuno li definisce artisti maledetti ma, secondo la mia opinione, si tratta di un appellativo un po’ riduttivo. Di certo nessuno di loro visse una vita banale e ordinaria: furono tutti uomini e donne straordinari, indipendentemente dalla loro condotta e dai loro trascorsi.

    Per raccontare le loro vite, mi sono affidato a un numero ristretto di opere, quelle più note, rappresentative o, in molti casi, a quelle che più mi hanno colpito. Ho narrato tali meraviglie con l’occhio del curioso senza pretese critiche di alcun genere, ma cercando di indurvi a vedere e sentire le opere come se poteste entrarvi, come se vi fosse possibile parlarci. Perché ogni quadro, ogni scultura, ogni cupola, chiesa o palazzo può dirci tanto di sé e di chi l’ha realizzato. Capiterà, qualche volta durante la lettura, che troviate, ove non espressamente indicato in nota o nel testo, un mio accostamento o una mia sensazione personale. Se non sarete d’accordo con ciò che affermo non importa, sarà giusto così dal momento che è l’arte stessa a decidere cosa dirvi, quale messaggio trasmettervi e potrebbe benissimo essere diverso dal mio. I quadri, le sculture e ogni altra forma di espressione artistica parlano all’osservatore con parole differenti. Non è l’artista a farlo, anche se mette sé stesso nell’opera, ma è l’opera in quanto tale a narrarci la sua essenza. L’artista è il medium, il tramite.

    Lasciate che vi racconti brevemente una storia cinese che, secondo la mia interpretazione, sottolinea quanto ho appena affermato. Un giorno un imperatore decise di indire un concorso per assegnare il titolo di artista più capace del suo regno. Era un evento epocale: qualunque Maestro avrebbe potuto dimostrare di essere il migliore e rendere il proprio nome immortale. Ovviamente alla gara parteciparono in tanti, anche un tipo strano che aveva avuto l’ardire di chiedere al sovrano di concedergli un anno per realizzare il suo capolavoro. Passarono dunque 365 giorni e, quando l’opera fu completata, il pittore la mostrò all’imperatore. Questi ne rimase estasiato: l’intera parete di una stanza era stata trasformata in un paesaggio incredibilmente realistico, con alberi a perdita d’occhio e montagne che si stagliavano fiere all’orizzonte. Il risultato era così incredibilmente vivo che all’imperatore parve di sentire il profumo del bosco. Il sovrano, poi, notò un sentiero che si inoltrava nella foresta e chiese all’artista, chiaramente vincitore della competizione, dove conducesse. Scrollando le spalle, il pittore affermò con grande sincerità di non conoscere la destinazione, ma lui e l’imperatore avrebbero potuto scoprirla insieme. Allora, i due si presero per mano, entrarono nel quadro e s’inerpicarono per la stradina sparendo alla vista della corte che li osservava. Non tornarono mai più¹.

    Dove finiremo entrando nei meandri del bello non so dirvelo, ma andremo lontano, questo è sicuro.

    Quasi tutti i nomi degli artisti selezionati per questo viaggio vi saranno certamente noti. Va da sé che questa raccolta di vite non è che la punta del proverbiale iceberg e che non vi è alcuna pretesa di completezza da parte mia. L’elenco potrebbe essere molto, molto più lungo. Un giorno non molto lontano mi piacerebbe che tra questi fosse annoverato un artista maledetto che ho personalmente conosciuto, con cui sono cresciuto e che non è qui a godersi il successo che avrebbe meritato per il genio che era. Forse questo libro mostra che quel giorno si sta avvicinando.

    Un’ultima raccomandazione mi sento di farvi: il viaggio che state per intraprendere è un invito a uscire, a guardare con i vostri occhi i tanti capolavori che ho descritto, seppure spesso, vista la situazione attuale, ho strizzato l’occhio a internet. In un tempo in cui ogni cosa è a distanza, dal lavoro alla didattica, dalle conferenze ai musei, vorrei indurvi ad approfittare dell’inevitabile rinascita per avvicinarvi nuovamente al mondo che pian piano stiamo dimenticando e godere della sua bellezza. Perché io la vedo come Fëdor Dostoevskij che ha scritto: «La bellezza salverà il mondo». Anche se in nome della bellezza sono state compiute le azioni più esecrabili.

    1 Meera Hashimoto, Il risveglio dell’arte, Feltrinelli, Milano 2008, pp. 233-234.

    Nota dell’autore

    Il 2020 è stato un anno drammatico. Rinchiusi in casa, mentre un virus invisibile si godeva città deserte spadroneggiando e uccidendo, è stata dura per tutti. Il covid-19 ha portato via madri, padri, figli, amici e parenti a molti di noi e la lotta di quanti lo hanno affrontato da malati o da medici è stata estenuante. Al momento in cui scrivo si assiste alla seconda ondata mentre voi che leggete sapete già come è andata a finire. Ma il 2020 è stato una mannaia anche per quanti hanno dedicato la loro vita all’arte, che sia per il covid o per altre cause. In quest’anno funesto ci hanno lasciato l’influente storico dell’arte Maurizio Calvesi; il genio del design Enzo Mari; sua moglie, l’immensa critica d’arte Lea Vergine; il mitico divulgatore televisivo Philippe Daverio e il critico Germano Celant. E la lista non è nemmeno completa. Insomma, una vera ecatombe. Va da sé che il piccolo racconto che avete tra le mani è dedicato anche a questi interpreti dell’arte di cui sentiremo per sempre una terribile mancanza.

    Quando nacque l’artista

    Ernst Gombrich, nel suo intramontabile La storia dell’arte, afferma che non esiste una cosa chiamata arte ma solo artisti che la creano, e che non esiste un’arte con la A maiuscola come generalmente siamo abituati a credere. Analisi, questa, più che lucida e veritiera. L’arte è un concetto molto complesso che ha visto mutare i suoi canoni molte volte nel corso della storia finendo per avere significati diversi per ogni epoca.

    Tuttavia l’arte, intesa come espressione intima dell’essere umano, è sempre esistita. Praticata da tempo immemore per motivi diversi, ha accompagnato l’uomo lungo il corso di quasi tutta la sua esistenza. Fino a oggi.

    L’uomo ha sempre realizzato opere artistiche per sé stesso o per altri uomini, spesso con fini differenti dalla mera decorazione, pensate ad esempio alle pitture rupestri nelle caverne di Lescaux. Perché incunearsi in esse per realizzare la Cappella Sistina della preistoria se poi ben pochi l’avrebbero vista? Questo genere di arte aveva evidentemente uno scopo diverso, con tutta probabilità si trattava di rappresentazioni propiziatorie per la caccia o di immagini dal valore sciamanico.

    Chiaramente nessuno ha la più pallida idea di come, quando e per quale motivo sia nata l’arte. Lescaux è solo uno dei tanti fulgidi esempi di arte parietale primordiale. Tuttavia, lo scrive sempre Gombrich, non è da qui che inizia la tradizione artistica.

    Tale tradizione ha le sue origini in Egitto perché come specifica lo stesso Gombrich:

    Non c’è una tradizione diretta che unisca queste remote origini ai nostri giorni, ma c’è una tradizione diretta, tramandata dal maestro all’allievo e dall’allievo all’ammiratore o al copista, che ricollega l’arte dei nostri giorni, qualsiasi casa o cartellone pubblicitario dei nostri tempi, all’arte fiorita nella valle del Nilo circa cinquemila anni fa. […] I maestri greci andarono alla scuola degli egizi, e noi tutti siamo allievi dei greci.²

    Quindi è sicuramente rintracciabile una sorta di continuità tra le scuole artistiche e le forme d’arte attraverso i secoli, dalla Terra dei Faraoni al Medioevo e da lì all’età moderna con tutte le tecnologie annesse.

