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L'eco del peccato
L'eco del peccato
L'eco del peccato
E-book238 pagine3 ore

L'eco del peccato

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Info su questo ebook

Frascati, 4 marzo.
È la fredda sera di martedì grasso quando Stefano Genovese, giovane assicuratore che gioca in una squadra di calcio locale, perde la vita in un incidente stradale.
Lorenzo Festa, vice questore aggiunto appena assegnato al commissariato di via Sciadonna, sospetta che non si sia trattato di una sfortunata casualità, e dà l’avvio a un’inchiesta che coinvolgerà anche i suoi più fidati collaboratori. Le indagini, tra interrogatori e indizi misteriosi, si faranno strada tra i segreti del mondo dell’arte e dello sport, intrecciandosi con i misteri più intriganti e oscuri della tradizione popolare.
L’eco del peccato è un giallo dall’intreccio avvincente e ben orchestrato, un poliziesco dai sentimenti umani, in grado, allo stesso tempo, di regalare emozioni e di strappare un sorriso.
LinguaItaliano
Data di uscita20 mar 2018
ISBN9788893331074
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    Anteprima del libro

    L'eco del peccato - Valerio Marra

    Gide)

    Prologo

    Si dice che a Carnevale tutti possano mascherarsi, per poi lasciarsi andare a ogni tipo di piacere. Si narra che gli spiriti dei defunti tornino sulla terra per fare baldoria, banchettando con i vivi, in attesa che il fantoccio bruci, portando via l’inverno. In quei giorni si rovesciano le gerarchie, tra scherzi e vizi, e il caos regna sull’ordine. Ci raccontano di superstizioni, di scaramanzie e credenze popolari, anche se di questi tempi sono rimasti in pochi a conoscerle.

    Per questo nessuno prestò attenzione a quella maschera spettrale che fissava il cadavere.

    Un attimo dopo la maschera si allontanò, per poi essere ingoiata dal buio.

    1

    Frascati, martedì 4 marzo

    La tv proiettava solo alcune immagini tremolanti, rischiarando a intermittenza il salotto.

    «Quel maledetto impostore! Aveva detto che avrebbe funzionato» brontolò l’uomo tra sé, sollevandosi a fatica dal divano.

    «Che c’è, Bruno? L’antenna dà ancora problemi?» domandò dalla cucina la moglie, riponendo l’ultima stoviglia nello scolapiatti.

    Il marito non rispose e si avvicinò alla tv colpendola con una manata.

    «Di certo non l’aggiusterai così!» protestò la donna, entrando nella stanza. «Dovresti sentire un altro tecnico».

    «Sono tutti una manica d’imbroglioni» pontificò lui, senza ammettere repliche.

    «Piuttosto… perché non porti Ercole a fare una passeggiata?» propose a quel punto la moglie, indicando il minuscolo pechinese che, complice, drizzò le orecchie.

    «La sera del martedì grasso è pieno di ragazzini esaltati. E poi fuori è tutto ghiacciato e c’è un vento freddissimo» provò a opporsi lui, iniziando ad armeggiare con i fili dell’antenna.

    La donna lo guardò con un’aria che non prometteva nulla di buono. «Bruno, già in questa casa non fai nulla, almeno il cane lo vuoi portare fuori o devo fare tutto io?».

    «Faccio l’ultimo tentativo e lo porto giù» concesse lui, continuando a trafficare con i cavi.

    A quel punto, appurato che non avrebbe potuto riparare il guasto, Bruno afferrò il piumino dall’appendiabiti, infilò le scarpe e si avviò rassegnato verso l’uscita, seguito da uno scodinzolante Ercole.

    Le case illuminate sembravano rannicchiate sotto il gelido vento invernale e la luna piena era offuscata da sottili nuvole grigie, mentre l’uomo passeggiava in attesa che lo spavaldo Ercole marcasse il territorio per la millesima volta.

