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Apologia contro la bolla e la censura di Roma
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Apologia contro la bolla e la censura di Roma
E-book455 pagine3 ore

Apologia contro la bolla e la censura di Roma

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Con le sue Considerazioni teologico-politiche (1709-1710), Grimaldi aveva sostenuto con forza le ragioni di Carlo d’Asburgo durante la polemica beneficiaria di quegli anni contro papa Clemente XI. Anche le Considerazioni andarono incontro alla condanna che soleva colpire le opere anticurialiste. Nel 1710 le proposizioni di Grimaldi vennero dichiarate «false, sediziose, eversive ed eretiche». Nello stesso anno, una volta ricevuto per mezzo del vicerè cardinal Grimani il testo della censura, Grimaldi approntò una dura replica. Nell’Avviso critico et apologetico, pubblicato ora per la prima volta, Grimaldi aveva opposto al revisore del Sant’Uffizio, il benedettino Nicolò Maria Tedeschi, una serrata confutazione; non solo a difesa delle Considerazioni, ma anche del De re Beneficiaria di Gaetano Argento. 
Nell’Introduzione si è tentato di ricostruire il contesto storico e culturale in cui operò Grimaldi, con particolare attenzione alle controversie giurisdizionalistiche del Regno di Napoli a cavallo tra XVII e XVIII secolo. Con l’intento di approfondire le origini dell’Avviso e di analizzarne le peculiarità e le fonti adoperate. Infine è stato valutato il contributo politico di Grimaldi in ambito giurisdizionalista, alla luce delle interpretazioni della più recente storiografia.
LinguaItaliano
Data di uscita16 gen 2018
ISBN9788827553435
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    Anteprima del libro

    Apologia contro la bolla e la censura di Roma - Ettore Barra

    Note

    INTRODUZIONE

    Costantino Grimaldi (1667-1750) è stato uno degli ultimi protagonisti della «generazione dei Vico, dei Doria, dei Giannone»[1]. La sua figura di intellettuale e giurista ben rappresenta i fermenti culturali, civili e religiosi della grande stagione culturale napoletana a cavallo tra XVII e XVIII secolo. Tra gli ultimi esponenti dell’Accademia degli Investiganti, Grimaldi si formò alla scuola di Leonardo di Capua, di Tommaso Cornelio e di Giuseppe Valletta, «sulle orme delle più moderne tendenze di pensiero europeo»[2]. Nell’ambiente investigante Grimaldi sviluppò da un lato la sua avversione per la scolastica, dall’altro una convinta adesione alla filosofia cartesiana. Il clima di apertura culturale dell’Accademia degli Investiganti, imperniato sulla libertas philosophandi, venne definitivamente compromesso dal processo agli ateisti (1688-1697) che segnò un ritorno in grande stile del Sant’Ufficio a Napoli. Il lungo conflitto giurisdizionale che ne scaturì fu la «prima prova del vero e proprio spirito laico moderno contro quello che appariva […] come oscurantismo clericale»[3] (Galasso 1972, 55). Grimaldi cominciò quindi la sua attività letteraria nell’ultimo decennio del viceregno spagnolo, negli anni in cui veniva ad infrangersi – sotto il cardinale Cantelmo (1691-1702) – la tregua sui problemi inquisitoriali che durava a Napoli da circa trent’anni.

    Proprio negli anni immediatamente successivi al processo agli ateisti[4], Grimaldi pubblicò la prima Risposta (1699) alle Lettere del gesuita Giovanni de Benedictis che – sotto lo pseudonimo di Benedetto Aletino[5] – aveva attaccato con veemenza i novatori in difesa della scolastica. L’opera sortì un tale successo da procurargli una fama europea, permettendogli di stabilire contatti con i più importanti intellettuali del tempo.

