Due marine in guerra: Le Forze Navali francesi tra Londra e Vichy
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Anteprima del libro
Due marine in guerra - Vezio Vascotto
Staglianò
PRIMA PARTE. IN GUERRA UNITI
Dallo scoppio della Seconda guerra mondiale all’Armistizio
(settembre 1939 – giugno 1940)
1. UNA FORZA TEMIBILE
All’inizio della Seconda guerra mondiale la Francia disponeva della quarta marina da guerra del mondo, dopo Gran Bretagna, Stati Uniti e Giappone; essa poteva infatti mettere in linea 175 navi combattenti per un totale complessivo di oltre 550.000 t. più altre 110.000 t. di naviglio ausiliario, mentre altre 64 erano in costruzione per un totale di 271.000 t. Le sue unità erano concentrate prevalentemente sulla facciata atlantica, nelle basi metropolitane di Cherbourg, Brest, Lorient e Rochefort e in quelle oltremare di Casablanca e Dakar, e nel Mediterraneo occidentale a Tolone, Mers el-Kebir e Biserta; un’aliquota non trascurabile era anche presente nei vasti possedimenti francesi, dai protettorati del Levante (Beirut) ai territori coloniali nelle Antille (Fort de France nella Martinica), nell’Oceano Indiano (Diego Suarez in Madagascar) e in Indocina (Saigon). Alla flotta di superficie si aggiungeva una importante componente subacquea, che comprendeva quasi ottanta battelli, ed un’Aviazione di marina che poteva contare su circa 350 velivoli.
La Marina francese aveva raggiunto tale risultato partendo da una condizione morale e materiale piuttosto precaria: alla fine della Grande Guerra, iniziata con 690.000 t. di naviglio in servizio (tra cui 21 navi corazzate e 27 incrociatori), essa era ridotta a 485.000 t. (10 corazzate e 18 incrociatori) e soprattutto con sole 25.400 t. di nuove costruzioni sugli scali. La ricostruzione fu resa difficile da problemi di ordine dottrinale e finanziario: l’imprevisto successo delle nuove armi apparse durante il conflitto – la mina, il sommergibile e l’aereo - inizialmente considerate solo dei semplici ausili tattici incapaci di pregiudicare la supremazia del cannone, su cui si fondava la dottrina in vigore, aveva costretto gli Stati Maggiori a relegare prudentemente le costose navi di linea in ancoraggi lontani dal teatro d’operazioni, privilegiando un ampio uso del naviglio sottile. Bisognò quindi rielaborare una nuova dottrina d’impiego in base alla quale definire le caratteristiche tecniche delle nuove costruzioni e stabilire di conseguenza i nuovi programmi di sviluppo. Le cospicue risorse finanziarie necessarie dovettero essere strappate ad una classe politica tradizionalmente insensibile ai problemi marittimi, sostenuta per di più da un’opinione pubblica che, traumatizzata dalle enormi perdite umane subite sui fronti terrestri, considerava inutile mantenere in servizio costosi bastimenti, da cui oltretutto un buon numero di marinai e di cannoni erano stati sbarcati per combattere a terra al fianco delle fanterie. Fatto ancora più grave, l’incertezza sul futuro della Forza Armata e la sensazione di essere poco apprezzati nel Paese aveva influito negativamente sul morale e sulla disciplina degli equipaggi, sensibili ai fermenti rivoluzionari che agitavano l’Europa. Nella Squadra del Mar Nero, rimasta a lungo nelle acque russe dopo la fine della guerra, a contatto con la propaganda bolscevica, si erano addirittura verificati alcuni casi di ammutinamento. L’opera di risanamento era stata resa più ardua dalla continua alternanza dei governi, tipica della Terza repubblica francese, culminata con la breve stagione del Fronte popolare nel 1936-37. Si erano aggiunte le difficoltà economiche legate alla ricostruzione postbellica ed aggravate dalla crisi degli anni ’30, e le limitazioni costruttive stabilite nelle Conferenze sul disarmo navale di Washington (1922) e di Londra (1930), che avevano definitivamente sancito la preminenza delle marine anglosassoni sulla Marina francese ed imposto a quest’ultima la parità, sia pure solo formale, con quella italiana.
