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Nazisti in fuga
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E-book615 pagine8 ore

Nazisti in fuga

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Info su questo ebook

Che fine hanno fatto i criminali del Terzo Reich?

Primavera 1945. Il Terzo Reich è allo sbando. In che modo si può sfuggire alla forca o al plotone di esecuzione? Che avvenga tramite cianuro o revolver, il suicidio sembra la via d’uscita migliore: soluzione scelta, tra gli altri, da Himmler e Göring, da Hitler e Goebbels. Chi non riesce a togliersi la vita scompare, come Heinrich Müller, il capo della Gestapo. Alcuni, come Wernher von Braun o Reinhard Gehlen, si mettono a disposizione degli Alleati. Altri, come Alois Brunner, Adolf Eichmann, Klaus Barbie e Josef Mengele, riescono a fuggire in Egitto, Siria o Sud America. Il numero di coloro che hanno pagato per i crimini con la vita, dopo la caduta di Hitler, è irrisorio: solo ottantuno impiccagioni di alti funzionari. Studiando gli archivi della Stasi e quelli della Germania federale, Jean-Paul Picaper è riuscito a seguire le tracce dei criminali di guerra e a ricostruire la loro disfatta, scomparsa e morte. Questo libro è il risultato di una lunga inchiesta, supportata da testimonianze e rivelazioni, che getta anche ombre sinistre sulle istituzioni che hanno offerto protezione ai criminali nazisti.

Suicidi, in fuga all’estero, condannati alla pena capitale: il destino dei più feroci criminali nazisti in un saggio documentato e scioccante

All’interno del volume: 
Una disamina dettagliata del crollo del terzo reich
Un’indagine sulla scomparsa di molti ufficiali nazisti la ricostruzione dei molti suicidi che li hanno coinvolti
La storia dei sequestri di ex ufficiali nazisti da parte del Mossad
La storia della collaborazione degli ex ufficiali con gli Alleati
LinguaItaliano
Data di uscita20 gen 2020
ISBN9788822741318
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    Anteprima del libro

    Nazisti in fuga - Jean

    Introduzione

    Pau, 1943-1944. Il bambino che sono guarda attraverso le persiane di casa i soldati della Wehrmacht che sfilano cantando. Non so ancora nulla di politica, ma avverto la rabbia e l’angoscia dei miei. Sono emozioni e momenti che non si scordano.

    Berlino, autunno 1959. Alla stazione metropolitana di Friedrichstraße, Berlino Est, lo studente che sono diventato scorge una sentinella dell’Armata popolare della Germania Est. L’uniforme è identica a quella della Wehrmacht. Un’illuminazione in cui colgo un filo conduttore tra le due dittature tedesche, diverse eppure simili.

    Durante la Guerra fredda, l’argomento della mia tesi sarà la

    DDR

    (Repubblica democratica tedesca). Per contrasto mi insegnerà ad apprezzare la Germania Ovest, e per similitudine a deprecare il Terzo Reich.

    Ho fatto la leva presso il governo militare francese di Berlino. In veste di giornalista ho frequentato funzionari e dissidenti della Germania Est e, tra gli occupanti sovietici, membri del

    KGB

    , giornalisti e diplomatici russi che incontravo a Berlino. Si interrogavano sull’efficienza della propaganda di Goebbels. Non avevano il suo talento diabolico.

    Dopodiché la

    DDR

    è sparita, il blocco sovietico è crollato. Soltanto allora ho potuto prendere in esame il nazionalsocialismo. Ho intervistato testimoni e consultato archivi su archivi. Ho setacciato biblioteche per scovare documenti introvabili. Ma a insegnarmi più cose sul Reich hitleriano sono stati gli archivi della Stasi.

    Dato che non c’è nulla come l’esperienza vissuta, in questo libro darò ampio spazio alle persone che ho conosciuto. Quando combattevo a Berlino Ovest per contrastare l’infiltrazione neocomunista, sono entrato in contatto con alcuni ex nazisti che celavano il proprio passato, altri che avevano acclamato e si erano avvicinati a Hitler e poi se n’erano pentiti. Nel 1959-1960 ho parlato con degli ex soldati della Wehrmacht, alcuni ex prigionieri di guerra in Francia o in Russia. Non rievocavano né avventure eroiche né gloriosi combattimenti, ma solo sofferenze indicibili, commilitoni morti.

    Quel mondo da incubo è stato inghiottito dalla Storia. Ma ecco che oggigiorno oltre il Reno e altrove nostalgici e agitatori politici cercano di ricostruire il mito nazionale e osannare il sacrificio dei giovani in uniforme grigioverde. I famigerati Feldgrau, così venivano chiamati, si erano limitati a eseguire gli ordini di fanatici, pena la morte. Alla fine la disperazione li aveva spinti a difendere i loro compagni dai vendicatori sovietici. Ma non erano eroi: 5,6 milioni di essi fecero una tragica fine, senza contare i 3,1 milioni di civili tedeschi uccisi per colpa di Hitler.

    La generazione di superstiti ha fatto pubblica ammenda e creato una democrazia esemplare, tedesca ed europea, che va tutelata a ogni costo. Lo studio del Terzo Reich e della

    DDR

    dimostra che la Germania odierna non è solamente un miracolo economico, ma anche un miracolo politico. Vivendoci da mezzo secolo, ho sia la nazionalità francese sia quella tedesca. E sono al cento percento europeo. Sì, la Germania ne ha passate tante. E dobbiamo amarla come una sorella.

    Il cappio

    «Il futuro sembrerà anche buio e spaventoso, ma il passato è molto peggio».

    Philip Kerr, Field Grey (Quercus, 2010)

    Quando lo Stato fallisce e al potere sale la strada, la dittatura offre i suoi servigi per risollevare la situazione. Ma il rimedio si rivela peggiore del male. Per imporsi, il potere recluta individui che scalpitano per commettere in piena regola azioni fino a poco prima fuori legge. Gli infila uniformi gallonate e gli mette in mano il frustino che Hitler teneva alla cintola durante le prime campagne elettorali. Perché il totalitarismo risveglia il predatore che è nell’uomo e offre agli aspiranti carnefici l’occasione di mettere in atto l’indicibile. A quel punto si sguinzagliano i cani.