    Oltre la polemica culturale, Grimaldi diede però un importante contributo anche sul piano più propriamente politico, nella battaglia giurisdizionalista contro i privilegi romani e contro l’Inquisizione. Il sostegno del governo austriaco nella polemica beneficiaria, con le Considerazioni teologico-politiche (1708-1709), gli valse la nomina a consigliere del Tribunale di Santa Chiara (1709)[6], funzionale anche alla messa in sicurezza della sua persona dai fulmini romani. Questi ultimi non mancarono però di colpire le sue opere, con la condanna delle Considerazioni e successivamente anche delle Risposte che furono condannate sia nella prima edizione sia nella seconda, pubblicata nel 1725 col titolo Discussioni istoriche, teologiche, e filosofiche.Le Discussioni avrebbero dovuto essere dedicate al vicerè cardinale d’Althann che – una volta resosi conto del carattere controverso dell’opera – ritirò immediatamente l’adesione, e si impegnò anzi affinchè l’opera fosse vietata. Nel 1726, con un decreto della Congregazione dell’Indice, fortemente voluto da Benedetto XIII – le Discussioni furono inserite nella prima classe dei libri proibiti. Solo molti anni dopo, a prezzo di una «penosa ritrattazione»[7] e grazie all’aiuto di monsignor Bottari, Grimaldi sarebbe riuscito ad ottenere il passaggio dalla prima alla seconda classe.

    L’intenso periodo di attività di Grimaldi sotto il governo austriaco era destinato a concludersi drasticamente con l’arrivo a Napoli, nel 1734, degli spagnoli di Carlo di Borbone. Nel 1735 perse infatti la carica di consigliere di Santa Chiara, anche se il sovrano lo «giubilò con concedergli l’onor della toga, e l’intiero soldo»[8]. Fu in questi anni, tra il 1734 e il 1735, che il letterato decise di scrivere le sue memorie col titolo di Istoria de’ libri di Costantino Grimaldi scritta da lui medesimo,la cui pubblicazione nel1964 a cura di Comparato ha davvero colmato «un vuoto nella storia del XVIII secolo»[9].

    Durante l’ultima crisi napoletana del Sant’Ufficio (1746-47), l’ormai ottuagenario Grimaldi ebbe la forza di riprendere la lotta anticuriale col trattato Sciagura maggiore sull’illegittimità del procedimento straordinario che non era mai stato veramente ammesso nel Regno[10]. Il letterato diede il suo ultimo contributo nella polemica tra Girolamo Tartarotti e Scipione Maffei. Pubblicata postuma nel 1751 col titolo Dissertazione, l’opera non incontrò un grande successo. Grimaldi morì il 16 ottobre 1750, non senza essersi riconciliato col papato grazie al rapporto di reciproca stima con Benedetto XIV.

    Le Considerazioni teologico-politiche

    La polemica beneficiaria del 1708 era solo l’ultimo episodio di una lunga serie di conflitti giurisdizionali tra il Regno di Napoli e la Santa Sede, dove quest’ultima aveva sempre cercato di dare «pienezza di significato politico alla condizione di dipendenza feudale della monarchia meridionale»[11]. Il nuovo governo austriaco aveva ordinato, il 2 marzo, di conferire benefici solo ai regnicoli bloccando così il costante flusso di denaro verso Roma. Questa presa di posizione da parte di Carlo d’Asburgo fu l’inizio di una dura polemica con la corte romana ma fu anche l’occasione per il ceto civile di rafforzare la sua ripresa politica. Illustri giuristi come Riccardi e Gaetano Argento furono chiamati ad esprimersi a favore del sovrano: il 20 luglio – su consiglio di Nicolò Caravita – fu chiesto anche a Grimaldi di sostenere l’azione sovrana.