    Diversa è la genesi dell’artista in quanto tale. Ovvero di un individuo capace di fissare il suo nome nella storia e di renderlo immortale attraverso le proprie realizzazioni.

    L’arte italiana del xiii secolo era ancorata all’Oriente bizantino, al quale guardava come esempio artistico. I meravigliosi ma statici mosaici che decoravano le chiese in Italia non si differenziavano granché dai modelli di Costantinopoli. Soprattutto in pittura, questi esempi funsero inizialmente da blocco, impedendo qualsiasi tipo di innovazione. In scultura, invece, le cose si stavano già muovendo, la plasticità e il realismo delle opere guardavano al gotico imperante in Nord Europa e presto tutto questo fermento avrebbe travolto anche i pittori. Questi ultimi ci misero un po’ a sganciarsi dal bizantinismo ma quando lo fecero un nuovo capitolo della storia dell’arte occidentale poté essere finalmente scritto. Tantopiù che la rigida arte di Costantinopoli aveva conservato dentro di sé tutte le scoperte dei pittori greci dell’antichità permettendo loro di sopravvivere all’appiattimento medievale.

    A rompere gli indugi fu Giotto di Bondone (1267 ca-1337) che per primo portò una ventata di novità nel suo campo. Giotto realizzava affreschi e tra il 1302 e il 1305 ne realizzò alcuni dedicati alle vite della Vergine Maria e del Cristo in una chiesa di Padova. Come si faceva nelle cattedrali gotiche, Giotto raffigurò sotto gli affreschi di Padova una serie di personaggi che impersonano vizi e virtù. Nell’esempio riportato da Gombrich, quello della Fede, si nota benissimo la rottura giottesca con le convenzioni imperanti. Se osserviamo la rappresentazione della suddetta virtù, ci accorgiamo che non stiamo guardando una figura in 2D, ma la trasposizione di una statua a tutto tondo inserita nel dipinto. In Giotto, la convergenza tra la tradizione gotica e le conoscenze sopite in quella bizantina dà il la a una serie di rivoluzioni partendo dalla scoperta che su una superficie piana era possibile creare una profondità, anche se illusoria.

    Inoltre sempre Giotto si mise in testa che le figure rappresentate negli affreschi dovevano avere una loro drammaticità e compiere gesti ben precisi nella scena che dipingeva. Questo per creare la sensazione che la storia biblica narrata si svolgesse davanti agli occhi stessi dell’osservatore. Diede, per così dire, un’anima ai suoi personaggi trasformando la pittura nel vero mezzo espressivo della parola sacra e non più nel suo «surrogato»³.

    È in questi gesti tecnici che nasce il mito di Giotto.

    La fama di Giotto volò fino ai più lontani Paesi. La gente di Firenze era orgogliosa di lui, si interessava della sua vita e raccontava aneddoti sul suo ingegno e la sua abilità. Anche questo è un fatto piuttosto nuovo: nulla di simile era mai accaduto prima. Naturalmente c’erano stati maestri che avevano goduto la stima generale, raccomandati da monastero a monastero o da vescovo a vescovo. Ma di solito non si riteneva necessario conservarne i nomi alla posterità. Erano considerati come da noi un bravo ebanista o un bravo sarto. Agli stessi artisti non interessava troppo conquistare fama o notorietà, assai spesso non firmavano nemmeno la loro opera. Non conosciamo i nomi dei maestri ai quali si debbono le sculture di Chartres o di Strasburgo o di Naumburg. Erano senza dubbio apprezzati al tempo loro, ma riversavano ogni onore sulla cattedrale per cui lavoravano. Anche per questo verso, il fiorentino Giotto inizia un capitolo completamente nuovo nella storia dell’arte che da lui in poi, dapprima in Italia e poi negli altri Paesi, è la storia dei grandi artisti.

    Con un gesto di rottura simile, Filippo Brunelleschi darà inizio al Rinascimento in architettura. Come scrive André Chastel nel capitolo L’Artista, contenuto nel volume L’uomo del Rinascimento a cura di Eugenio Garin, il termine artista nel Rinascimento è inesistente. Inutile cercarlo tra gli scritti di Leonardo e persino il Vasari, nelle Vite, scrisse sui cosiddetti «artefici del disegno» quanti cioè «praticavano le arti visive»⁵.

    Gli artisti, in quel particolare frangente storico che sta per riversarsi nel Rinascimento, sono ancora degli artefici, degli artigiani che lavorano nelle nelle botteghe proprie o altrui. Sono proprio le botteghe il punto focale dello sviluppo di un’arte più individualista. Le botteghe sono ovunque nel Quattrocento, lì la clientela si dirige se ha bisogno tanto di mobili quanto di armi o di altra oggettistica. L’idea di maestro d’arte era completamente diversa dalla nostra, nelle botteghe si produceva di tutto, e le une accanto alle altre si completavano: laddove ad esempio a un quadro servisse una cornice c’erano sempre un falegname per montarne una oppure un orafo per impreziosirla. Questi artigiani vivevano in condizioni modeste producendo quanto necessitava al fabbisogno dei loro clienti. Facevano ovviamente parte di una corporazione ed erano tenuti a rispettare una serie di regole, di commesse, di condizioni e di scadenze. Erano nulla più che operai in un laboratorio. «L’artista isolato che lavora per sé nella solitudine del proprio studio, non esiste»⁶.

    L’arte […] è un mestiere, l’artista non si distingue dall’operaio e si sottopone a un lungo apprendistato: da discepolo a maestro ce n’è di strada. Il pittore Cennino Cennini, quasi ottuagenario e imprigionato per debiti alle Stinche, occupa i suoi ozi componendo Il libro dell’arte o trattato della pittura, in cui riversa tutta la sua esperienza (1437). Fin dalla prima gioventù l’allievo deve mettersi a servizio nella bottega di un maestro, il quale gli insegna per un anno l’arte di «disegnare in tavoletta», poi di scegliere i colori, cuocere la colla, mescolare le sostanze, preparare i pannelli, lucidarli – e questo per sei anni. Altri sei anni, compresi i giorni festivi, sono dedicati a conoscere la diversità dei colori […], a fare drappeggi dorati, ad affrescare e a imparare una serie di segreti del mestiere […]. Questa è una trafila che la maggioranza dei grandi artisti fiorentini ha seguito […].

    Tutti gli artigiani facevano lo stesso identico percorso. Entravano in bottega come apprendisti, si facevano le ossa assistendo il proprio maestro nella realizzazione delle opere commissionate alla bottega, poi, una volta cresciuti, potevano andare da soli e magari aprire un proprio laboratorio ove altri si formavano e via dicendo. Accadeva che qualcuno iniziasse a godere di una certa importanza nel proprio settore, ma non sempre significava crescere a livello sociale. Dipingere, scolpire, oppure progettare un edificio erano dei semplici compiti da operaio specializzato. Persino i grandi artisti che tutti conosciamo, come Michelangelo e Raffaello, si formarono in bottega e poi ne aprirono una propria. Tanto che molte delle loro opere, in cui campeggia la loro firma autografa, sono in realtà realizzate da squadre di aiutanti⁸. Un po’ per l’impossibilità di gestire fisicamente le tante commesse, un po’ perché la scuola si faceva in questo modo, il maestro si occupava dei dettagli importanti, l’allievo di quelli meno rilevanti.

    Esistevano regole e obblighi, abbiamo detto, ma non sempre venivano rispettati. Alla serietà e precisione di molte botteghe e di tanti maestri, si opponevano casi di artisti ritardatari o inaffidabili. E iniziarono pian piano a emergere caratteri indipendenti, spesso addirittura scusati per la loro indolenza, esclusivamente perché la loro arte stupiva, soprattutto quando rompeva gli schemi del passato. Simili concessioni oltralpe non erano lontanamente tollerate.