    Trascorso qualche minuto, col naso intorpidito dal freddo, Bruno si stava preparando a tornare finalmente a casa, quando un improvviso rombo proveniente dalla strada provinciale attirò la sua attenzione. Si voltò, incuriosito. Restò un attimo in ascolto, quindi decise di avviarsi verso la strada principale, tallonato dal cagnolino. Raggiunto l’incrocio svoltò a sinistra, proseguendo per circa duecento metri e, quando superò il tornante, sbarrò gli occhi, incredulo.

    La scena era raccapricciante: dal lato opposto un’automobile era accartocciata contro un albero e poco fuori dall’abitacolo un ragazzo giaceva a terra immobile, trafitto dalle fauci affilate delle lamiere e dei rami.

    «Presto, chiami un’ambulanza!» gridò una passante che si era appena accostata con la macchina.

    Bruno restò un istante imbambolato, quindi infilò la mano nella tasca del piumino. «Accidenti, ho dimenticato il telefonino a casa. Chiami lei!»

    La donna, nel frattempo, era scesa dall’auto e stava provando a soccorrere il ragazzo. «Il mio è scarico, non posso. Vada a cercare subito aiuto!» sollecitò, avvicinando il volto a quello del giovane. «Respira ancora. Faccia presto!»

    Bruno si guardò intorno in cerca di supporto: la strada era deserta e l’unico segno di vita proveniva dalle luci di un’abitazione in una viuzza a una decina di metri da lui. Raggiunse di corsa la casa e suonò con insistenza il campanello. Al terzo tentativo una voce anziana rispose al citofono.

    «Chiami subito il 118! C’è un ragazzo gravemente ferito davanti casa sua» si affrettò a dire Bruno, senza attendere risposta.

    Ercole, nel frattempo, si era allontanato di qualche metro e aveva iniziato ad abbaiare in direzione dell’altra estremità della via.

    «Ercole, vieni qui!» ordinò l’uomo.

    Il cagnolino, imperterrito, continuò a ringhiare, avanzando prudentemente verso l’incrocio opposto.

    «Vieni qui!» gridò Bruno più forte, voltandosi istintivamente verso il cucciolo.

    Proprio in quel momento vide proiettarsi sul muro un’ombra inquietante: mani mostruosamente grandi, e una serie di zanne aguzze che affioravano dalla bocca. In un attimo quella sagoma svanì, lasciando Bruno sbigottito al centro della strada sterrata. Anche Ercole aveva smesso di abbaiare ed era tornato diligentemente ai piedi del padrone.

    «Ehi, va tutto bene?» domandò un anziano dall’altro lato della strada, richiamando la sua attenzione.

    «Sì, sì. C’è un ragazzo ferito sulla provinciale» si ravvide Bruno. «Chiami subito un’ambulanza!»

    «L’ha già fatto mia moglie» lo tranquillizzò l’altro, prima di avviarsi verso la strada principale. «Vado a vedere se serve aiuto».

    Bruno rimase impietrito ancora per un istante, ripensando a quell’insolita e spettrale visione proiettata sul muro. Poi riprese la marcia verso la provinciale e, quando tornò sul luogo dell’incidente, trovò ad attenderlo una decina di persone mute, con un’espressione cupa disegnata sul volto.

    «Non respira più. È morto».

    2

    Frascati, mercoledì 5 marzo

    La pioggia sferzava il parabrezza dell’auto con incredibile violenza quando il commissario Festa svoltò su via Sciadonna. L’ipnotico rumore che accompagnava il movimento dei tergicristalli copriva lo squillo del cellulare che suonava senza sosta da più di un minuto.

    Festa imboccò il varco d’accesso del commissariato, parcheggiò l’auto nel posto riservato e, senza attendere che la tempesta placasse la sua furia, scese dall’auto, dirigendosi all’ingresso. Una volta all’interno, sentì provenire dalla sala accanto un vociare soffuso, accompagnato dal gradevole odore del caffè del distributore automatico. Il commissario, per evitare incontri imbarazzanti, transitò rapidamente nel corridoio in direzione del bagno, con lo scopo di asciugare il completo appena ritirato dalla sartoria. Giunto a pochi metri dall’obiettivo, un insistente e familiare tossicchiare richiamò la sua attenzione.