    Nessun regime totalitaristico ha mai avuto problemi a reclutare sicari e seviziatori. Dal momento che rimangono impuniti e vengono addirittura promossi ed elogiati per i crimini commessi, proliferano: i comandanti, gli ufficiali e le guardie dei campi di concentramento venivano addirittura decorati per il buon lavoro svolto. Portare a diecimila il numero di persone gasate al giorno valse al primo comandante di Auschwitz-Birkenau Rudolf Höss ¹ la croce al merito di guerra di

    I

    e

    II

    classe.

    Quando il potere che li ha usati soccombe – perché alla fine le dittature crollano sempre – sembrano cani bastonati, le orecchie basse, quasi ladri colti in flagrante. Come punirli? Non sarebbero bastati mille patiboli per infilare il cappio al collo ai torturatori nazisti. In proporzione, dopo la caduta di Hitler, il numero di persone che pagarono con la vita i crimini commessi fu risibile. Nei cinque, sei anni dell’immediato dopoguerra furono impiccati ottantuno dei principali mandanti nazisti, alcuni a Norimberga, altri in Polonia, Cecoslovacchia, Russia e Ucraina, e alcuni in Francia, dove furono per la maggior parte fucilati. Le esecuzioni furono all’incirca duecento, forse qualcuna in più. Come conteggiare le guardie dei lager uccise dai loro ex prigionieri dopo la liberazione?

    Resta il fatto che il numero dei responsabili nazisti condannati alla pena capitale fu molto contenuto e per nulla commisurato alla portata dei crimini commessi. Quando bisogna condannare un genocidio la giustizia non è mai equa. Nel migliore dei casi c’è una punizione simbolica. Già era difficile identificare i subalterni che avevano ricevuto dai dirigenti carta bianca per compiere stragi dietro ordine. Himmler aveva già dato loro l’assoluzione a priori. Perciò la corte di Norimberga stabilì che aver obbedito agli ordini non era da considerare un’attenuante.

    A questo era da aggiungere che, a mano a mano che la guerra aveva ampliato il territorio del Reich, il numero di vittime era andato in crescendo. Il massacro era talmente a corto di braccia che dal 1941-1942 i mandanti furono costretti a cercare delle soluzioni industriali. L’organizzazione e l’avvelenamento da gas in spazi chiusi, l’eliminazione dei corpi tramite incenerimento non erano ancora arrivati al livello dei mattatoi moderni, ma l’ideologia trasformò quegli assassini irreggimentati in automi inconsapevoli, addestrati a non porsi domande. E soprattutto senza sentimenti, pena punizioni severe. L’eccidio fu uno dei segreti custoditi più gelosamente dal Terzo Reich. Ciò non impedì tuttavia a molti sorveglianti ed esecutori di consacrarsi a giochetti sadici, spesso per ingannare la monotonia dell’omicidio seriale. E non parlo solo dei lager o degli specialisti della morte come il dottor Josef Mengele. Nella Wehrmacht non mancavano improvvisatori che torturassero i soldati sovietici catturati, giustizieri che lapidassero i piloti britannici o americani lanciati dai velivoli; esaltati delle Waffen

    SS

    che giustiziassero i prigionieri che non servivano più. Niente testimoni, niente prove. Naturalmente, i comandanti non si sporcavano le mani: si limitavano a impartire direttive e a sovrintendere i lavori. Ma qualche testimone rimane sempre, e lo stesso vale per i giustizieri. La sete di giustizia è insita nell’uomo.

    Le alte sfere naziste non l’avevano previsto, come non avevano previsto la sconfitta. Il clima era tale che un Höss, uno Stangl, un Eichmann non si rendevano nemmeno conto delle atrocità che commettevano. Erano oltre. La loro ideologia discolpante aveva traviato una moltitudine di uomini e donne, coinvolgendoli in una causa ignobile e tenendoli al guinzaglio. All’inizio molti criminali non erano stati altro che pecoroni. Se Hitler non li avesse aizzati contro dei nemici immaginari, incarnati da esseri viventi alla loro mercé, sarebbero stati inoffensivi.

    Quello che gli Alleati – sovietici, americani, inglesi e francesi ‒ scoprirono all’apertura dei lager e delle carceri in Germania e nella Polonia occupata superava i peggiori sospetti. Lo sterminio degli ebrei viene a giusto titolo considerato un evento unico nella Storia. Quando il generale Eisenhower entrò nella miniera di Merkers, in Turingia, dove i nazisti avevano stipato tonnellate d’oro ‒ in lingotti ma anche sotto forma di fedi nuziali e impianti dentali asportati dai corpi degli ebrei assassinati nei campi ‒ l’unica parola che gli uscì di bocca fu: «Oddio…». Nel 1945, durante il primo maxiprocesso di Norimberga, ai ventidue gerarchi nazisti seduti al banco degli imputati furono proiettati dei filmini che mostravano mucchi di cadaveri scheletrici e prigionieri pelle e ossa ripresi nei campi di concentramento. Sembrarono stupiti. Non pensavano che la soluzione finale fosse quella. Contabilizzati con impeccabile precisione, i morti per loro erano stati soltanto numeri.