    Cambia anche qualcos’altro. L’artigiano comincia a essere pagato in monete d’oro e a quel punto la considerazione sociale è a una svolta. Si racconta che una volta il politico Piero Soderini, stanco dei ritardi nelle consegne di Leonardo, si sia permesso di pagarlo in quattrini. Leo non la prese affatto bene mandandogli a dire che i soldi poteva anche tenerseli, perché lui non era un pittore da quattrini. I quattrini non erano certo monete d’oro!

    Ad un certo punto, questo artifex, l’artista che pian piano sta formando una sua propria identità sociale, diviene un più complesso concentrato di competenze. Basti pensare alla mole di abilità vantate dal buon Leonardo quando presenta il proprio curriculum a Ludovico il Moro.

    E, tra le tante novità, entra nella hit parade dell’artista anche la musica. Come scrive André Chastel, «l’unità delle arti esisteva nella realtà»⁹.

    A questa unità delle arti, che ha un suono piuttosto nobile, si contrappone una realtà fatta di geni sì, ma anche di fatti di cronaca come delitti, risse e scandali vari. C’era una specie di sottobosco sociale fatto di artisti irrequieti e poco inclini alla disciplina. Nelle botteghe stesse ebbero origine gruppi di artisti e club dediti non solo a conversazioni colte ma anche e soprattutto a feste di vario genere.

    Persino il modo di vestire acquisisce un suo valore. L’artista e la sua genialità passano anche attraverso l’abito. Leonardo, ad esempio, esalta la figura del pittore rispetto a quella dello scultore, proprio perché il pittore se ne sta bello elegante davanti alla tela, mentre lo scultore ha sempre l’aspetto del panettiere imbiancato di farina¹⁰. Questo punto di vista era chiaramente generico, anche perché alla fine a decretare la posizione sociale di un qualsiasi artista era più che altro il successo finanziario.

    Nel 1439 nasceva, poi, l’accademia neoplatonica di Cosimo de’ Medici, mentre nel 1563 un altro Cosimo de’ Medici, spinto dal Vasari, fondava l’accademia delle arti di Firenze. Queste accademie sdoganano, se così si può dire, le varie personalità degli artisti, la società si apre ai loro caratteri e in una moltitudine di produzioni artistiche si moltiplicano anche i tipi particolari: è a questo punto che «l’artista è diventato un personaggio culturale»¹¹.

    Se nella vostra testa si sta facendo strada l’idea dell’artista che lavora per sé stesso concentrato su opere che egli vuole realizzare, siete fuori strada. L’artista continua a lavorare su opere commissionate dai suoi clienti, dai suoi mecenati e benefattori. Solo nel xix secolo si affaccerà alla storia l’artista moderno, come noi lo conosciamo, che crea un’opera di sua spontanea volontà e poi la vende al miglior offerente.

    Anche l’architettura sfrutta la rivoluzione artistica a cui abbiamo accennato. Prima di Brunelleschi, l’architetto era più che altro un manovale senza molta considerazione. A un certo punto, però, ci fu una sorta di presa di coscienza perché gli architetti iniziarono a rendersi conto che la loro non era un’arte pratica, piuttosto era legata al ragionamento matematico e, in fondo, se si voleva una casa, un palazzo o una chiesa, era all’architetto che per primo ci si doveva rivolgere. Ed ecco che nasce l’architetto scienziato, un po’ artista e un po’ intellettuale.

    Per le motivazioni espresse, non sembra per nulla fuori luogo iniziare a raccontare questa storia dell’arte attraverso le vite di artisti tanto straordinari quanto irrequieti, impetuosi, ossessivi, sfortunati, violenti e disagiati, partendo da Filippo Brunelleschi. Brunelleschi fu proprio una di quelle star di cui si contano le gesta, al pari di tanti altri artisti che lo seguirono, come Leonardo o Michelangelo, e fu artefice, attraverso le sue opere, di quella parte di rivoluzione artistica che fece assurgere l’architettura tra le artes liberales, costituendo uno dei pilastri di quello che chiamiamo Rinascimento. Ancora oggi, anche grazie al racconto che ne fece il Vasari nelle sue Vite, conosciamo il volto pubblico di quest’uomo amato dal popolo e odiato da tanti per il suo comportamento arrogante e guardingo, per la sua quasi assoluta incapacità di lavorare in team con artisti che non riteneva degni della sua grandezza, e per essere uno che di certo non la mandava a dire.

    L’Operazione Cupola, che lo vide impegnato per anni nella realizzazione del Santo Graal dell’architettura, cioè la mastodontica cupola di Santa Maria del Fiore a Firenze, lo ha trasformato in un mito. Ma chi fu davvero Brunelleschi?

    Scopriamolo insieme.

    2 E.H. Gombrich, La storia dell’arte, Phaidon Press Limited, London 2013, p. 51.

    3 Ivi, p. 152.

    4 Ibidem.

    5 André Chastel in Eugenio Garin (a cura di), L’uomo del Rinascimento, Editori Laterza, Roma-Bari 1988, p. 239.

    6 Ivi, p. 241.

    7 Jean Lucas-Dubreton, La vita quotidiana a Firenze ai tempi dei Medici,

    bur

    , Milano 2017, pp. 297-298.

    8 André Chastel, op. cit., p. 245.

    9 Ivi, p. 248.

    10 Ivi, p. 251.

    11 Ivi, p. 252.

    Filippo Brunelleschi, l’uomo della cupola (1377-1446)

    Per secoli, la sua tomba era stata dimenticata. Fu riscoperta da un team di archeologi nel 1972, oltre cinquecento anni dopo la sua morte, durante una campagna di scavi nella grande cattedrale. Diversamente da quanto si potrebbe credere, quella di Filippo Brunelleschi non è una tomba sontuosa e appariscente. Il giaciglio delle sue ossa è coperto da una semplice lastra di marmo con su scritto Corpus Magni Ingenii Viri Philippi Brunelleschi Fiorentini, ovvero Qui giace il corpo del grande uomo di ingegno Filippo Brunelleschi e non si trovava nella collocazione prevista originariamente. Per forza era stata dimenticata! Qualcuno a suo tempo aveva proposto di decorarla un po’ con qualcuna delle sue geniali invenzioni, ma la cosa non ebbe seguito¹².

    Così la ebbe vinta chi non lo sopportava. Brunelleschi ebbe sì l’onore di riposare in Santa Maria del Fiore, il Duomo di Firenze, ove aveva eretto la più incredibile delle meraviglie architettoniche, la sua grande cupola, ma finì, dopo morto, per passare inosservato.

    Quando la tomba fu riscoperta vi fu grande fermento. L’«Unità» titolò: All’ombra della sua cupola la tomba del Brunelleschi. La scarna iscrizione e la semplicità del luogo fanno pensare a una sistemazione provvisoria durata poi cinque secoli¹³. Alla faccia della provvisorietà! E menomale che Filippo era stato il più grande architetto di Firenze, quello che aveva eretto la cupola impossibile che poi verrà studiata da tutti, Michelangelo compreso. Ma Brunelleschi non si era fatto amare molto in vita e checché ne dica il Vasari («Dolse infinitamente alla patria sua, che lo conobbe e lo stimò molto più morto, che non fece vivo»¹⁴), c’era un sacco di gente che avrebbe voluto che sparisse già da vivo, figuriamoci da morto.

    Esaminando i suoi esigui resti, dal momento che del nostro non era rimasto granché, gli scienziati stabilirono che il Brunelleschi era basso persino per i canoni dell’epoca, ma aveva «una capacità cranica sopra la media»¹⁵. Insomma, era un intelligentone.