    «Capo, buongiorno!» debuttò, raggiante, l’agente scelto Russo. Poi soffocò una risata. «Che hai fatto? Ti hanno rovesciato un secchio d’acqua in testa?».

    «Michele, che c’è?» sbuffò il commissario.

    «Nulla» replicò serafico l’altro. «Ero solo preoccupato per la tua salute. Alla tua età certi colpi di freddo possono far male. A ogni modo, è tutta la mattina che provo a chiamarti. Il sostituto Moretti voleva che dessi un’occhiata agli atti prima di spedirli in procura».

    «Di cosa si tratta?».

    «Ieri notte è avvenuto un incidente stradale. È morto un giovane, capo. La polizia locale aveva già terminato il turno, così siamo intervenuti noi. Il conducente dell’auto ha perso il controllo su viale Conti di Tuscolo e si è schiantato contro un albero. Fortunatamente, era solo a bordo del mezzo e non ci sono altre vetture o pedoni coinvolti» illustrò.

    Festa si passò una mano tra i capelli corvini. «Chi era il magistrato di reperibilità?».

    «Antonella Greco» replicò prontamente l’agente, ritrovando un sorriso malizioso.

    Il commissario finse di non afferrare il riferimento e riprese a camminare verso il bagno. «Perfetto. Di’ a Moretti che tra cinque minuti sono da lui».

    «Capo, una cosa» lo richiamò il sottoposto. «Non so come dirtelo, ma alcuni colleghi iniziano a malignare sostenendo che tu sia, come dire, un gufo, un uccello del malaugurio… insomma, che porti leggermente sfortuna. Non che io creda a queste cose, ma sono meno di due settimane che ti hanno assegnato a questo commissariato e già ci sono stati due incidenti mortali, decine di furti in appartamento e svariate rapine. Ben oltre la media prima del tuo arrivo».

    «Michele, il commissariato di Frascati è uno dei più grandi del Lazio. La differenza è che prima andavano dai Carabinieri, mentre ora vengono anche da noi» ribatté Festa. «Adesso, se permetti, vorrei asciugarmi».

    L’agente alzò le mani con fare innocente. «Certo, capo!» pronunciò con eccessiva riverenza, prima di ritirarsi nel suo ufficio.

    Stretto nell’abito sartoriale ancora zuppo, Festa fece il suo ingresso nella stanza e salutò un assonnato Moretti. «Buongiorno, Giulio. Mi ha cercato?»

    L’uomo, stravaccato sulla poltrona girevole, sollevò appena lo sguardo. «Sì, commissario. Volevo farle controllare gli atti prima di inviarli in Procura». L’attempato poliziotto gli porse i moduli. «Questa notte, assieme all’agente Conti, abbiamo rilevato un incidente che ha provocato la morte del trentaduenne Stefano Genovese. La macchina, una Mini Cooper S, è stata sequestrata e si trova presso il deposito giudiziario, mentre il corpo del giovane è stato trasportato all’obitorio. Stamattina, con i familiari, ho già effettuato il riconoscimento della salma e ho compilato tutti gli atti» illustrò, allentandosi ancora di più il nodo della cravatta sgualcita.

    «Bene» confermò Festa sfogliando la documentazione. «Mi sembra tutto corretto. Può andare a riposare» concesse avvicinandosi all’uscita. «Un’ultima cosa: l’agente Conti è già andato a casa?».

    «Credo si trovi alla macchinetta a prendere un caffè».

    «Va bene» pronunciò Festa, accomiatandosi con un gesto cordiale.