    Le Considerazioni teologico-politiche (1708-1709) di Costantino Grimaldi costituirono la «scrittura pressoché ufficiale dell’ambiente culturale napoletano»[12] nella controversia beneficiaria del 1708. Nelle Considerazioni, Grimaldi contestava alla corte romana l’uso truffaldino di privilegi e immunità, con una costante emorragia di denaro verso Roma. L’abuso delle rendite si era reso ancora più insopportabile con l’usurpazione del diritto di conferire i benefici a discapito dei vescovi. Tutto ciò comportava un danno anche per la Chiesa locale, con sacerdoti e vescovi privi di un adeguato sostegno economico, mentre a Roma le rendite venivano sperperate spesso in una vita dissoluta. Ad ogni modo, secondo Grimaldi, le controindicazioni dell’assegnazione di benefici a stranieri erano molteplici. Il Regno infatti si trovava a mantenere persone estranee che in quanto tali potevano anche essere ostili. Inoltre le rendite non producevano alcun ritorno economico perché erano spese al di fuori del Regno. Anche la carità ne subiva detrimento perché il chierico straniero non aveva sotto gli occhi le miserabili condizioni dei poveri. Il tutto si tramutava in un danno per lo stesso sovrano che da un regno più ricco avrebbe potuto ricavare maggiori risorse dalle tasse. Del resto paesi cattolici come Francia e Spagna avevano da tempo vincolato l’assegnazione di benefici ai regnicoli, e in tutti i paesi europei erano stati adottati vari rimedi contro la manomorta ecclesiastica. Secondo Grimaldi, solo a Napoli la corte romana continuava a spadroneggiare aumentando sempre di più le sue ricchezze, col rischio di trasformare prima o poi i laici in «contadini» e «artigiani degli Ecclesiastici»[13].

    Nelle Memorie, Grimaldi ricorda il favore incontrato a corte dalle Considerazioni, tanto che il re avrebbe affermato che «sì fatti uomini si doveano far ministri»[14]. Allo stesso tempo, apprezzamenti molto diversi venivano da Clemente XI che con bramosia si sarebbe fatta inviare l’opera «foglio a foglio»[15] nel corso della stampa. Convocato il marchese Ercole Turinetti (1667-1726), ambasciatore di Spagna presso la Santa Sede, il papa si sarebbe espresso in questo modo:

    In somma abbiamo i nemici sulle porte di Roma: ecco un libro – e mostrollo sul tavolino – scritto da un Costantino Grimaldi contro la Santa Sede, il quale da faccia a faccia gli contrasta i suoi deritti empiamente. Noi ne vogliamo vendetta, perché non si può tollerare che questa sorte d’inimici più insolentiscano contro di noi[16].

    Alla richiesta di maggiori informazioni da parte del marchese, il papa non seppe dare però che «accuse vaghe» e «incerte»: «solito stratagemma di quei che voglion qualcheduno accagionare immeritatamente»[17]. Non potendo punire Grimaldi, nominato ministro straordinario di santa Chiara il 15 settembre 1709, si diede mano a «fulminare il libro»[18] conferendo l’incarico della censura prima ad Anton Francesco Valenti e poi a Giuseppe Sacripante. Ambedue però «non arrivarono a soddisfare le sue voglie»[19] e così alla fine l’opera venne esaminata dal benedettino Nicolò Maria Tedeschi, revisore del Sant’Ufficio e consultore della Congregazione dell’Indice. La condanna arrivò finalmente il 17 febbraio 1710 con un unico decreto che metteva all’Indice anche il De re beneficiaria dell’Argento e le Ragioni del Regno di Napoli nella causa de’ suoi benefizi ecclesiastici del Riccardi. Nonostante la severità della condanna, che destinava i volumi alle fiamme inquisitoriali, Grimaldi poteva fare molta «galloria» del fatto che nel decreto si parlasse solo della prima parte delle Considerazioni. Si trattava in realtà solo di una svista destinata a trovare presto rimedio con un’altra bolla pontificia che includeva nella condanna anche la seconda parte, seppur accompagnata da censure meno gravi[20].