    Brunelleschi, tuttavia, non era solo basso. Era anche piuttosto brutto. La sua maschera funeraria, realizzata dal figlio adottivo Buggiano, che si può vedere nel Museo dell’Opera del Duomo, non gli rende assolutamente giustizia. Attorno ai quarant’anni Pippo era già calvo, aveva il naso aquilino, il mento cadente e delle orribili labbra sottili. Non aveva alcuna cura nel vestire e non era certo un fenomeno in igiene personale¹⁶.

    Certo, molti grandi artisti, come Giotto, erano stati brutti prima di lui e molti lo saranno in seguito. Ma il Brunelleschi era pure antipatico.

    Tuttavia è da questo genio che vale la pena di iniziare. Come abbiamo visto, l’artista nasce praticamente con Giotto, uscendo dal suo anonimato di artigiano.

    Gli storici dell’arte considerano, invece, il Brunelleschi, nato come orafo e scultore, il primo architetto dell’era moderna. In effetti, conosciamo pochi nomi di quelli che lo hanno preceduto, anzi della maggior parte non sappiamo proprio nulla. Nel Medioevo a nessuno interessava sapere chi aveva costruito cosa. Anzi, gli architetti erano considerati alla stregua di infimi manovali dei quali non ci si curava. Ma Brunelleschi con le sue mirabili realizzazioni riesce a rompere con questa tradizione e «pone gli architetti in un’ottica diversa e li fa assurgere a un nuovo e più onorevole rango sociale e intellettuale»¹⁷.

    Addirittura a lui saranno dedicati poemi, libri e altro merchandise. Secondo Vasari, che ne parlò nel suo capolavoro Le vite dei più eccellenti pittori, scultori e architetti, Filippo era stato inviato direttamente dal grande capo come lo era stato Gesù Cristo.

    E questo la dice lunga. Per Vasari, che era un suo grandissimo fan, Filippo è una superstar, un mito, un esempio da seguire per tutte le sue virtù. Scrisse infatti di lui:

    Molti sono creati dalla natura piccoli di persona e di fattezze, che hanno l’animo pieno di tanta grandezza e il cuore di sì smisurata terribilità, che se non comincino cose difficili e quasi impossibili, e quelle non rendono finite con maraviglia di chi le vede, mai non hanno requie alla vita loro, e tante cose, quante l’occasione mette nelle mani di questi, per vili e basse che elle si siano, le fanno essi divenire in pregio e altezza. Laonde non si dovrebbe mai torcere il muso, quando s’incontra in persone che in aspetto non hanno quella prima grazia o venustà, che dovrebbe dare la natura nel venire al mondo a chi opera in qualche virtù, perché non è dubbio che sotto le zolle della terra si ascondono le vene dell’oro. E molte volte nasce in questi che sono di sparutissime forme tanta generosità d’animo e tanta sincerità di cuore, che, sendo mescolata la nobiltà con esse, non può sperarsi da loro se non grandissime meraviglie; perciocché e’ si sforzano di abbellire la bruttezza del corpo con la virtù dell’ingegno; come apertamente si vide in Filippo di ser Brunellesco […], che si può dire che e’ ci fu donato dal cielo per dar nuova forma alla architettura, già per centinaia d’anni smarrita […]. E volle il cielo, essendo stata la terra tanti anni senza uno animo egregio ed uno spirito divino, che Filippo lasciasse al mondo di sé la maggiore, la più alta fabbrica e la più bella di tutte l’altre fatte nel tempo de’ moderni e ancora in quello degli antichi […].¹⁸

    Esagerazioni a parte, il Vasari aveva assolutamente ragione.

    Il grande Pippo Brunelleschi

    Tutti lo chiamavano Pippo, ma il suo nome completo era Filippo di Ser Brunellesco Lapi. Nacque a Firenze nel 1377 da un notaio benestante chiamato Ser Brunellesco di Lippo Lapi che certamente avrebbe voluto instradare il figlio verso la propria professione. Ma a Filippo poco importava della carriera notarile, così a quindici anni compiuti, suo padre lo condusse a bottega presso l’orafo Benincasa Lotti. Ma perché da un orafo?

    Come racconta Ross King nel suo La cupola di Brunelleschi, fare questa scelta era d’obbligo in un certo senso perché nessuno più di un orafo avrebbe potuto insegnare l’artigianato al giovane Pippo. Tantissimi artisti si formeranno partendo dall’oreficeria e lo stesso Brunelleschi imparò tantissimo da quella esperienza. Facendo il proprio apprendistato presso un orafo, ci si ingegnava a realizzare di tutto. Filippo, poi, era curioso e studiò tutto quanto concerneva la meccanica realizzando, a quanto si dice, un orologio dotato di un congegno che fu forse la prima sveglia della storia. Insomma, sembra che Filippo avesse iniziato col piede giusto la sua ascesa verso la gloria.

    Nel 1398, ancora giovanissimo, Pippo divenne mastro orafo e iniziò a pensare al suo futuro. L’occasione gli venne nientemeno che da una tragedia. Nel 1400 un’epidemia di peste mandò al Creatore così tanti fiorentini che la soluzione fu scomodare l’Altissimo cercando di ingraziarselo con la realizzazione delle nuove porte del battistero ove venivano battezzati tutti i neonati della città. A Dio piacendo, Firenze sarebbe stata risparmiata da altre catastrofi.

    Così, nel 1401, non appena saputo del bando di concorso per le porte, Brunelleschi tornò di corsa a Firenze da Pistoia, dove se l’era svignata per non respirare l’aria brutta e perniciosa che tirava in città.

    È nel contesto di questo concorso che iniziò e finì la carriera di scultore del giovane Brunelleschi. «Le regole erano semplici. A ogni candidato venivano consegnate quattro lastre di bronzo, di circa trentaquattro chili in totale, con l’ordine di eseguire una scena basata su un unico soggetto: il sacrificio di Isacco per mano di Abramo come descritto nella Genesi 22:2-13»¹⁹.

    Insomma, tutto abbastanza chiaro e lineare. Ma la lavorazione del bronzo non era assolutamente semplice all’epoca, era un’operazione lunga e complessa, così a quanti si presentarono al concorso furono concessi trecentosessantacinque giorni per realizzare la formella di prova. Alla fine, tutti i contendenti furono via via eliminati dalla competizione, tranne il Brunelleschi e un tizio di nome Lorenzo Ghiberti che nessuno aveva mai sentito prima. Pippo, convinto che la sua formella meritasse una standing ovation, iniziò ad avere in antipatia il buon Lorenzo che diverrà il suo odiato antagonista praticamente per tutta la vita.

    Le formelle presentate alla commissione da Brunelleschi e Ghiberti non potevano essere più diverse tra loro e furono il risultato di due modi diametralmente opposti di lavorare. Ross King racconta come Ghiberti coinvolgesse chiunque si trovasse a passare davanti alla sua bottega per chiedere un parere. Brunelleschi, invece, lavorava rintanato nel proprio laboratorio senza chiedere alcunché a nessuno, cercando il più possibile di mantenere il segreto sulla sua opera, schermandosi come uno scolaro diligente intento a evitare che il compagno di banco gli copi il compito in classe. Del resto, all’epoca non esisteva il copyright e non ci voleva molto perché qualcuno facesse proprie le idee degli altri. Dunque il suo comportamento da psicopatico con manie di persecuzione era in parte giustificato.