    La testimonianza di Rudolf Höss li sconvolse. Hermann Göring e Karl Dönitz obiettarono che un prussiano non si sarebbe mai lasciato coinvolgere in simili atrocità. Chiamato a testimoniare, l’ex governatore della Polonia Hans Frank, francone di Norimberga, dichiarò a proposito di Höss: «Sentire un uomo ammettere di aver sterminato a sangue freddo due milioni e mezzo di persone è una cosa di cui si parlerà per millenni». Eppure Frank aveva siglato di suo pugno gli ordini di deportazione. Il teorico del razzismo Alfred Rosenberg sostenne dal canto suo che mostrare quei documenti che lo mettevano in una posizione delicata per difendere la sua filosofia superomistica era stato un colpo basso. Peccato che tra la teoria e la pratica ci fossero stati dei cadaveri. Cosa che portò Arthur Seyss-Inquart, il temibile responsabile delle deportazioni nei Paesi Bassi, a un ragionamento curioso: «C’è un limite al numero di persone che si possono uccidere per odio o per gusto del massacro […] non c’è limite al numero di quelle che si possono uccidere con freddezza sistematica, in nome di un imperativo categorico militare». Potrebbe essere vero per la battaglia di Verdun o altre; ma, uniformi a parte, nello sterminio dei prigionieri dei lager non c’era stato alcunché di militare. Motivo per cui in seguito gli ufficiali delle Waffen

    SS

    si girarono dall’altra parte per non vedere gli orrori, tappandosi il naso con aria indignata. Ora, si stenta a credere che non sapessero nulla. Eppure alcuni imputati provarono a dichiararsi all’oscuro dei fatti.

    Dopo che l’impero nazista è sprofondato negli abissi della Storia nel 1945, tra fiamme e cenere, sono circolate così tante leggende sul Reich e sul suo leader che bisogna ancora fare chiarezza. A giudicare dai libri e dai film dedicatigli, il fenomeno Hitler, dapprima caricaturato e ridicolizzato, poi demonizzato, continua ad affascinare e a incuriosire. Come ha fatto questo personaggio aberrante, discendente di abitanti dell’Austria profonda, del misero Waldviertel al confine con la Boemia, che passava la notte nei dormitori pubblici di Vienna e Monaco, un caporaletto della Grande guerra rimasto senza lavoro, ad avere un tale ascendente sull’élite tedesca e austriaca, a richiamare moltitudini alla sua causa, a mandare incontro alla morte milioni di soldati e a fare impunemente milioni di vittime? Se ci è riuscito non è stato soltanto grazie all’aura che emanava, né al controllo che aveva sui meccanismi di un sistema ipercentralizzato, imperniato sulla sua figura e sul suo piccolo entourage di una decina di compari che gestiva gli ingranaggi di una Repubblica al tracollo. Quei delinquenti senza scrupoli ce l’hanno fatta eliminando gli oppositori, sequestrando e sottomettendo una Repubblica tedesca spaesata e distrutta. Capeggiata da un agitatore capace di spacciarsi per uomo forte, l’uomo della Provvidenza, questa banda privò lo Stato della sua sostanza e sottomise la società civile attraverso la violenza e la propaganda, per poi specializzarsi nei due ambiti in cui eccelleva: la guerra di conquista e lo sterminio di massa.

    Le ricerche storiche proseguono. Alla luce di quanto sappiamo adesso, occorre sgombrare un mucchio di leggende e stupidaggini per riportare il Terzo Reich alla sua vera dimensione, che è stata gonfiata a dismisura, e alla sua natura, che è stata spesso distorta. Magari agli spiriti romanzeschi e agli appassionati d’epica la verità sembrerà prosaica… ma per quanto ci possano rimanere male, farla prevalere sulle invenzioni paga sempre.

    1 Da non confondere con Rudolf Hess, vice di Hitler negli anni Trenta.

    Parte prima

    La capitolazione

    «Non rimaneva altro che finirla. Ma il grande tragico voleva una morte spettacolosa, e Berchtesgaden non era uno scenario adatto per morire».

    Raymond Cartier, Il Napoleone del Terzo Reich

    (Edizioni del Borgese, 1963)

    16 gennaio 1945. Adolf Hitler non dà retta al segretario Martin Bormann, che lo esorta a raggiungerlo nella sua residenza bavarese: il Berghof sul monte Obersalzberg. Come Göring e altri, Bormann ha portato la famiglia al sicuro sulla montagna magica del regime. Anche Eva Braun, l’eterna fidanzata del Führer, si è rifugiata nella regione. I generali Keitel e Jodl hanno delineato un piano di battaglia per la zona martoriata a sud (Baviera, Austria, Italia settentrionale), mentre quella a nord (Norvegia, Paesi baltici e parte della Prussia orientale) è stata assegnata all’ammiraglio Dönitz. L’esodo degli esponenti del governo e del partito verso Berchtesgaden, nella zona b, quella a sud, è incominciato. Riuscirà a resistere a lungo alle truppe americane e a prolungare il sogno hitleriano?

    La decisione di uno squilibrato

    Qualcosa spinge Hitler a voltare le spalle alla montagna magica e ad andare volontariamente incontro al proprio destino, entrando in una trappola che si è costruito con le proprie mani: il bunker di Berlino. Mosso da un impulso imperscrutabile, al ritorno nella capitale, il luogo meno protetto e più arduo da difendere, il dittatore trascina i suoi paladini e domestici incontro alla morte. Sa forse già cosa gli toccherà fare per scampare al capestro? Malgrado la diffidenza ormai quasi morbosa, il suo istinto di conservazione è compromesso. Perché Hitler è affetto da disturbo bipolare, nonché da ciclotimia. Instabile, passa da uno stato d’animo all’altro in base alle circostanze, senza perdere di vista il suo chiodo fisso.

    Anche un individuo all’apparenza normale può nascondere qualche turba mentale. Hitler aveva la propensione all’isteria di uno squilibrato; la formidabile memoria per i dettagli di un autistico. Accecato dall’iprite, un potentissimo gas bellico, nell’ottobre del 1918 il caporale Hitler era stato ricoverato all’ospedale militare di Pasewalk, poco distante da Berlino, per curarsi nel reparto di oftalmologia. Stando alla sua biografia ufficiale, in quell’occasione avrebbe temporaneamente perso la vista. Esatto. Neanche una parola, però, sulla depressione con tendenze paranoidi che necessitava di cure psichiatriche ². Guarito con l’ipnosi, Hitler è convinto che la Germania vincerà e che potrà assistere con i suoi occhi al miracolo. Una convinzione radicata. Si rassegnerà all’evidenza solo quando i russi si troveranno a pochi chilometri dal suo covo berlinese, a fine aprile del 1945.

