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Keep calm e impara a capire l'arte
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Keep calm e impara a capire l'arte
E-book283 pagine3 ore

Keep calm e impara a capire l'arte

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Info su questo ebook

Un manuale divertente, dissacrante e pieno di aneddoti e notizie, per capire l’arte, non sentirsi mai più un pesce fuor d’acqua e fare bella figura in società.

Diciamolo, una buona volta: l’arte contemporanea è un problema. Perché finché si tratta di andare all’ennesima mostra sugli Impressionisti oppure a una rassicurante monografica su Modigliani va tutto liscio. Ma ogni volta che ci convincono ad andare a visitare una mostra di artisti contemporanei le cose si complicano, e di molto! Frasi al neon, orinatoi capovolti, merde d’artista… Ma questa è arte? Vi è mai capitato di entrare in un museo o in una galleria in compagnia di qualcuno che davanti a un dipinto gigantesco a testa in giù, si è messo a fissare la tela come se fosse apparsa la Madonna di Lourdes? E mentre vi guardavate intorno con aria circospetta, pensando che da un momento all’altro sarebbe apparso qualcuno con una grande scala, avrebbe staccato il dipinto, e lo avrebbe messo diritto… Ecco, se vi siete sentiti disarmati o presi in giro di fronte a un pescecane in formaldeide, un aspirapolvere dentro una teca o dei ragazzini impiccati per le vie di Milano, questo libro è per voi.
Alessandra Redaelli
È giornalista, critico d’arte e curatore di eventi di arte contemporanea. Nata a Milano, collabora da diversi anni con il mensile «Arte e Antiquariato». Cura mostre in gallerie private e in spazi pubblici in Italia e all’estero. Si è occupata di manifestazioni fieristiche dedicate all’arte ed è stata anche membro della giuria in diversi contest di arte contemporanea.
LinguaItaliano
Data di uscita15 ott 2015
ISBN9788854187672
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    Anteprima del libro

    Keep calm e impara a capire l'arte - Alessandra Redaelli

    PERCHÉ IL PASSATO NON CI FA PAURA

    A questi artisti il passato non fa paura. Proprio no. Anzi, pescano a man bassa in quello che i loro predecessori hanno costruito e ne fanno la base per una ricerca totalmente nuova. Il che non significa necessariamente distruggere. E non significa affatto rinnegare. Significa fare tesoro, rielaborare e trasformare in qualcosa che abbia senso qui e ora, nel mondo in cui l’artista sta vivendo. Un po’ come la digestione e la rielaborazione del cibo, per intenderci, ma con esiti decisamente più nobili. Ecco allora che si prende una Venere e la si mette di spalle, davanti a un mucchio di stracci, per far sì che l’arte guardi in faccia la vita; oppure la si trasforma in un monumento al coraggio, per esorcizzare la paura delle differenze e della disabilità; o, ancora, se ne fa una bandiera della donna del nuovo millennio, nel bene e nel male. E se invece la scelta cade su un guerriero classico, ecco che il corpo diventa più vero di come ce lo raccontava Skopas, e ci parla di carne e di sangue. O magari il passato è un dipinto del Seicento, da ricreare e distruggere per raccontare disfacimento e morte. O, molto semplicemente, una tela dipinta di un solo colore. La si taglia: zac! Ed ecco spalancato il varco attraverso cui far passare tutta l’arte del futuro.

    Michelangelo Pistoletto

    Venere degli stracci

    1967

    Entrate nella sala e il primo pensiero è: Ecco, lo sapevo: l’Italia sta andando proprio a rotoli se adesso aprono una mostra in un museo come questo e lasciano tutta quell’immondizia lì, in bella vista, perché ci sarà stato il solito scaricabarile su chi doveva occuparsene…. Solo dopo un attimo vi rendete conto che c’è qualche altra cosa che non va: la statua è stata messa di spalle. Che sta facendo? Guardando quella montagna di stracci? Ma allora non sarà che…

    Sì, è proprio così. L’opera è quella: una Venere classica in marmo – no, non è marmo, ma non importa, non è questo il punto: l’apparenza è quella del marmo e quindi la percezione sensoriale rimane identica – che osserva una montagna di stracci. Spiazzante? Un pochino. La nostra testa comincia a mandare messaggi del tipo: Girare immediatamente la statua e fare piazza pulita degli stracci, ma noi li ignoreremo. Perché il fatto che la statua ci dia le spalle, anzi, un bel paio di natiche piene, non è per niente casuale.

    Michelangelo Pistoletto è un affascinante signore con la barba che non ha mai smesso di giocare. E il suo gioco preferito è quello di mescolare arte e vita, arte nobile, preferibilmente, e banale, ovvia quotidianità. Perché? Perché il passato non ci fa paura, e se lo riguardiamo oggi non possiamo pensare di fruirlo nello stesso modo in cui lo facevano i Greci ai tempi di Pericle.