    A quanto pare, le opere dei due artisti piacquero entrambe ai giurati chiamati a valutarle e sembra che la decisione finale sia stata quella di appaiare Pippo a Lorenzo affinché lavorassero assieme. Apriti cielo. Da quel che si sa, Filippo non fu per nulla contento di tale risoluzione e, dal momento che non aveva alcuna intenzione di condividere l’opera con il suo rivale, appese lo scalpello al chiodo abbandonando la competizione.

    La formella di Abramo

    Ma veniamo alla formella con cui Brunelleschi pretese di aver la commessa del battistero tutta per sé. Come era fatta?

    Cominciamo col dire che la formella realizzata da Filippo esiste ancora e può essere osservata nei suoi minimi particolari. Quest’opera incredibilmente realistica, realizzata in bronzo dorato, si trova esposta al Museo del Bargello a Firenze e illustra un passo molto noto della Genesi, quello in cui Dio per mettere alla prova Abramo, gli ordina di immolare suo figlio Isacco. Un giorno Dio appare ad Abramo e gli chiede di caricare Isacco e di spingersi verso un tal monte sul quale desidera che il ragazzo sia sacrificato alla sua gloria. Abramo non batte ciglio e il giorno dopo aver ricevuto questa bella notizia parte col figlio Isacco, un mulo e due servi per la destinazione indicatagli dalla divinità. Giunto nei pressi del monte, senza svelare a nessuno le sue intenzioni, lascia in sosta il mulo e i servi e s’incammina verso il luogo scelto da Dio per l’olocausto. Ma Isacco non è completamente inebetito, capisce al volo che qualcosa non torna. Ci sono la legna e lo spiazzo per officiare il rito, ma manca la pecora da immolare per il sacrificio. Perché?, si domanda il giovane. Ma Abramo, con tutta la calma del mondo, gli risponde che sarà Dio a pensare alla carne. A un certo punto, però, Abramo lega Isacco e lo fa accomodare sull’altare col fuoco acceso. Per fortuna, un angelo ferma il vecchio Abramo che ha già il coltello in mano. Non c’è più bisogno di andare avanti col sacrificio, Dio è contento perché ha capito che Abramo avrebbe fatto qualsiasi cosa per lui e, infatti, gli ha mandato una pecora destinata a esser uccisa al posto del fanciullo.

    Questa è l’esatta scena che il Brunelleschi ha rappresentato come richiesto dal regolamento del concorso per il battistero di Firenze. Ed è una scena che ha letteralmente una potenza biblica. In qualche modo, poi, il racconto della Genesi anticipa il sacrificio di Gesù Cristo inviato da Dio Padre a farsi carne per immolarsi in favore del genere umano.

    Ora, immaginate di essere davanti alla formella del nostro Pippo. Osservate i chiaroscuri accentuati che le figure creano saltando fuori dalla superficie bronzea. La forza che emana è tutta intorno a voi, la sentite e vi pervade. Tutto si traduce in un’unica azione, un’azione che nella realtà durerebbe pochi secondi: quella dell’angelo che blocca il polso di Abramo intento a recidere la gola di suo figlio col coltello.

    Quando si parla di quest’opera si insiste sempre sulla sua drammaticità, perché emerge fortemente dai volti dei soggetti raffigurati e dalle loro pose in una costruzione piramidale in cui tutto, anche ciò che è secondario, partecipa al tragico atto che si sta per compiere.

    Chiudete per un momento gli occhi, poi tornate nuovamente a osservarla. Partite dal basso. I due servi, posti ai lati dell’asino che si trova al centro, stanno apparentemente per i fatti loro. Tuttavia fanno da base alla scena che si svolge alle loro spalle sopra una piccola altura. Al centro della scena stanno il povero Isacco (che se la sta davvero vedendo brutta) e il padre Abramo accecato dalla bramosia di far piacere al suo Signore. Sulla sinistra dell’altare sacrificale c’è un bel pecorone che immaginiamo vada a sostituire l’incredulo Isacco. Nella parte più alta, sempre sulla sinistra, spunta l’angelo che guarda risoluto negli occhi di Abramo, mentre ferma il suo folle gesto di fede. E nei loro sguardi si percepisce tutto il senso dell’opera. Una piccola ma sorprendente opera d’arte inscritta in un’intelaiatura gotica che sembra dirci Dio ti ama!, anche se con fare melodrammatico.

    In effetti, questa formella sembra una bomba a orologeria pronta a esplodere o a trillare come l’orologio sveglia che si diceva Pippo avesse inventato. Per fortuna, interviene l’angelo a smorzare i toni, a disinnescare la situazione esplosiva anche se in silenzio, con la bocca chiusa e senza proferire parola. Almeno nella versione brunellesca perché nella storia biblica l’angelo dirà: «Non mettere le mani addosso al fanciullo e non gli fare alcun male: ora riconosco che tu temi Iddio, perché non mi hai negato il tuo figlio, il tuo unigenito»²⁰.

    Insomma, avete compreso l’enorme energia che Filippo racchiuse in soli 43 centimetri di altezza × 33 di larghezza? Ecco perché era così contrariato di dover condividere la sua vittoria col Ghiberti. Non è che la formella di quest’ultimo, molto diversa, fosse proprio da buttare. Ma Brunelleschi era così irascibile e arrogante che preferì lasciare al suo rivale tutto il lavoro. Un lavoro che tra l’altro Ghiberti si tenne sul groppone per circa ventun anni e che i turisti oggi ammirano con profonda meraviglia.

    Roma caput artis

    Abbandonare la competizione, a ogni modo, non fu tutto quel che fece Filippo. La delusione fu tale e tanta che lasciò perdere per sempre la scultura e se ne andò persino da Firenze per parecchi anni! Destinazione Roma.

    Ma Brunelleschi non era solo. Con lui andò Donatello, che in quanto a caratteraccio era più o meno agli stessi livelli del compagno di viaggio.

    Per alcuni anni, Pippo si guadagnò il pane con la sua attività di orafo, dormendo dove capitava senza minimamente preoccuparsi del futuro. Almeno in apparenza. Infatti, assieme al giovane Donatello, si mise letteralmente a scavare tra le rovine dell’Antica Roma, dissotterrando anche qualche piccolo tesoro. Nel frattempo, egli studiava e ristudiava le vestigia della Città Eterna per carpire i segreti del passato, segreti che, ne era certo, più avanti gli sarebbero stati molto utili.

    Ma davanti a quale città si erano trovati Pippo e Donatello, una volta giunti a Roma? Certamente non alla fastosa leggenda del passato. Come racconta Ross King nel succitato libro, Roma si era spopolata, e in quel momento ci vivevano meno persone che a Firenze. Del milione di individui raggiunti in età imperiale erano rimasti pochi cittadini e tanti fantasmi, tutti in un’area molto ristretta. Roma era una città in disfacimento ove le antiche rovine, che tanto interessavano a Pippo, venivano smembrate e dissacrate in tutti i modi possibili per costruire una città diversa. Seppur spolpata e disossata, restava comunque un luogo affascinante.

    Pippo e Donatello finirono per essere additati come dei cercatori di tesori a causa della loro stramba attività di scavatori e osservatori dell’antico. Ma questo al Brunelleschi stava anche bene per via della sua ossessione di proteggere la sua proprietà intellettuale, tanto che «Riportò su strisce di pergamena una serie di simboli in codice e numeri arabi […]»²¹ che costituivano i suoi studi.