    Le settimane precedenti le ha passate nell’Adlernest (il Nido dell’aquila), il suo quartier generale fortificato a Bad Nauheim, sui monti Taunus a nord di Francoforte, da dove, dopo il 10 dicembre 1944, ha condotto la vana controffensiva delle Ardenne. Il feldmaresciallo von Rundstedt, che dopo due disfatte è stato richiamato dalla pensione per condurre l’operazione, è stato ricompensato con una Croce di ferro con gladi e foglie di quercia. «Si riposi», gli ha detto con compassione Hitler. «Avrò ancora bisogno di lei». A Keitel ha confidato: «Rundstedt è troppo vecchio. Ormai non ce la fa neanche a spostarsi da una parte all’altra del fronte». La sconfitta è sempre colpa di generali e marescialli.

    A Natale, poco dopo un intervento alle corde vocali, Hitler ha fatto una dichiarazione tonante alla radio e annunciato la messa a punto di un’arma di sterminio. Ma ormai è tardi per completare la bomba all’uranio, e anche l’aereo a reazione ha spiccato il volo in ritardo. Quanto alle catene di produzione dei missili

    V2

    , quelle si sono bloccate.

    Bormann avrebbe dovuto sapere che il capo, con la sua proverbiale testardaggine incosciente, preferiva il rischio alla sicurezza, l’azzardo alla certezza. Ma, nonostante lo conoscesse bene, ha sottovalutato quell’aspetto di Hitler, per il quale la guerra è il più nobile dei mestieri. Solo durante la Grande guerra era riuscito finalmente a stare bene con sé stesso, cosa che i suoi superiori avevano scambiato per coraggio. Grazie al maresciallo maggiore Gutmann aveva ottenuto la Croce di ferro di

    I

    classe. Nel 1923 Hitler aveva dato per l’ennesima volta prova di incoscienza nel putsch intentato a Monaco: il proiettile che avrebbe dovuto ucciderlo aveva colpito il compagno che gli stava accanto. Dopo quel fallimento, convinto da un’amica a non togliersi la vita quando aveva già la pistola alla tempia, fu arrestato e trascinato in tribunale per alto tradimento e scampò la forca solo grazie al suo pathos patriottico, in sintonia con l’epoca.

    Avendo più volte sfiorato la morte, Hitler si considera un eletto, protetto dalla Provvidenza. Emil Mallwitz, un ex combattente delle

    SS

    , mi ha parlato della sua temerarietà. Originario di Norimberga, Mallwitz aveva lavorato come prigioniero di guerra in un paesino del Béarn, vicino a Pau, dove aveva infine trascorso la vita dopo aver sposato una francese della zona. È morto nel 2015, a novant’anni. L’avevo incontrato diverse volte. Liceale reclutato d’ufficio alla soglia della maggiore età, poi soldato scelto ferito più volte, Mallwitz andava fiero della Croce di ferro che aveva ricevuto. «Come Hitler?». Aveva annuito. Conducente della

    SS

    Division Totenkopf (Testa di morto), nel 1943 aveva scortato il Führer fino al fronte orientale. Un giorno d’inverno, appena smontato dal treno per un’ispezione, Hitler aveva ordinato agli ufficiali di dare i loro cappotti ai soldati semplici che gli presentavano le armi. Dopodiché era risalito sull’auto di Mallwitz, una di quelle specie di jeep tedesche senza il tettuccio chiamate autotinozze (Kübelwagen), per attraversare un settore sotto tiro dei russi. Il giovane autista non voleva rischiare di venire incolpato della morte dell’uomo più importante della Germania. Doveva proseguire? «Avanti, andiamo!», aveva replicato perentorio Hitler. Qualche giorno dopo era stata la volta di Himmler di andare a far visita alle truppe e salire sul fuoristrada. Ma quando si avvicinarono al territorio esposto al fuoco nemico, il Reichsführer

    SS

    chiese di fare inversione di marcia.

    Ho parlato con diversi uomini che sono stati vicini al dittatore. A sentirli, era avvezzo a decisioni repentine e imprevedibili. Diversi attentati alla sua persona furono sventati proprio perché disdiceva gli appuntamenti all’ultimo minuto e raramente si trovava nel luogo previsto. Bormann pensava davvero che un uomo simile avrebbe accettato di rintanarsi nel Berghof nell’attesa di un cambiamento cosmico o dell’arma prodigiosa che avrebbe salvato il Reich, contando magari sullo scontro frontale tra sovietici e americani che avanzavano l’uno verso l’altro nelle pianure del nord, per mettere alle strette la Germania ³? Impaziente e imprevedibile, il capo aveva fatto orecchie da mercante. Non era tipo da nascondersi o tirarsi indietro. Sarebbe andato fino in fondo, anche a costo di sparire insieme alla Germania. Un piano che Bormann e altri non condividevano per niente.

    La scelta di Berlino

    Da Bad Nauheim il treno speciale ⁴ del Führer si mette dunque in marcia per Berlino. Partito nel cuore della notte, fila nell’oscurità fredda e nebbiosa. I bombardieri angloamericani, padroni del cielo, bombardano a tappeto la Germania. Il convoglio si ferma a Grunewald, il quartiere boscoso a sudovest della capitale da cui partono i treni della morte diretti ad Auschwitz e Theresienstadt. Gli ultimi chilometri fino alla Cancelleria in centro città vengono percorsi in auto. Bisogna evitare che i cittadini vedano sbarcare il Führer e il suo entourage.