Nonostante questi ostacoli, la Marina era riuscita ad uscire progressivamente dall’isolamento, a delineare una propria linea strategica ed a dotarsi di un complesso navale abbastanza omogeneo e moderno: l’instabilità politica fu attenuata dalla ripetuta presenza a Rue Royale (sede del ministero della Marina a Parigi), tra il 1925 ed il 1935, di alcuni buoni ministri (Georges Leygues, François Pietri) che riuscirono a riformare gli ordinamenti, le strutture ed i programmi della Forza Armata in maniera razionale e duratura. Il dibattito intellettuale sulla definizione di una nuova strategia militare per il Paese, rimasto fermo alle polemiche della Jeune École, trovò nuovi stimoli negli scritti dell’ammiraglio Raoul Castex¹ e coinvolse un’opinione pubblica che tornava ad interessarsi alla difesa delle vie di comunicazione marittima col suo vasto Impero coloniale. In mancanza di una pianificazione finanziaria di lunga durata, i fondi necessari al potenziamento della Flotta furono strappati ad una riottosa Assemblea parlamentare per tranches annuali successive, facendo leva sull’ipotesi di dover affrontare, in un conflitto ritenuto sempre più probabile, le flotte riunite dell’Italia e della Germania.
Il rischio di questo doppio confronto dominò la politica navale francese per tutti gli anni Venti e l’inizio degli anni Trenta del XX secolo e contribuì a far assumere alla Francia atteggiamenti molto fermi contro il riarmo navale italiano e tedesco. La preoccupazione maggiore fu l’accennata parità navale con l’Italia, ritenuta incompatibile con la sicurezza dei collegamenti marittimi con i territori francesi del Nord Africa, tradizionali serbatoi di uomini e di risorse per la madrepatria. Quanto alla Germania, per impedire la rinascita della Hochseeflotte venne puntigliosamente preteso il rispetto del Trattato di pace di Versailles, che limitava il tonnellaggio della Marina tedesca a 100.000 t.
Proprio per avere le mani libere nella ricostruzione della Marina, Parigi denunciò il Trattato di Washington nel 1935, con un anno di anticipo sulla sua naturale scadenza, ma lo stesso anno lo sforzo di mantenere una effettiva superiorità navale sulle due probabili avversarie fu seriamente compromesso dall’accordo anglo-tedesco con cui la Gran Bretagna concedeva unilateralmente alla Germania la facoltà di porre in servizio 420.000 t. di naviglio, valore equivalente ai 2/3 della flotta francese. La decisione inglese, recepita a Parigi come un grave attentato alla sicurezza del Paese, rese però evidente l’impossibilità di fronteggiare contemporaneamente sul mare i due Paesi confinanti; l’Ammiragliato francese, sia pure sorpreso e sdegnato, dovette rivedere i propri orientamenti strategici accettando, con gli accordi di Portsmouth dell’8 agosto 1939, che la Royal Navy si facesse carico, in caso di guerra, del contrasto alla Flotta tedesca nel Mare del Nord, mentre la Marina francese si sarebbe prevalentemente concentrata contro quella italiana nel Mediterraneo occidentale. I programmi navali, benché accelerati, continuarono tuttavia a procedere lentamente, facendo prevedere il raggiungimento dell’auspicata superiorità solo alla fine del 1942, scadenza peraltro compatibile con quella degli analoghi piani navali tedeschi ed italiani.
* * *
Lo scoppio del conflitto nel 1939 colse dunque la Marina francese ancora in fase di preparazione e con alcune evidenti lacune. Essa poteva schierare un gruppo d’alto mare costituito dalle tre corazzate rimodernate classe Bretagne (22.000 t.), dalle due della classe Dunkerque da 26.500 t. e da una decina di buoni incrociatori; le prime due navi da battaglia da 35.000 t. (Richelieu e Jean Bart), impostate nel 1935-36 per rispondere ai due "Littorio" posti sullo scalo dall’Italia, erano ancora in fase di allestimento, mentre le successive Clemenceau e Gascogne erano state autorizzate appena nell’esercizio finanziario 1938-39; erano pure in servizio un trasporto idrovolanti (Commandant Teste) ed una vecchia portaerei sperimentale (Béarn) mentre, dopo lunghe esitazioni, ne erano state autorizzate altre due da 18.000 t., che sarebbero state disponibili nel 1943 (Tabella n°1). Ma negli incrociatori leggeri e nei cacciatorpediniere di squadra la protezione era stata sacrificata al mito della velocità mentre la tenuta al mare e l’autonomia risultarono insufficienti, difetti abbastanza sorprendenti in una Marina con ambizioni oceaniche. Ancora più gravi erano le difficoltà nella messa a punto delle artiglierie principali e l’inadeguatezza delle batterie contraeree, concepite per contrastare aerei in volo orizzontale in quota ed inefficaci contro la nuova tecnica del bombardamento in picchiata; infine la Marina non possedeva nessun tipo di apparati radar e di sonar per la scoperta subacquea (i primi asdic ad ultrasuoni furono forniti dalla Royal Navy a guerra già iniziata). Gli aerei dell’Aviazione navale comprendevano una quindicina di modelli diversi poiché lo sviluppo della specialità aveva risentito delle incertezze sulle reali potenzialità del mezzo aereo e della dura lotta sostenuta per evitarne l’assorbimento da parte dell’Armée de l’Air, che era stata istituita come Forza armata indipendente nel 1928; solo nel 1936 l’Aéronavale (che comprendeva i velivoli basati a terra o a bordo da impiegare sul mare) era stata infatti posta sotto l’unica autorità della Marina.