    Filippo, del resto, stava iniziando a capire la matematica che soggiaceva ai vari ordini architettonici, un insieme di regole estremamente precise tese a determinare l’estetica stessa di un qualsiasi edificio, conoscenze che sembravano morte e sepolte con gli antichi romani²². Ma fu, più di tutti, il Pantheon ad affascinarlo. La sua enorme cupola era stata innalzata dagli ingegneri agli ordini dell’imperatore Adriano, dopo che la struttura originale più antica era finita in cenere a causa di un incendio. La cupola, che sovrasta questo ex tempio dedicato per par condicio a tutti gli dèi, fu realizzata in calcestruzzo ed è talmente immensa che nel Medioevo la gente credeva fosse stata messa lì con l’aiuto del diavolo. Ovviamente si tratta di un capolavoro delle maestranze romane e quanto Brunelleschi imparò della sua struttura fu messo da parte per poter essere sfruttato al momento opportuno.

    Verso la cupola

    Quel momento giunse nel 1417 quando, ristabilitosi a Firenze, Filippo seppe che l’Opera del Duomo era alla ricerca di una soluzione per l’enorme cupola di Santa Maria del Fiore. Pippo non aveva grande esperienza dal punto di vista architettonico, teoria a parte. Si era occupato di abbellire la cattedrale di Prato nel 1412; aveva anche ripreso a scolpire rifacendo nel 1410-1415 (o 1420?) il crocifisso di Santa Maria Novella²³ perché, secondo la leggenda, quello di Donatello non gli piaceva; aveva anche inventato nel 1413 la cosiddetta prospettiva lineare che incise profondamente sulle tecniche artistiche di tutto il Rinascimento. Ma una cupola tanto grande e complessa come quella richiesta per Santa Maria del Fiore era tutto un altro paio di maniche.

    In riferimento ai suoi esperimenti di prospettiva, Filippo aveva incantato tutti realizzando «due dipinti dimostrativi (raffiguranti edifici di Firenze), nei quali utilizzò un unico punto di fuga per rappresentare la profondità in pittura»²⁴. Ecco la grande rivoluzione, l’applicazione delle nuove regole alla pittura. Così descrive l’evento King:

    Filippo deve aver osservato degli esempi di antiche prospettive pittoriche durante i suoi viaggi attraverso l’Italia. Ma probabilmente sviluppò le sue regole prospettiche traendole da fonti diverse. Le procedure d’esecuzione dei suoi dipinti – linee di fuga su una superficie piana – le ha potute apprendere dalle tecniche di rilevamento impiegate mentre misurava le rovine romane. […] L’esperimento eseguito da Filippo consisteva in un trucco ottico quasi magico, una pittura a trompe-l’oeil che, nella sua intelligente commistione di vita reale e arte, prefigurava le sperimentazioni sui dispositivi ottici futuri come la camera oscura, i panorama, i diorama e l’arte catottrica.²⁵

    E continua:

    Come soggetto della sua pittura prospettica, Filippo scelse uno dei monumenti più popolari e familiari: il Battistero di San Giovanni. […] Dipinse su un piccolo pannello, in prospettiva perfetta, utilizzando un piano pittorico costruito geometricamente, tutto ciò che era visivamente contenuto nella «cornice» del portale della cattedrale: il Battistero e le vie adiacenti […]. Sostituì la raffigurazione del cielo con un pezzo di argento brunito, uno specchio che avrebbe riflesso in tempo reale le nuvole, gli uccelli e i cambiamenti e l’intensità di luce. Infine, praticò un foro della dimensione di una lenticchia nel punto di fuga del dipinto, punto centrale dell’orizzonte nel quale convergono tutte le rette di fuga.²⁶

    A chi capitò di osservare il lavoro di Brunelleschi in quel particolare momento, sarà sembrato tutto un miracolo. Il pubblico poté provare personalmente la sua nuova invenzione: posizionandosi nel punto esatto scelto da Filippo per il dipinto e girando il pannello con la parte dipinta verso l’esterno, chiunque vedeva la magia attraverso il foro praticato nel punto di fuga. A questo punto, l’osservatore che «Nell’altra mano aveva uno specchio, tenuto alla distanza della lunghezza del braccio, il cui riflesso (al contrario) mostrava l’immagine dipinta del Battistero e della piazza San Giovanni»²⁷ non capiva più se dal foro osservava la realtà o la finzione.

    Con queste premesse, la partecipazione di Pippo al nuovo concorso sembrava preannunciare un sicuro successo. Si presentarono in undici con la speranza di ottenere l’incarico per la costruzione della problematica cupola di Santa Maria del Fiore. E, inoltre, c’erano in palio un sacco di quattrini. Esisteva già un modello dal 1367, andava solo trovato il modo di tirarlo su. In effetti, questa cupola non aveva un andamento circolare (come tutte le cupole normali), ma era ottagonale con la chiusura ogivale. Quindi il solito procedimento costruttivo non sarebbe stato sufficiente.

    Allora Filippo si mise all’opera creando un modello di prova largo oltre due metri e alto quattro, addirittura decorato nella sua parte lignea da altri artisti. Tutti davano per scontato che per costruire la cupola sarebbe stata necessaria un’impalcatura per sostenerne la muratura, ma Filippo andò oltre i metodi tradizionali e «propose di fare a meno della centinatura»²⁸. Fu ovviamente preso per pazzo. Tantopiù che rifiutò di spiegare alla commissione incaricata di valutare la sua idea come diavolo avrebbe fatto a metterla in pratica.

    Nessuno ci capiva niente, ma per qualche motivo l’antipatico Filippo alla fine la spuntò. Si dice che abbia ammaliato tutti con il giochetto dell’uovo fatto stare in piedi su un tavolo, una versione della leggenda dell’uovo di Colombo, ma si tratta solo di una storia. Alla fine però il diavolo come al solito fece la pentola ma non il coperchio. Partecipò al concorso anche un artista poco amato da Pippo, il suo super rivale Lorenzo Ghiberti. Anche questa volta i progetti presi in considerazione alla fine della gara furono i loro due. Incredibile come la sorte burlona avesse nuovamente messo l’uno contro l’altro Brunelleschi e Ghiberti, per buona pace del primo che non poteva vedere il secondo.

    A questo punto cominciarono a piovere le commesse. Filippo fu impegnato sì al completamento del modello per la cupola ma allo stesso tempo si dedicò ad altre opere come la Cappella Barbadori e la Cappella Ridolfi. Era il 1419 e sebbene Pippo non si fosse sposato, pensò bene di cercarsi un erede. Si prese in casa un orfanello chiamato Andrea Cavalcanti con l’intento di farne un piccolo Filippo. La storia se ne ricorderà col nome di Buggiano anche per un episodio spiacevole accaduto anni dopo e di cui parleremo più avanti.

    La situazione col Ghiberti non migliorò. Filippo ricevette l’incarico per la costruzione della cupola in condivisione col suo acerrimo nemico. Stavolta dovette accettare, pensando però che prima o poi se lo sarebbe tolto dalle scatole. Ghiberti, tuttavia, non era solo. A completare il quadretto era Giovanni da Prato, un erudito inadatto al ruolo di architetto, che farà di tutto per screditare Filippo iniziando sin da subito a criticare il progetto che secondo lui non era abbastanza ricco di finestre, per cui ne propose la modifica. Per fortuna nessuno lo stette a sentire.

    L’inizio di un sogno

    Nel 1420 tutto era pronto. La costruzione della grande cupola attendeva da decenni di poter partire e di certo edificarla non sarebbe stata una passeggiata, considerata anche la situazione di tensione tra gli architetti incaricati. Il numero iniziale di tutti gli operai addetti alle varie mansioni si aggirava intorno alle trecento unità e Filippo ne approfittò per imporre le sue regole da Hacienda. Sembra che utilizzasse orologi per scandire il tempo degli operai e che li facesse pranzare mentre erano per aria per evitare perdite di tempo. Nel suo libro, Ross King racconta dei pochi casi in cui dei poveri operai fecero una brutta fine precipitando al suolo. Pagato il funerale, l’Opera del Duomo si ritrovava con la coscienza a posto e tutto riprendeva come se nulla fosse accaduto, mentre alle famiglie di quei disgraziati non spettava alcun risarcimento. Per quanto barbara, all’epoca questa era la prassi, anche se a onor del vero va detto che Pippo si prodigò in ogni modo possibile per rendere sicuro il suo cantiere.