    A 8,20 metri dal livello del suolo, sotto il giardino della nuova Cancelleria distrutta dalle bombe, il Führerbunker è il tredicesimo e l’ultimo dei quartieri generali di Hitler. È dotato di un antebunker (Vorbunker) vicino alla superficie, in prossimità dell’atrio della vecchia Cancelleria. I due ambienti sono collegati tra loro e alla Cancelleria tramite scalette. Il complesso è costituito da una trentina di piccole stanze. Un’uscita di sicurezza dà sul giardino. Protetto da uno strato di cemento spesso quattro metri circa, il bunker ha retto benissimo alle bombe e ai colpi d’artiglieria.

    Hitler si porta dietro la sua cerchia di cortigiani e servitori stretti, l’ultima équipe. Ci sono il maggiordomo – l’Obersturmbannführer

    SS

    Heinz Linge ⁵ – e il suo addetto militare: l’Obersturmbannführer

    SS

    Otto Günsche, ufficiale della Leibstandarte Adolf Hitler, membro dei servizi di sicurezza del Reich, ex comandante di compagnia sul fronte orientale. Seguono l’aiutante di campo Julius Schaub, le quattro segretarie – Johanna Wolf, Gerda Christian, Christa Schröder e Traudl Junge – e l’infermiera Erna Flegel. Si è portato anche l’autista, l’Obersturmbannführer Erich Kempka, la cuoca dietista di origini russe Costanze Manziarly, la sua guardia del corpo personale e gli uomini dello staff tecnico. Tra questi ultimi, l’Oberscharführer Rochus Misch, membro della Leibstandarte, telefonista di Hitler dal 1940 ⁶. Infine la cagnetta Blondi, alla quale il Führer presta più attenzione che ai collaboratori. Per un mese la porterà a spasso per il giardino della Cancelleria, finché il fuoco nemico non si intensificherà.

    Il suo ministro preferito, Albert Speer, lo aspetta. Joseph Goebbels verrà ricevuto solo due giorni dopo. Sono presenti anche i capi della polizia, lo Standartenführer

    SS

    Heinrich Müller, capo della Gestapo, e l’Obergruppenführer

    SS

    Ernst Kaltenbrunner, capo dell’Ufficio centrale per la sicurezza del Reich, l’

    RSHA

    (Reichssicherheitshauptamt), aperto nel 1939 da Himmler per controllare la polizia politica (la Gestapo, abbreviazione di Geheime Staatspolizei), la polizia giudiziaria (la Kripo, abbreviazione di Kriminalpolizei) e i servizi segreti delle

    SS

    (l’

    SD

    , acronimo di Sicherheitsdienst).

    Hermann Göring vive da signore nel suo maniero di Carinhall, a nord di Berlino. Quanto a Heinrich Himmler, lui sta in campagna nella proprietà del suo massaggiatore, il dottor Kersten. Come Göring, la cui Luftwaffe è stata decimata, ha perso credibilità. A capo delle Waffen

    SS

    prima nel Bade-Württemberg e poi a Bratislava, Himmler è stato sollevato dal comando a marzo, dopo la perdita della Pomerania. In Ungheria i contrattacchi condotti dalle divisioni scelte delle

    SS

    capitanate da Sepp Dietrich ‒ la Leibstandarte Adolf Hitler, la Das Reich e la Hitlerjugend ‒ battono in ritirata di fronte ai sovietici dopo aver subito perdite ingenti.

    Martin Bormann, segretario personale del Führer con il titolo di ministro, non è ancora sul posto. È l’unico dell’entourage di Hitler ad avere i piedi per terra. Senza di lui il Terzo Reich sarebbe già crollato. Se il capo gli avesse dato retta, sarebbe durato un pochino di più. Hitler avrebbe potuto resistere qualche giorno in più sull’Obersalzberg bavarese, e i suoi servitori non sarebbero caduti in mano ai russi. Bormann si era guadagnato la stima di Hitler avviando negli anni Trenta la costruzione del Berghof, un enorme pied-à-terre sovrastato a 1834 metri di altitudine da un rifugio panoramico (il Kehlsteinhaus), un regalo per il cinquantesimo compleanno del Führer, il 20 aprile 1939. Bormann vi si era dedicato anima e corpo, senza badare a spese, stremando gli operai, espropriando i contadini dietro minaccia di mandarli nei campi di concentramento. Dopodiché, sotto il lussuoso rifugio sulle Alpi, aveva fatto scavare un fortino sotterraneo con un vasto reticolo di tunnel e ripari, ben equipaggiato e difeso dai reggimenti delle

    SS

    . Hitler gli aveva messo a disposizione una baita per la famiglia. I sette figli e la moglie Gerda andavano lassù per respirare l’aria buona delle Alpi.

    Come mai nel gennaio del 1945 Hitler non è andato a rifugiarsi nelle catacombe di cemento armato del Berghof? Perché Berlino? Ormai sembra più attratto dal crepuscolo che dalla luce. Una decisione che accelera la sua rovina e quella della sua cerchia. A quanto pare Bormann non capisce che, agli occhi del Führer, la capitale del Reich rappresenta il potere conquistato a fatica. Come potrebbe immaginare che il suo capo aspira alla morte? Bormann ha quarantacinque anni. Vuole vivere e godersi il potere. Non ha intenzione di conquistarselo tradendo il capo, ma eliminando e allontanando i rivali. Riesce a raggiungere il suo semidio soltanto due giorni dopo. Eva Braun lo raggiunge il 7 marzo, contravvenendo alla richiesta del compagno, che l’ha pregata di restare al sicuro in Baviera. In quei giorni gli aerei possono ancora atterrare e decollare dall’aeroporto di Berlino Tempelhof. Alla compagna del Führer viene riservata una stanza nel bunker con una piccola anticamera. Goebbels sta invece in un rifugio privato a pochi passi da lì. Con sua moglie Magda e i sei figli, si trasferirà in quello del Führer il 22 aprile, dove occuperà una stanza dell’edificio centrale, mentre la moglie e i bambini si asserraglieranno nella costruzione adiacente.