    L’Avviso critico

    Alla dura condanna delle Considerazioni[21], Grimaldi avrebbe volute proseguire la polemica con un’altra opera. A causa di quel «decreto fatto nella fucina del livore e dell’astio»[22] - dopo aver ottenuto dal cardinal Grimani il testo della censura del revisore del Sant’Uffizio (il benedettino Nicolò Maria Tedeschi) – Grimaldi redasse l’Avviso critico et apologetico intorno alla bolla, et alla censura fatta a’ libri intitulati Considerazioni teologico-politiche dietro gli Editti di S.M.C. e l’altro de Re beneficiaria (1710) che però scelse di non pubblicare, facendolo circolare solo in forma manoscritta. Come ha rilevato Comparato, questa scelta fu dettata dalla perdita di interesse da parte di Carlo VI. A quella data, la polemica beneficiaria aveva già palesato tutto il suo carattere strumentale[23]. Per questo il giurista attese invano il permesso reale di pubblicare l’Avviso e forse fu egli stesso a convincersi dell’inopportunità di esacerbare ulteriormente gli animi con un’opera a carattere ancor più anticlericale.

    Nell’Avviso critico et apologetico, Grimaldiriprese e ampliò l’impianto giurisdizionalista delle Considerazioni, con interessanti spunti di riflessione sul rapporto tra Stato e Chiesa e su problemi come l’Inquisizione e la proibizione dei libri. Il manoscritto è conservato presso la Biblioteca Nazionale di Napoli e consta di 186 pagine. Esso non presenta una vera e propria suddivisione per capitoli, tuttavia è possibile individuare quattro sezioni: la prima di introduzione (pp. 1-9); la seconda sulle cause di nullità del decreto (pp. 10-82); la terza con l’apologia delle Considerazioni (pp. 83-139); la quarta con la difesa del De re beneficiaria (pp. 140-186).

    La censura di Padre Tedeschi sembrò a Grimaldi così ingiusta e ideologicamente prevenuta da giustificare la forte impostazione polemica dell’opera, intessuta di giudizi molto duri nei confronti della Santa Sede e del monaco benedettino. La tensione sembra aumentare ancora di più nella difesa dell’Argento, nei confronti del quale il censore sembrava essersi rivelato ancora più maligno. E questo nonostante l’autore – pur non avendo trascurato nessuno degli argomenti utili alla causa – avesse usato «tutta quella venerazione e verità che conveniva ad uno Scrittore Cattolico»[24]. La «rattenutezza» dell’Argento era stata però interpretata dal censore con «titolo d’affettazione»[25], ignorando così ogni sentimento di carità e di pietà. In difesa dell’amico, Grimaldi perde anche quel poco di «rattenutezza» che gli era rimasta contro il «miserabile» col cervello stravolto dal «verme dell’ambitione"[26]. Il quale si ostinava a presentare come ingiuriose le denunce dell’Argento sulla povertà del culto divino a Napoli e a dimostrare l’esistenza storica di benefici ecclesiastici senza obbligo di residenza.

    Alla conclusione del trattato, Grimaldi tira le somme sul metodo adoperato da Padre Tedeschi nella redazione della censura:

    …è gito alterando sensi, e troncando proposizioni imponendo errori, e facendo del tutto strapazzo alla peggio: e con ciò ha proccurato di dare un tal colore a quei libri, onde potessero apparir degni di censura à gli occhi de’ giudici di quel Tribunale (quanto alcun maligno crede) non meno appassionati del censore…senza aver riguardo alla verità delle proposizioni, senza esaminare il netto delle dottrine, ma tutto confondendo, tutto avviluppando in mille aggiramenti et imposture[27]...

    Sul perché Grimaldi si sia assunto l’onere della difesa – oltre che delle sue Considerazioni – anche del De re beneficiaria,ma non dell’opera del Riccardi è egli stesso a spiegarlo:

    …così parimente diedero a rivedere la prima scrittura al Padre Burgos, tinto della medesima qualità del Tedeschi; ma noi di questa ne lascerem la cura al suo valente Autore, il quale ha peraltro cacciate alla luce le risposte saldissime date a colui, che lo prese a censurare diffusamente, mostrando le censure quanto siano vane, calunniose, e ripiene d’inutile borra, abbellite solo di una finta pedanteria; tanto che non si sono affidati nella Corte attaccarlo nuovamente; onde è inutile far di questo Autore parola[28].