    I grattacapi per Filippo non si fermavano certamente alla sicurezza sul lavoro, nemmeno i pochi e obsoleti macchinari a disposizione dei costruttori erano sufficienti. Ma da genio qual era, Pippo creò dal nulla delle nuove attrezzature che destarono grande meraviglia e convinsero i committenti che forse la cupola sarebbe stata realizzata per davvero. Tra le sue più acclamate invenzioni ci fu certamente l’argano che permise, grazie alla trazione animale e alla possibilità di rigirarlo a piacimento, di innalzare con il minor sforzo e la massima resa blocchi pesanti 770 kg l’uno²⁹. Questo congegno, scaturito dalla sua conoscenza della meccanica, che ogni dieci minuti caricava materiale pesantissimo, permise anche al Brunelleschi di andare a battere cassa all’Opera perché dei soldi messi in palio per il concorso non si era ancora vista neanche l’ombra. E l’Opera lo pagò, lodandolo per la sua invenzione. In più, Pippo si inventò anche una nuova gru, detta il castello, fondamentale per le operazioni in quota. Come scrive King:

    Il castello entrava in azione non appena l’argano aveva sollevato il carico al livello di lavoro desiderato. Installato su una piccola piattaforma in cima alla gru – una delle postazioni più pericolose del cantiere – l’operatore manovrava la vite orizzontale che muoveva il carico lateralmente al di sotto del braccio mobile. Nel frattempo, il contrappeso all’estremità opposta del braccio mobile veniva tirato in modo da controbilanciare il peso opposto, mantenendo la gru in equilibrio. Un braccio orizzontale dell’albero centrale impediva al carico, appeso alla fune, di oscillare […]. Quindi, una volta che il blocco era sopra la sua destinazione finale, il tenditore veniva regolato, e il carico deposto.³⁰

    Del castello, Leonardo da Vinci realizzò un bel disegno che rende bene l’idea del suo funzionamento. Non c’è dubbio alcuno, dunque, che queste invenzioni siano state fondamentali per erigere la più grande cupola in muratura del mondo. Tantopiù che sia l’argano che la gru durarono più dello stesso Filippo, perché furono smantellati ben dopo la sua morte.

    Mentre l’immensa cupola iniziava ad apparire strato per strato, Pippo si dilettava a far vedere i sorci verdi a Ghiberti, con l’intento di farlo estromettere dal cantiere. Insieme a Giovanni da Prato, ovviamente. Man mano che le imprese di Filippo si moltiplicavano e la sua fama cresceva, sembrava che la sua ascesa inarrestabile fosse destinata a eclissare il rivale. Un bel giorno, per mettere Ghiberti seriamente in difficoltà, Brunelleschi finse di essere ammalato e se ne stette diversi giorni a letto proprio durante uno dei tanti momenti cruciali della messa in opera. Quando tornò in cantiere, lo fece presentandosi tutto fasciato nemmeno dovesse morire il giorno dopo. La situazione iniziò a farsi sempre più ridicola perché, dal momento che Filippo non aveva mai condiviso i dettagli del progetto per la cupola, nessuno sapeva dove mettere le mani, tantomeno il povero Ghiberti. Alla fine quest’ultimo si dovette arrabattare, mentre Pippo languiva tra atroci sofferenze e un pacco di risate.

    A un certo punto, Brunelleschi decise che era giunto il momento di tornare al comando, andò a visionare il lavoro del collega e lo fece smantellare. L’Opera lo ricompensò nuovamente dandogli un sacco di soldi, mentre a Ghiberti, poco dopo, chiusero letteralmente i rubinetti sospendendogli lo stipendio. Che Brunelleschi fosse un incallito imbroglione lo sapeva tutta Firenze, da quando, nel 1409, aveva giocato uno scherzo particolarmente elaborato all’ebanista Manetto: grazie alla complicità di un sacco di gente, aveva convinto il poveraccio di non essere più lui e di essersi trasformato in un’altra persona. Arrivò persino a farlo trarre in carcere. Lo scherzo alla Marchese del Grillo era riuscito tanto bene che la vittima umiliata se ne andò per sempre in Ungheria.

    Giovanni da Prato, da parte sua, si lamentò più volte formalmente di quelle che lui riteneva delle scorrettezze da parte di Brunelleschi. Una volta asserì che la cupola avrebbe fatto una fine indecorosa («il monumento verrà deturpato e messo in pericolo»³¹), poiché credeva che Filippo non stesse seguendo le direttive stabilite in sede di progetto. Volò anche qualche insulto quando Giovanni tornò sulla faccenda della luce insufficiente con la proposta di aprire altre finestre sulla cupola. L’Opera ringraziò il buon Giovanni per la consulenza e lo mise gentilmente alla porta.

    Filippo aveva praticamente monopolizzato il cantiere di Santa Maria del Fiore, che virtualmente divenne tutto suo. Si dice che avesse l’abitudine di ispezionare ogni singolo mattone della fabbrica per verificarne le condizioni, ma questo è chiaramente impossibile dal momento che avrebbe dovuto analizzarne oltre quattro milioni. Ma l’aneddoto, seppur inventato, la dice lunga sulla sua influenza.

    Nonostante la preoccupazione per la salute dei suoi operai, che lo spinse a prodigarsi in molti modi al fine di rendere più sicuro il posto di lavoro, Filippo ebbe alcuni grattacapi di tipo, diciamo, sindacale. Nel 1426, dopo il licenziamento di alcuni muratori per questioni di esubero (man mano che la cupola cresceva e si restringeva alla sommità, per la posa dei materiali non era più necessaria la manodopera originaria), i capi muratori si unirono in uno sciopero per richiedere migliori condizioni economiche, anche vista la precarietà occupazionale. Filippo non ci pensò due volte: licenziò tutti gli scioperanti e assunse degli operai lombardi. Di fronte a questa reazione, i suoi ex lavoratori tornarono in cantiere con la coda fra le gambe pregando Brunelleschi di riprenderseli. Filippo, magnanimo, riassunse tutti, riducendo tuttavia la paga. Per lui fu certamente una allegra soluzione.

    La cupola miracolosa

    Vediamo allora insieme questa cupola di cui si dice che non sia «mai stata costruita una volta con una muratura più larga […]»³². Perché è stata speciale l’impresa costruttiva del Brunelleschi?

    Iniziamo subito col dire che qualsiasi architetto avrebbe dovuto lambiccarsi il cervello dal momento che si rendeva necessario trovare una soluzione complessa all’annoso (è proprio il caso di dirlo visto il tempo impiegato) problema di erigere una cupola non circolare, dal momento che il tamburo sottostante che l’avrebbe sorretta è ottagonale. Come fare? Quale fu l’idea geniale di Brunelleschi?

    Il vero colpo di genio di Filippo fu quello di creare una specie di scheletro circolare su cui conformasse la struttura ottagonale della cupola. Vale a dire, la cupola fu costruita in modo da contenere entro lo spessore delle sue due calotte una serie di anelli circolari. La calotta interna del duomo […] è la più spessa delle due, misurando tra i due metri come massimo e uno e mezzo come minimo. Con queste dimensioni era larga abbastanza per incorporare una volta totalmente circolare, spessa a malapena settanta centimetri.³³

    Ecco svelato il trucco! Infatti se vi fermate a guardare la grande cupola dal di fuori vi sembrerà assolutamente ottagonale. I parametri richiesti dal modello del concorso erano stati rispettati in modo molto originale, tipico di Filippo.