    Quando il commissario entrò nella sala break, tre poliziotti si ammutolirono di colpo, guardandolo con aria preoccupata. Festa li ignorò, portandosi verso il divanetto dove Conti se ne stava immobile, fissando il vapore che esalava dal bicchiere di caffè che stringeva tra le mani.

    «Tutto bene, Francesco?» .

    Il giovane sussultò. «Sì, commissario. Mi scusi, non l’avevo sentita arrivare».

    «È la tua prima volta, non è vero?».

    «Sì. Non mi era mai capitato di vedere un cadavere. Forse non sono tagliato per fare questo lavoro» confessò Conti, con un filo di voce.

    Il commissario gli rispose con un sorriso. «La mia prima volta fu proprio a ventuno anni, quando avevo più o meno la tua età. Avevo preso servizio in polizia da circa un mese, proprio come te. Quando indossavo la divisa credevo di essere invincibile e che nulla avrebbe potuto scalfirmi, ma un giorno, alla nostra centrale operativa, arrivò la chiamata di una signora che sosteneva di sentire un odore insopportabile provenire dall’appartamento vicino. L’intervento mi venne assegnato e andai a verificare senza troppe apprensioni: era il giorno di Natale e pensai che si trattasse del solito falso allarme. Invece mi sbagliavo… Ricordo ancora che non dormii e non toccai cibo per tre giorni di fila» ammise.

    Il giovane sembrò recuperare un filo di entusiasmo. «Quindi pensa che sia normale sentirsi così?».

    «Assolutamente sì».

    «E quanto tempo ci vuole per farci l’abitudine?».

    Festa si strinse nelle spalle. «Dovrei dire che con gli anni ti fai gli anticorpi. In realtà a queste cose non ci si abitua mai. Comunque, avete fatto un bel lavoro stanotte. Manderò presto tutti gli atti in Procura».

    Il giovane si alzò. «Grazie, commissario» pronunciò arrossendo. «A proposito, vorrei parlarle di una cosa» rese noto in un secondo momento, prendendo il commissario in disparte e abbassando il tono della voce. «Durante i rilievi ho notato qualcosa di strano. Probabilmente è irrilevante, infatti il sostituto commissario Moretti non ha voluto che venisse inserito a verbale, però ci tengo a dirglielo lo stesso: a un centinaio di metri dal punto d’impatto vi erano alcune piccolissime biglie. Biglie di metallo, in parte coperte dal nevischio. Se vuole, ho scattato qualche foto col mio cellulare» accennò, porgendogli lo smartphone.

    Festa rimase a studiare l’immagine per qualche secondo. «Uhm… è piuttosto insolito. Inoltre sembra che la frenata delle ruote anteriori si sia improvvisamente interrotta» constatò, scrutando l’immagine con attenzione. «E poi queste palline… Non saprei, ma a me sembrano più piccole delle normali biglie».

    «Sì, avranno avuto a malapena un centimetro di diametro».

    «Perfetto. Mandami le foto sul cellulare e torna a casa. Prova a riposare un po’ e vedrai che ti sentirai meglio».

    «Va bene, commissario» acconsentì il giovane, allontanandosi verso la porta. «Grazie» pronunciò un attimo prima di uscire, ricevendo dal superiore uno sguardo d’intesa.

    Festa, rimasto solo, si avvicinò alla finestra accendendo la prima sigaretta della giornata. Fuori la tempesta non accennava a placarsi e, di tanto in tanto, un fulmine fendeva l’aria, illuminando il cielo plumbeo oscurato da uno spesso strato di nuvole nere. Ripensò al caso che circa diciotto mesi prima l’aveva elevato agli onori della cronaca. L’omicidio del lago, come era stato soprannominato dalla stampa, avvenuto sulle sponde del lago Albano, proprio a pochi chilometri da dove si trovava ora. In quel periodo era ancora un ispettore superiore che sognava di diventare commissario. Quel desiderio si era finalmente avverato, ma le sfide erano tutt’altro che terminate.