    Grimaldi, che non fa mai il nome né dell’Argento né del Riccardi[29], allude qui alle Considerazioni di quest’ultimo contro un opuscolo dell’abate Maiello. Secondo Comparato questa scelta fu dovuta piuttosto al relativo disimpegno da parte del Riccardi nella lotta ufficiale[30].

    Le cause di nullità

    Nell’Avviso, Grimaldi rimprovera spesso al censore la sua pedanteria. In effetti, padre Tedeschi si era sovente smarrito in questioni la cui rilevanza teologica e dottrinaria era molto dubbia[31]. Non per questo, però, Grimaldi rinuncia ad una risposta punto per punto, specie sulle obiezioni di carattere storico mosse dal censore. Come le altre opere di Grimaldi, secondo il gusto della controversistica seicentesca, anche l’Avviso è caratterizzato dallo sfoggio di erudizione; quest’ultimo – a causa della peculiare natura dell’opera – non rimane però solo un metodo di argomentazione, ma si tramuta in uno strumento di offesa[32].

    Per questo, molte delle argomentazioni più rilevanti dal punto di vista giurisdizionale sono quelle della seconda parte dell’opera, sulle cause di nullità del decreto di condanna (pp. 10-82), che precede la confutazione della censura. È qui che Grimaldi approfondisce i presupposti teorici delle Considerazioni, con l’opportunità di riflessioni più generali sul rapporto tra Stato e Chiesa, non appesantite dalla complicata polemica beneficiaria. Da navigato giurista, Grimaldi espone numerosi difetti e vizi di forma del decreto di condanna. Il primo, e più importante, è il difetto di giurisdizione del Sant’Ufficio su di un libro pubblicato a Napoli: ovvero in un regno che non aveva mai accolto – almeno ufficialmente – quel Tribunale. La procedura avrebbe dovuto quindi svolgersi secondo la via ordinaria, con la disamina degli scritti da parte dell’Arcivescovo di Napoli e la convocazione degli autori. Diversamente, la condanna non poteva aveva valore coercitivo ma solo direttivo. Secondo il giurista, le censure che venivano da Roma non dovevano avere a Napoli valenza diversa da quella che avevano in Spagna, in Francia o a Venezia. Tutti paesi fuori dalla giurisdizione dell’Inquisizione Romana. Grimaldi guarda con particolare attenzione al modello veneziano:

    la Repubblica non tolera, che l’inquisitori pubblichino nel suo stato un altro catalogo de’ libri proibiti, che quello dell’anno 1595 […] E poiché questo Catalogo è stato dopo impresso più oltre, e che l’Inquisitori hanno impiegati tutti i loro artificij per inserirvi nuovi libri proibiti, e per questo modo per fare il concordato; Il Senato ha raddoppiata dalla parte sua la vigilanza; e si è messo in istato di non poter esser sorpreso da gli ecclesiastici. E quando è quistione di pubblicar di nuovo qualche libro proibito, il quale non tratta punto della Fede; Il Senato avvanti che vi presti il suo consenso, fa essaminare accuratamente la dottrina, che quello libro contiene, e scandaglia prudentemente gl’ interessi, che portano la corte di Roma a condannarlo. Dopo di che se il libro sarà proibito, ciò avverrà sotto il nome, et autorità del Principe senza che gl’ Inquisitori vi abbiano alcuna parte. Questo fatto del concordato viene anche avvertito da Fra Paulo Sarpi, e narra la diligenza con cui fù fatto[33].