    Devotissima a Hitler, Magda Goebbels ha deciso di togliersi la vita insieme a lui. Dal bunker, scrive al primogenito Harald, che lavora nella Luftwaffe: «Figliolo mio, […] il nostro meraviglioso ideale sta crollando, e insieme a esso tutto ciò che di bello, mirabile, nobile e buono ho conosciuto nella vita. Non vale la pena di vivere nel mondo che seguirà il nazionalsocialismo, ed è per questo che ho portato qui anche i bambini. Sono troppo buoni per la vita che arriverà dopo di noi, e con la sua benevolenza Dio mi capirà se gliela risparmio».

    Hitler potrebbe tentare di salvare, se non sé stesso e le persone a lui vicine, almeno i soldati e i suoi concittadini. Per esempio alzando bandiera bianca per dichiarare Berlino città aperta, com’era successo a Parigi nel giugno del 1940 o a Roma nel 1944. Ma non se ne cura. Lui è l’uomo del tutto o niente. E poi sa che è spacciato. Vivrà la sua agonia al livello dei lombrichi e delle talpe, lasciando a loro i cittadini rifugiatisi nelle altre cantine e bunker ⁷.

    Bormann: l’uomo chiave

    Non è strano che Bormann, il confidente e il factotum di Hitler, al giorno d’oggi sia stato dimenticato e sottovalutato, quando fu invece l’uomo chiave del Reich? Non era forse diventato, sgomitando, il personaggio più potente del regime? Via via che Hitler perdeva le forze, il segretario aveva iniziato ad avere su di lui un certo ascendente, con la prudenza necessaria alla frequentazione di un individuo imprevedibile e infiammabile come il Führer. Qualsiasi decreto di Hitler passava prima dalla scrivania di Bormann. Si dice addirittura che alcuni fossero stati siglati proprio da lui, e persino che falsificò la firma del capo. Il Terzo Reich era una dittatura strettamente burocratica e Bormann fu l’uomo dell’apparato. Si costruì una carriera anticipando i minimi desideri del Führer, che era impegnato in una guerra sempre più pesante e irrisolvibile ma si considerava un comandante indispensabile.

    Bormann scalò la gerarchia gradino dopo gradino. Membro dei Corpi franchi (i Freikorps), dopo un brevissimo periodo al fronte, a diciott’anni, nel marzo del 1925 era stato condannato a un anno di carcere per complicità con Rudolf Höss, l’assassino di un presunto delatore. Dopo la scarcerazione, nel 1927 si unì al partito nazista di Turingia, prima come ufficiale di stampa regionale, poi come responsabile regionale nel 1928. Nell’ottobre del 1933 diventò Reichsleiter, e a novembre deputato del Reichstag. Tra il 1933 e il 1941 svolse l’incarico di segretario personale di Rudolf Hess, il vice del Führer. La sua ascesa fu talmente rapida che il 30 giugno 1940 accompagnò Hitler a Parigi insieme ad Arno Breker, Albert Speer, Hermann Giesler e altri ufficiali superiori.

    Pessimo oratore, Bormann non possiede l’ammaliante eloquenza di Hitler, come neanche l’incisività sferzante di un Goebbels e la prestanza un po’ tronfia di un Göring. Ma Himmler, il mistagogo fondatore delle

    SS

    e capo della polizia, lo rispetta con cognizione di causa. Nel 1935 lo nomina Gruppenführer delle Waffen

    SS

    . Il Reich conferiva ai suoi dignitari dei gradi

    SS

    onorifici, in modo che potessero sfilare con l’uniforme, più scenografica degli abiti civili. Persino Hitler, dopo la salita al potere nel 1933, non si mostrerà mai in pubblico senza galloni e mostrine, la Croce di ferro sul petto. Ma dalla segretaria Traudl Junge sappiamo che nell’intimità «indossava pantaloni neri, la giacca a doppiopetto grigioverde, una candida camicia e una cravatta nera. […] Solo sulla sinistra erano appuntati il distintivo d’oro del partito, la Croce di ferro e il distintivo nero dei feriti» ⁸.

    Il Reichsmarschall Göring disprezza il burocrate Bormann, che vanta il titolo di generale di brigata delle

    SS

    senza averlo conquistato sul campo di battaglia. Caposquadriglia con all’attivo ventidue vittorie aeree, nel giugno del 1918 Göring era stato insignito del prestigioso Ordine al merito dal Kaiser in persona, ma dopo l’armistizio era stato estromesso dall’esercito a causa delle sue dichiarazioni ultranazionaliste. Tornato in auge, diceva che Bormann passava «metà del tempo a tenere d’occhio la sua poltrona e l’altra metà ad agognare quella del vicino». Formidabile funambolo del circo nazista, Bormann doveva la promozione agli errori madornali commessi dai suoi rivali e alla sua onnipresenza. Non esiste una foto di gruppo con Hitler in cui Bormann non appaia alle sue spalle o in un angolo. Era diventato la sua ombra invadente, l’"eminenza grigia ⁹".

    La montagna magica

    Pragmatico e lucido, Bormann individuò i punti deboli della personalità di Hitler, in particolare l’attaccamento a un luogo mitico e a un amico scomparso. Sulla montagna bavarese dell’Obersalzberg il portatore di luce aveva per nome Dietrich Eckart ¹⁰. Certo, a Vienna e a Monaco l’agglomerato di idee aberranti chiamato nazismo si era insinuato a poco a poco nella mente del giovane Hitler, un emarginato senza soldi e titolo di studio, dalle letture variegate ancor prima della Grande guerra. Ma fu Dietrich Eckart il guru che assemblò quella mescolanza eterogenea e plasmò la visione di Hitler, quella che figurerà nel breviario Mein Kampf. Più vecchio di lui di vent’anni, di origine borgese ed erede di una fortuna che sperperava, Eckart era un propugnatore di idee di estrema destra, un fanatico delle teorie razziste ottocentesche. Tra il 1919 e il 1920 pubblicò in collaborazione con Gottfried Feder e Alfred Rosenberg ¹¹ il periodico antisemita «Auf gut Deutsch ¹²» (In buon tedesco), del quale Hitler era un assiduo lettore. All’epoca faceva l’apologia di uno Stato tedesco «forte e scevro dei mostri e dei rifiuti che la natura partorisce regolarmente». Una sorta di inno al genocidio… Fautore dell’eugenetica, Eckart non fu solo uno dei primi a concettualizzare il nazismo, ma anche il remoto ispiratore dell’Olocausto.