    L’arte è un rettangolo appeso alla parete che pretende di raccontarci il mondo? Ma va’ là! Te lo faccio io un rettangolo che rappresenta il mondo, disse Pistoletto un giorno del 1962. E nacquero così i suoi quadri specchianti: specchi con una figura che, nello sguardo dello spettatore, si sovrappone alla sua stessa immagine.

    Ma torniamo alla Venere. Venere, sì, ma di spalle: ci nega la sua bellezza, ci fa uno sberleffo, ci mostra le terga, ci snobba e piuttosto che mettersi a confronto direttamente con lo spettatore preferisce concentrarsi sugli stracci, che sono vita, mondo, ricordo, carne e sangue. Lei è bella, perfetta, gli stracci sono caos. L’arte è bella, perfetta, ma deve calarsi nella vita, che è caos, altrimenti non serve a un bel niente. Pensate un po’ che la prima volta che l’opera fu mostrata al pubblico, alla mostra Arte povera + azioni povere nel 1968, non c’era la Venere, ma una bella signora nuda, nello specifico la moglie dell’artista. Che volete: erano i torridi anni Sessanta… Eppure, così, con la Venere di marmo – o quasi – l’impatto è ancora più forte.

    E lo sapete, giusto per concludere, che cos’ha fatto quel burlone di Pistoletto quando nel 2013 gli hanno dedicato una mostra al Louvre? Ha preparato uno dei suoi quadri specchianti con una ragazza che sta facendo una foto con uno smartphone e l’ha piazzato davanti al quadro più fotografato del mondo, la Monna Lisa di Leonardo da Vinci. Se non è un modo geniale per mescolare arte e vita questo…

    Giulio Paolini

    Giovane che guarda Lorenzo Lotto

    1967

    Oh, adesso sì che si ragiona! Un bel viso, dipinto come si faceva una volta… Proprio come si faceva una volta, effettivamente… Ha una pettinatura che sembra mia nonna quando si è sposata… Ah, ma ho capito: è un’opera concettuale. Siccome ha fatto il ritratto di sua nonna, ovviamente l’ha fatto in bianco e nero, che fa così vintage…

    Il problema viene fuori quando, avvicinandoci, ci accorgiamo che quello non è affatto un dipinto. Ma è soltanto la fotografia – in bianco e nero – di un dipinto. E dunque…?

    Se però, quando leggiamo il titolo, ci viene voglia di voltarci di scatto e di domandarci: E dove diavolo sarebbe Lorenzo Lotto…?, significa che siamo sulla buona strada. Sì, perché questa è la fotografia di un piccolo ritratto dipinto da Lorenzo Lotto nel 1505, il ritratto di un giovane, appunto. E quindi, se noi ci stiamo di fronte, siamo proprio nella medesima posizione in cui si trovava Lotto mentre dipingeva. Insomma, non è il ritratto, che conta, ma piuttosto il gioco di sguardi che si crea tra il giovane e noi. Con un balzo spazio-temporale ci ritroviamo a essere Lorenzo Lotto. Quindi sul concettuale ci abbiamo azzeccato. Questo giochino non ci ricorda qualcosa? Be’, sì, ovvio: i quadri specchianti di Pistoletto. Solo, in questo caso, l’allusione si è fatta ancora più sottile. Ecco perché non è un dipinto, ma soltanto la fotografia di un dipinto, perché altrimenti al centro dell’attenzione ci sarebbe stato Giulio Paolini. Il fatto, però, è che gli artisti che gravitano nell’orbita dell’Arte Povera tendono sempre a fare uno o due passi indietro. L’artista è Lotto, e Paolini è un semplice mezzo per regalarci questo cortocircuito emozionale.

    Comincia a diventare intrigante l’Arte Povera, vero?

    Povera, poi… A febbraio 2014 l’arazzo Addizione di Alighiero Boetti, anche lui star dell’Arte Povera, è stato battuto all’asta da Christie’s per una cifra equivalente su per giù a 2 milioni e 300mila euro. Mentre un altro esponente dell’Arte Povera, Pino Pascali, nella stessa asta ha visto il suo Torso di negra al bagno, una scultura immensa in legno e materiali vari, battuto per l’equivalente di più o meno 2 milioni e 40mila euro. Mi state dicendo che forse quei due lavori non avevano bisogno di tante spiegazioni? Sarà quello il motivo? Direi di no, ma ci torneremo.