    Entrando nel merito del decreto di condanna, Grimaldi comincia soffermandosi su alcuni aggettivi usati per descrivere le proposizioni incriminate. Tra questi spiccava quello di «sediziose», che rendeva manifesta l’ingerenza ecclesiastica. Come si poteva, infatti, qualificare in questo modo un libro scritto a difesa di un sovrano? Inoltre, se evidentemente il compito di stroncare le sedizioni spettava al sovrano, come «si posson dire sediziosi dall’ecclesiastico senza voler metter mano nelle messi altrui?»[34]. A meno che non si facesse riferimento a quella «tal sciocchezza» che faceva del Papa il «diritto padrone del Mondo», relegando i sovrani a suoi vicari; visione ultramontanista che nessuna persona di senno poteva abbracciare, leggendo «nel Vancelo continuamente, che Regnum meum non est de hoc mundo»[35].

    Secondo Grimaldi, un’altra causa di nullità era data dalla pretesa romana di essere allo stesso tempo giudice e parte in causa. Essendo «cosa iniquissima, che siano giudici in casa propria»[36], il giudizio non poteva che considerarsi «pieno di passioni» e di «umane affezzioni»[37]. Quando la condizione necessaria per un giudizio era invece l’imparzialità, pena la nullità del provvedimento.

    Anche le pene inflitte sembravano a dir poco «strabocchevoli» ed eccessive. Il decreto infatti prevedeva il rogo per le tre opere e il divieto di lettura, pena la scomunica con possibilità di assoluzione solo dal pontefice. A questa violenza, Grimaldi oppone l’antica disciplina ecclesiastica dei primi dodici secoli nei quali la Chiesa non condannava i libri. Secondo il letterato, la Chiesa antica poteva solo avvertire i fedeli del pericolo in essi contenuto. Con argomenti del tutto simili a quelli che userà molti anni dopo nella Historia Inquisitionis, Grimaldi ricorda che la censura dei libri spettava allora esclusivamente all’autorità imperiale. Cosa penserebbero – si chiede retoricamente Grimaldi – i Padri della Chiesa se vedessero che «non le scritture degli eretici si malmenan con quelle pene, che coloro non osarono di adoprare, ma le scritture de’ cattolici […] che sol contrastan l’interessi della Corte Romana?»[38].

    I vizi di forma: le clausole e la potestà pontificia

    Grimaldi impugna poi con forza le clausole del decreto. In primis si scaglia contro la qualifica del documento come motu proprio del pontefice, giudicata non conveniente per il decreto. Il giurista contesta inoltre la clausola che voleva la proibizione valida per tutti, a prescindere dalla dignità, anche qui in netta violazione della disciplina antica che applicava i divieti solo alla gente comune. Come si potevano vietare dei libri ai vescovi e ai grandi teologi? Per Grimaldi questa pretesa era un grave indizio della perdita d’autorità dei vescovi nei confronti di Roma, mentre egli ne serbava un’alta concezione:

    …gli Vescovi per lo lor carattere sono di diritto divino della Chiesa cristiana, i giudici della Dottrina, i censori de’libri, e di tutto ciò che si pubblica nelle lor diocesi, a viva voce, o per iscritto, contro la fede e contro i costumi […] sono i veri inquisitori della fede, non per delegazione d’un uomo visibile, mortale, e sottoposto di errore, ma per missione di Giesù Cristo, il solo pontefice immortale, capo insostituibile e giudice infallibile della sua chiesa. Or queste qualità danno il diritto à ogni vescovo di leggere ogni sorta di libri, buoni o cattivi, per poterne formare il lor giudizio[39].

    Pertanto Grimaldi trova a dir poco deprecabile la «gloria dell’ubidienza» che si pretendeva dai vescovi ad ogni parola del papa:

    Ora la giurisdizione, la quale è propria à ciascheduno vescovo nella sua diocesi, esiga che abbia tutta libertà di esercitar secondo i canoni, et che niuno altro vescovo, di qualunque grado superiore gli sia di giurisdizione che si abbia nella chiesa, non possa fare in un’altra diocesi, che la sua, alcuno esercizio […] senza sua partecipazione, né

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