    Ma non finisce certamente qui. Pippo sviluppò un sistema di quattro anelli in arenaria per circondare la cupola ogni dieci metri. Aveva anche previsto l’inserimento di catene in ferro sovrapposte a quelle in arenaria affinché il tutto assumesse maggior solidità, tuttavia di queste catene non si sa nulla di più poiché non furono rilevate dalla risonanza magnetica condotta negli anni Settanta del secolo scorso.

    Come osserva Ross King, oltre alle cinture in pietra, Filippo ne inserì un’altra in legno a sette metri d’altezza rispetto alla prima in arenaria. Perché?

    Si pensa, anche grazie a una dichiarazione del suo biografo Antonio di Tuccio Manetti, che l’ultimo anello in legno possa avere una funzione per così dire antisismica, una precauzione contro il vento e i terremoti. Non esistono tuttavia certezze al riguardo.

    Ma vediamo qualche cifra interessante: il diametro della cupola interna raggiunge una larghezza di oltre 42 metri, l’altezza complessiva da terra alla lanterna raggiunge i 115 metri (come un edificio di 30 piani) e il peso della cupola è di circa 37.000 tonnellate.

    Man mano che si eleva, come accade per la cupola del Pantheon che Filippo aveva studiato a Roma, il peso progressivamente diminuisce grazie alla scelta di materiali più leggeri. Come scrive Alberto Angela nel suo libro Meraviglie. Alla scoperta della penisola dei tesori, «[…] ancor più particolare è la tecnica muraria usata dal Brunelleschi che costruisce i primi metri della cupola in pietra per poi disporre i mattoni a spina di pesce, secondo una tecnica usata in oriente ma mai sperimentata a Firenze. Per anni ci si è chiesti quale fosse il segreto dell’equilibrio e della leggerezza di questa costruzione, e la Cupola è ancora al centro degli studi di architetti e storici dell’arte»³⁴.

    In effetti bisogna dire che «la cupola fu costruita senza impiego di centine (struttura in legno o ferro) per sostenere la muratura»³⁵, quindi doveva per forza di cose alleggerirne la struttura!

    Infine, come ciliegina sulla torta, «Brunelleschi ideava […] una lanterna a forma di tempietto circolare, la cui elegante e moderna struttura (alte finestre a arco divise da pilastrini corinzi e contrafforti con raccordo a voluta) fungeva da perno a tutto il sistema, concludendosi in essa il gioco delle masse plastiche e le linee dei robusti costoloni della cupola»³⁶.

    Ora, immaginate di essere uno degli operai di Pippo. La cupola è praticamente terminata, avete trasportato i materiali sino alla sommità grazie agli strumenti ideati dal nostro, ma avete anche attraversato letteralmente la cupola per salire sino in alto. Tuttavia non avete mai incrociato i vostri compagni muratori che scendevano. Come è possibile?

    Filippo progettò in ognuno dei quattro pilastri che sorreggono la cupola una scala interna, cosicché durante la costruzione due rampe potessero essere utilizzate dagli operai per salire e due per scendere. Per questo motivo non vi siete mai incastrati nello spazio angusto che avete percorso più e più volte.

    Ancora oggi è possibile impersonare quell’antico muratore salendo e scendendo all’interno della volta. In tutto dovrete arrampicarvi sui 463 gradini che partono dal pilastro sud-occidentale. Man mano che salite le varie serie di scale, oltre la balconata interna che circonda tutta la base della cupola, guardatevi attorno mentre lo fate perché: «alla destra della scalinata, incurvandosi leggermente verso l’interno, c’è la superficie intonacata della cupola interna, mentre la calotta esterna si sviluppa parallela al di sopra. Tra i due involucri strutturali si aprono una serie di labirintici passaggi, porte e scale irregolari che danno a chi si trova ad attraversarle l’impressione di trovarsi in una litografia di Escher»³⁷. Salendo vi state letteralmente infilando nel regno nascosto della geniale mente di Filippo, solo da qui è possibile comprendere e apprezzare le sue originali tecniche costruttive. Vi imbattete anche nella bellezza di settantadue finestrelle circolari che oltre a mostrarvi uno scampolo del mondo che state lasciando, servono a ventilare la struttura interna contro l’umidità e a proteggerla dalle forti raffiche di vento. Fermatevi un momento ad ascoltare il vento fischiare, poi salite gli ultimi scalini e godetevi il panorama! Siete giunti, infatti, alla base della lanterna, l’aria vi schiaffeggia e il sole vi illumina il viso ma notate ancora un ultimo particolare. Dal momento che la cupola è stata costruita con il quinto acuto³⁸, potete guardare giù verso la piazza e quasi salutare qualcuno mentre l’attraversa, se al contrario non vi va di raggiungere gli angeli, dalla piazza sarete in grado di vedere quasi tutto della cupola, lanterna compresa³⁹.

    Vi sembrerà chiaro (se la vedrete dal vivo ancor di più) quanta sensazione il capolavoro del capomastro deve aver riscosso una volta completata. Persino Michelangelo, dopo averla visitata, ne rimase molto colpito, ammettendo che a Roma avrebbe costruito una cupola altrettanto maestosa pur senza superare quella di Filippo. Ovviamente Michelangelo si riferiva alla futura cupola di San Pietro.

    Alla gloria della sua creazione in Santa Maria del Fiore, tuttavia, il destino contrappose nella vita di Pippo anche qualche amaro insuccesso.

    La maledizione di Filippo

    La vita iniziò a presentare il conto dell’arroganza di Filippo attorno al 1428. I lavori della cupola avanzavano senza problemi e Brunelleschi aveva addirittura ottenuto il primo brevetto della storia per le sue invenzioni, tra cui spiccava il progetto di un’imbarcazione particolare. Nessuno avrebbe potuto copiarla e spacciarla per propria, pena la sua distruzione.

    La barca per il trasporto dei blocchi di marmo era, forse, una specie di grande chiatta tenuta a galla da alcuni barili, ma il suo aspetto non convinceva nessuno. Questa invenzione è nota col nome di Badalone, ma il popolo preferì riferirsi a essa come al Mostro. E questo mostro sgraziato, di cui nessuno a oggi conosce l’esatto profilo, fece una fine indecorosa. Brunelleschi, certo che la sua nuova invenzione avrebbe funzionato al meglio, promise all’Opera che il costo della spedizione del marmo da Pisa si sarebbe dimezzato. Come da programma, egli salpò da Pisa con cento tonnellate di marmo adagiate sul natante, ma le cose non andarono affatto bene. Dalle parti di Empoli il Badalone fece la fine del Titanic (anzi lo precedette) nel suo viaggio inaugurale, colando a picco con tutto il carico. Nonostante i tentativi di recupero messi in atto da Brunelleschi, l’Opera del Duomo non vide mai evaso il suo ordine di cento tonnellate. E quel che è peggio il Mostro si era portato sul fondale i mille fiorini anticipati da Filippo sia per costruire la sua invenzione che per l’acquisto del carico. L’Opera gli chiese allora di rimandarne altre cento tonnellate con metodi più tradizionali (cioè su normali barche), ma Brunelleschi aveva appena gettato in Arno dieci anni di stipendi.

    Il 1430 vide, poi, la partecipazione di Filippo alla guerra contro Lucca, cosa perfettamente normale per un architetto. Dopo essere stata annessa a un gran numero di Stati, Lucca era ora nelle mire di Firenze, che accusava il suo governatore di essere filomilanese. La proposta del nostro per mettere in ginocchio la città non si fece attendere: avrebbe deviato il corso del fiume Serchio lasciando Lucca in mezzo a un

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