    Lucio Fontana

    Concetto spaziale, attesa

    1965

    Questo sì che lo conoscono tutti: Lucio Fontana, quello che tagliava le tele. Ci si avvia su un terreno sicuro, anche se, in fondo, ancora non si sa bene perché questo vandalo sia considerato un artista.

    I tagli di Fontana sono un’icona, come la Monna Lisa di Leonardo o le Marilyn di Andy Warhol. Ma se per la fama di queste opere una spiegazione riusciamo a darcela, almeno per la prima, i tagli, per quanto ci diamo un contegno, non ci vanno giù: questo tizio non solo ha dipinto tutta la tela dello stesso colore, ma l’ha pure tagliata…

    Ma… perché?

    Già, perché? Perché la tela è un vincolo inaccettabile per un artista che sta lavorando in un momento in cui tutte le certezze traballano e in cui tutto il mondo si sta ribaltando, dal punto di vista sociale, economico e culturale. Perché sfondare la terza dimensione con una prospettiva impeccabile – con una Scuola di Atene o con un nuovo soffitto della Camera degli Sposi – negli anni Sessanta non avrebbe più avuto alcun senso. Lo spazio della tela è, in fondo, lo stesso in cui ci troviamo noi, la sua aria è la stessa che respiriamo noi. La tela è noi e noi siamo la tela. Ecco che la spacco, la apro, la squarcio fino a fare sì che l’aria le passi attraverso e, di colpo, la terza dimensione è sulla tela, dentro la tela, dietro la tela. Oltre quel taglio posso metterci quello che voglio: i miei sogni, le mie proiezioni, le mie fantasie. Oltre quel taglio c’è tutto un mondo che aspetta solo di essere scoperto. La tela non è più uno schermo dove proiettare una realtà, ma diventa ponte oltre cui quella realtà si realizza.

    Se si guarda fisso uno dei tagli – alcuni sono anche piccoli, quasi timidi nella loro enormità semantica – ci si accorge che l’occhio tende a lasciare la tela, a dimenticarsi della sua sostanza e a conficcarsi in quella fessura buia. Il buio diventa terra di conquista e facciamo fatica a trattenere il gesto di avvicinare la mano all’opera, di cercare di passarci attraverso con le dita per sentire che cosa c’è dietro, per scoprire se è vero, come sembra, che ci si possa entrare e poi passare per intero, come nello specchio di Alice.

    (Sì, lo so, c’è anche una certa allusione sessuale, è vero… ma questa è un’altra storia).

    Quando però scopriamo che nel 2013 un’opera della serie La fine di Dio, una tela ovale con buchi e squarci del 1963, è stata battuta da Christie’s per una cifra che si aggira tra i 20 e i 21 milioni di dollari, avvertiamo i primi sintomi di un travaso di bile. Perché, caspita, sarà pur vero che la terza dimensione, e lo spazio, e l’idea e bla bla, ma che cosa ci voleva a bucherellare una tela. Tutta bianca, per giunta...

    Che ci voleva? C’è un film del 2011 che racconta proprio questo. Senza arte né parte, di Giovanni Albanese, è una pellicola italiana senza troppe pretese, ma tocca con intelligenza il problema. I protagonisti, vittime della crisi economica, decidono di sbarcare il lunario falsificando – e rivendendo – una serie di opere d’arte contemporanea che hanno avuto in consegna; opere che ai loro occhi appaiono di una semplicità sconcertante e del cui valore economico non riescono a farsi una ragione. Ci sono le michette di Piero Manzoni, i Bachi da setola di Pino Pascali (giganteschi scovolini multicolori) e, immancabile, qualche taglio di Fontana. Finché si tratta dei panini da dipingere di bianco procedono senza grossi problemi, anche con il Baco da setola se la cavano abbastanza bene. Poi decidono di dedicarsi a Fontana, in apparenza il più semplice. E cominciano i guai. Perché no, non è vero che lo potevo fare anch’io. Il taglio ha una misura precisissima, la tensione della tela è quella perfetta e unica perché i labbri della ferita restino quasi chiusi, solo appena divaricati. La pugnalata è netta, senza tentennamenti. Credetemi: rifare un taglio di Fontana è tutt’altro che facile (oltre che un reato). Fontana era un performer grandioso, un genio dell’azione. Ci sono foto e filmati che testimoniano il gesto con cui praticava i tagli nelle tele e, guardandoli, si capisce che il taglio non è che il risultato di un lungo processo mentale. È la catarsi. La soluzione di un problema dopo una lunga e sofferta elucubrazione. Una tela tutta dello stesso colore, un bisturi, un uomo geniale (un hidalgo argentino che un paio di secoli prima avrebbe indossato un mantello e sfoderato una spada… e in fondo è quello che ha fatto) e l’arte contemporanea ha fatto un’altra fondamentale

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