    Tra l’abbiente Eckart e l’ex senzatetto Hitler c’era un bel divario. Hitler aveva conosciuto la miseria nera. Non aveva dormito spesso per strada, ma molte volte aveva passato la notte nei dormitori pubblici. Aveva ritrovato la dignità indossando l’uniforme grigioverde, nel sanguinario delirio delle trincee. A quella ripresa era seguita l’umiliante sconfitta della Germania. I due però avevano una cosa in comune: il fallimento. Eckart come autore drammatico, Hitler come pittore. Geni incompresi, vittime di una società che non li capiva, erano in sintonia. Alla soglia degli anni Venti soggiornarono più volte insieme sulla montagna magica. Hitler si registrava alla pensione Moritz con il nome M. Wolff. Il ricco Eckart pagava il conto. Lassù il futuro agitatore nazista assorbì le idee del suo mentore. E i due emarginati si cullarono nelle loro manie di persecuzione, attribuendo le proprie sventure a odiosi cospiratori invisibili: il complotto ebraico mondiale.

    Risale ai tempi delle trincee e di Eckart il patto stretto da Hitler con il tristo mietitore. Non gli inculcò solamente le idee xenofobe, ma anche l’attrazione per la morte. «Ballerà pure, ma la musica gliel’ho data io», avrebbe detto Eckart prima di morire. Sarà lui ad affidargli la missione di sradicare gli spiriti malvagi e germanofobi mobilitandogli contro il popolo: das Volk. Il popolo non inteso come l’insieme dei cittadini elettori, ma come una comunità definita dall’etnia, in opposizione alle razze straniere ritenute inferiori. I nazisti impiegheranno il termine völkisch, aggettivo identitario ben più forte di populista.

    Grazie a Bormann, Hitler passò gran parte degli anni Trenta a respirare l’aria buona del Berghof insieme a Eva Braun, ai collaboratori più stretti, alle guardie

    SS

    e a un codazzo di adulatori. Lassù prese decisioni fondamentali… Si pensi al nome dato all’offensiva contro l’

    URSS

    , l’operazione Barbarossa: secondo la leggenda, l’imperatore Federico Barbarossa sarebbe stato sepolto proprio su una vetta dell’Obersalzberg, dalla quale un giorno sarebbe risorto per riprendersi il suo regno. Che Hitler si considerasse una sua reincarnazione o un suo messaggero?

    Il doppio Stato

    Per affermarsi Bormann approfittò di un punto debole poco conosciuto del Terzo Reich: il caos e l’anarchia che regnavano in seno al microcosmo hitleriano. Contrariamente all’ordine e alla disciplina tanto sbandierati, il Reich non era una Mannschaft (squadra) coesa e disciplinata, ma un nido di vipere. A qualsiasi livello, tra i funzionari e i dignitari fervevano lotte feroci per accaparrarsi il potere e le simpatie di Hitler. Una scelta deliberata del Führer, che metteva i suoi accoliti in competizione, affidando per esempio lo stesso compito a più persone o facendo in modo che le loro funzioni si accavallassero. Dividere per governare meglio….

    L’

    NSDAP

    (il partito nazionalsocialista), al contempo Stato e movimento, aveva un organigramma nebuloso. A parte il ruolo del Führer, gli incarichi non erano mai definitivi. I dirigenti dovevano conquistarsi il posto e poi fare in modo di tenerselo stretto, di lì le perenni rivalità e un equilibrio precario con continui cambi nelle posizioni locali. In principio Hitler si fece arbitro nelle rivalità tra i pezzi grossi locali e regionali, lasciando che ciascuno si imponesse da solo e confondendo le idee circa le sue intenzioni. Bormann, al quale si affidava completamente per la gestione dell’

    NSDAP

    , approfittò di quegli antagonismi. A questo è da aggiungere la doppia faccia del Reich: dietro un’apparenza statale presentabile, si nascondeva un partito forte e pugnace, un Führer al contempo cancelliere del Reich; dietro il classico esercito di reclute e ufficiali professionisti ‒ la Wehrmacht ‒ si celava la fanatica frangia politica delle Waffen

    SS

    ; infine c’era una diplomazia avvezza al doppio gioco, la svastica al braccio confutata dal colletto incravattato.

    Persino i suoi protagonisti erano doppiogiochisti. L’ha detto benissimo l’ex segretaria di Goebbels, Brunhilde Pomsel, morta a centodieci anni il 27 gennaio 2017. Ricordando il suo capo, disse che l’immagine del nano delirante, del propagandista che sbraitava e si sbracciava era studiata. Nel quotidiano Goebbels era «un ometto che si curava molto», un uomo «gelido e posato, educato e benvestito», oltre che «un grande attore». Suppergiù come Hitler, roboante imprecatore davanti alle folle, crudele tiranno ferreo e insensibile all’inseguimento di obiettivi spropositati in nome di un’ideologia chimerica, ma anche quarantenne e poi cinquantenne azzimato, cordiale e affabile nel privato.

    La strategia militare di Hitler fu altrettanto duplice. Oltre alla guerra contro un nemico esterno, sostanzialmente sovietico e poi angloamericano, in Germania e nei territori conquistati si svolgeva una guerra intestina di terrorismo poliziesco. Nella Francia occupata si è parlato spesso del paradossale mix di umanità civilizzata e bestiale crudeltà che contraddistinse il nazismo. Esiliato negli Stati Uniti, il politologo Ernst Fraenkel ne parlò nel Doppio Stato ¹³, un saggio del 1941 nel quale analizzò – prima della disamina strutturale di Franz Neumann in Behemoth ¹⁴ – il sistema politico nazista. Fraenkel identificò uno Stato normativo (Normenstaat), che permise all’economia di mercato di continuare a funzionare per la fascia di popolazione non perseguitata, e uno Stato discrezionale (Maßnahmenstaat), che imperversava perlopiù attraverso misure meramente arbitrarie contro le categorie di cittadini dichiarati nemici del regime.