Per quanto riguarda la dottrina operativa, nonostante l’evoluzione del pensiero strategico generale favorita da studiosi quali il già citato Castex, la Marina francese era tendenzialmente orientata alla ricerca dello scontro risolutivo tra forze di superficie, da risolvere col cannone ed eventualmente con veloci attacchi del naviglio silurante. Mine e sommergibili dovevano essere usati per operazioni di blocco o di sorveglianza e protezione di punti nodali del traffico marittimo. L’impiego dell’aviazione sul mare era riservato all’esplorazione, al controllo del tiro delle artiglierie e per brevi attacchi (effettuabili solo di giorno) alle forze avversarie ma non per risolvere la battaglia tra squadre navali, a causa delle difficoltà di impiego del mezzo aereo e della presunta vulnerabilità delle navi portaerei.
Si può ricavare una conferma di prima mano degli orientamenti strategici e tattici in vigore nella Marina francese dalla lettura di un libro, di scarso valore storico dato il suo scopo agiografico e celebrativo, ma illuminante² poiché era stato ispirato dal suo onnipotente Capo di Stato maggiore, l’ammiraglio François Darlan, che assunse l’incarico il 1° gennaio 1937 dopo esser stato testimone e protagonista di gran parte della ricostruzione della Flotta, come vedremo più oltre. In esso si affermava, tra l’altro: "La potenza della Flotta francese deve essere almeno uguale a quella della più potente flotta dell’Europa continentale; la sua composizione deve essere armoniosamente costituita da navi di ogni tipo: bastimenti leggeri di superficie, aerei e sommergibili, che devono preparare e proseguire le missioni delle navi da battaglia, le sole capaci di conquistare e di conservare il dominio del mare."
Grazie all’azione energica e spregiudicata del suo Capo, la Royale, come era ancora in uso chiamare la Marina, costituiva comunque uno strumento bellico di tutto rispetto, disciplinato e compatto, dotato di un ottimo addestramento e di un alto spirito combattivo, e rimaneva determinante per assicurare la supremazia alleata nel Mediterraneo e in Atlantico e difendere la sovranità francese nel mondo. Si può concordare con quanto Darlan scriveva nella prefazione al libro già citato: "La Marina da guerra francese all’inizio delle ostilità era una forza temibile, armata da equipaggi scelti. Addestrata fin dall’inizio della guerra di Spagna a svolgere missioni impreviste, spesso lunghe e difficili, essa era pronta all’azione e non fu sorpresa dallo scoppio della guerra."
2. LA DRÔLE DE GUERRE
Il 3 settembre 1939 la Marina francese entrò in guerra applicando una strategia generale condivisa (evento raro nella sua storia) con le altre Forze Armate: il piano del Comando Supremo, retto dal generale Maurice Gamelin, escludeva un’offensiva iniziale contro l’Asse e prevedeva di mantenere l’esercito dietro la protezione delle Alpi e della linea Maginot, in attesa dell’intervento dell’alleato britannico e dell’arrivo delle truppe provenienti dall’Impero coloniale; nel frattempo la Germania sarebbe stata indebolita da un rigido blocco navale e dai bombardamenti aerei. In alternativa allo scontro frontale, veniva preso in considerazione uno sbarco offensivo a Salonicco, nei Balcani, per tener lontani i Tedeschi dal petrolio rumeno e bloccare ogni loro eventuale tentativo di minacciare gli interessi anglo-francesi in Medio Oriente. L’Italia, quando fosse entrata in guerra, sarebbe stata investita dal mare lungo tutto il suo vulnerabile perimetro costiero e privata della sua colonia libica, destinata ad essere occupata dalle forze alleate provenienti dalla Tunisia e dall’Egitto³. Nell’esecuzione di tale progetto la Marina aveva un ruolo determinante (e anche per questo era stato approvato da Darlan): essa doveva, sia pure col concorso inglese, contrastare eventuali azioni tedesche o italiane nella Manica e in Mediterraneo, proteggere il transito dei rinforzi coloniali ed alleati, provvedere al blocco ed all’offesa delle coste nemiche, assicurare il trasporto ed il sostegno delle forze destinate alle future operazioni nei Balcani ed in Oriente.
Questa concezione strategica, che si basava ancora sugli stessi superati principi tattici della Prima guerra mondiale, non prendeva in considerazione la storica riluttanza degli alleati inglesi ad impegnarsi a fondo sul continente sguarnendo le difese della propria isola, e non teneva conto della superiorità militare, demografica ed industriale raggiunta dalla Germania; inoltre lo