    «Adesso inizia la parte più difficile» gli aveva confidato due settimane prima un suo parigrado. «Tra l’altro, sembra che il commissariato di Sciadonna verrà presto chiuso, come previsto dal piano di ridimensionamento del Ministero degli Interni». Festa aveva annuito davanti a quelle rivelazioni, determinato a sfruttare l’occasione che gli si era presentata come l’ennesimo trampolino di lancio verso mete ancora più alte.

    Tuttavia, in sole due settimane aveva perso gran parte di quelle sicurezze, schiacciato dal pesante fardello del passato che non sembrava volerlo più abbandonare.

    Tirò una lunga boccata dalla sigaretta e si sforzò di sorridere, consapevole che l’ambizione aveva superato di gran lunga il suo talento.

    3

    Il bagliore dei fulmini che filtrava attraverso le ampie vetrate andava a morire nel corridoio, donando un pallido riflesso argentato ai quadri e facendo brillare le armature di acciaio addossate alle pareti. Seduto dietro la pregiata scrivania in castagno, l’uomo fissava la sagoma del vecchio maggiordomo che si stagliava nella luce dello studio.

    «Questa è una notizia terribile» affermò, accarezzandosi i lunghi baffi neri.

    «Sì, è davvero una tragedia».

    «Conosce già la dinamica dei fatti?».

    «Sembra che il ragazzo abbia perso il controllo della macchina a circa un chilometro dal campo di allenamento, finendo contro un albero».

    «Dovremmo annullare il prossimo impegno della squadra e inviare un telegramma alla famiglia Genovese. Ci pensa lei ad avvisare il segretario?».

    «Certamente. Ha bisogno di altro?».

    «No, grazie» concluse l’uomo, congedando l’altro con un lieve gesto della mano.

    «Non dimentichi che ha una chiamata in attesa sulla linea uno» gli rammentò il maggiordomo prima di accomiatarsi con un inchino appena accennato.

    Rimasto solo, l’uomo indugiò con gli occhi sulla piccola statua di marmo, uno dei pezzi più preziosi e raffinati della sua collezione. La scultura raffigurante un bambino sembrava contraccambiare il suo sguardo con impressa sul viso la più antica e potente emozione: la paura. Lo stesso impulso che attanagliava anche lui, annebbiandogli la mente e facendogli contrarre tutti i muscoli. L’uomo distolse lo sguardo dalla scultura, rammentando a se stesso che, se era diventato uno degli ingegneri più stimati della nazione, lo doveva proprio alla sua innata capacità di arginare la mareggiata degli impulsi con la solida diga della razionalità. Recuperato un briciolo di serenità, si decise a rispondere al telefono.

    «Ingegner Medici, mi dispiace disturbarla, ma volevo chiederle se può effettuare un sopralluogo qui al cantiere. Il Comune ha proposto alcune modifiche al progetto e avremmo bisogno della sua presenza» spiegò tutto d’un fiato Andrea, uno dei suoi collaboratori di fiducia.

    «Un’altra modifica!» esplose Medici, incredulo. «Come diavolo è possibile?».

    «Non so cosa dirle. La nuova giunta sta ricevendo molte pressioni e sembra che voglia diminuire i costi».

    «Va bene. La raggiungerò in mattinata» stabilì contrariato, prima di riagganciare la cornetta.

    Qualche istante più tardi, estrasse la pipa in radica dal cassetto della scrivania e, dopo aver miscelato il tabacco Latakia con il Virginia, la caricò e l’accese con un fiammifero. Il fumo invase la sua bocca e quel sapore bastò a rilassare tutti i muscoli, tesi come quelle numerose sculture che adornavano la stanza al quarto piano della sua maestosa villa situata alle pendici del monte Tuscolo. Restò a fumare per quasi mezz’ora, ravvivando la combustione con leggere soffiate e assaporando, di tanto in tanto, il caffè amaro che gli aveva servito il maggiordomo per

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