    Quando nel 1933 Hitler arrivò alla Cancelleria, e a maggior ragione quando si lanciò alla conquista dell’Europa nel 1939-1941, iniziò a disinteressarsi del funzionamento del partito. Ammetterà addirittura di averne «perso completamente di vista l’organizzazione». E fu in quello spiraglio che si infilò Bormann. Hitler aveva detto: «Qui il partito governa lo Stato». Bormann fu l’apparatčik che lo sollevò da quel compito. Aveva una rara attitudine a gestire un sistema così ambiguo. Molto terra terra, contadino nell’animo, nel pandemonio hitleriano spiccava. Allo scoppio della guerra, il suo potere si resse sempre di più sulle carenze del capo, in un regime che tuttavia dipendeva in toto da lui.

    Attorniato da rivali

    Bormann dovette blandire diversi squali. In primis l’anima dannata del Führer: il renano Joseph Goebbels che aveva predisposto l’ascesa del capo e lo aveva reso agli occhi del popolo un semidio. ministro della Propaganda e dell’indottrinamento del popolo, Goebbels aveva svariate carenze fisiche e morali, ma un’intelligenza e una cattiveria diaboliche. Nella sua autobiografia, Traudl Junge racconta che un giorno, alla tavola di Hitler, il capo del servizio stampa del Reich commentò stupidamente che a Goebbels venivano le idee migliori quando stava a mollo nella vasca da bagno; e il ministro replicò: «Allora dovrebbe farsi il bagno più spesso, signor Dietrich!». A causa della bassa statura ‒ un metro e sessantadue ‒ i tedeschi lo soprannominavano il Germano ristretto (der Schrumpfgermane) e il Nano velenoso (der Giftzwerg). Bormann, dal canto suo, lo considerava vittima delle sue stesse menzogne. A suo avviso, l’idealismo pseudoartistico, il gusto per l’intrigo e la parlantina di Goebbels celavano «un’indole malefica quasi senza eguali» ¹⁵.

    Del Reichsmarschall Hermann Göring, Bormann detestava il tenore di vita principesco e dispendioso, quanto la pigrizia sul lavoro. Non era stato forse lui nel 1941 a cercare di dissuadere Hitler dall’assumerlo come segretario personale? Il Führer non gli aveva dato ascolto, ma affronti simili non si dimenticano. Nel 1939 Göring si era detto contrario alla guerra finché l’Inghilterra fosse stata in ordine di battaglia. L’anno seguente la sua Luftwaffe non era riuscita a prendere la sacca di Dunkerque, consentendo così a quattrocentomila soldati britannici di rimbarcarsi alla volta dell’Inghilterra; come non era stata capace di salvare la

    VI

    armata tedesca a Stalingrado e di difendere la Germania dai bombardamenti, obiettivi che aveva assicurato di poter raggiungere. Per questi motivi era quasi caduto in rovina. Continuò però a spopolare tra i tedeschi, che si facevano beffe di lui, della sua pinguedine e del gusto per lo sfarzo. Hitler non aveva avuto il coraggio di scacciare quel compagno della prima ora, il più colorito dei suoi vecchi beniamini, oltre che il più delirante. In genere il prussiano bardato di medaglie viveva ritirato nelle sue terre, a pavoneggiarsi delle straordinarie vittorie riportate nella prima guerra mondiale. Nei suoi giorni di gloria, nel podere di Carinhall, nella foresta di Schorfheide a nord di Berlino, si atteggiava da monarca, viveva come un gran signore, invitando il jet set d’Europa, principi e industriali, artisti e dirigenti. Probabilmente nel dopoguerra in molti sono arrossiti di vergogna. Perché le serate trascorse dai Göring non avevano nulla a che fare con la Realpolitik, ma solamente con l’adulazione e i peccati di gola. Bormann non lo considerava un avversario temibile. Sapeva che, fatuo e tronfio com’era, Göring sarebbe caduto in qualsiasi trappola.

    Con Heinrich Himmler, che dirigeva tutti i reparti di polizia e disponeva dell’esercito politico delle Waffen

    SS

    , il segretario del Reich intratteneva rapporti più ambigui. Doveva trattarlo con riguardo. Il bavarese non si fidava di Bormann, ma sapeva che aveva rapporti quotidiani con il Führer. E l’unica persona per la quale stravedeva Himmler era Hitler. Così Bormann era riuscito a diventarne il confidente. Era nel suo studio che andava a piagnucolare il Reichsführer

    SS

    quando l’amico Adolf gli metteva il broncio. Il 16 gennaio 1943, per esempio, Bormann scrisse a sua moglie: «Come ti ho detto, la visita di oggi di Heinrich H. è stata a dir poco divertente: è ferito nel profondo e, a vederlo, né da oggi né da ieri. Il capo lo maltratta ingiustamente […]. Ha respinto tutte le mie obiezioni, allora gli ho detto: Be’, in questo caso il capo ha il diritto di essere ingiusto».

    Himmler, che non parlava mai in pubblico senza fingere il benestare di Hitler, anche quando non ce l’aveva, sapeva che Bormann avrebbe potuto dire al Führer due paroline in suo favore. Occupandosi dei lavori sporchi, si dava arie enigmatiche, da grande sacerdote della nuova religione pagana delle rune e del sole nero tracciati nella terra della sua Wewelsburg, in Vestfalia, il centro iniziatico dei comandanti

    SS

    . Per gestire le operazioni di polizia e i trentacinque o trentasette campi di concentramento tedeschi, nonché i sette polacchi, aveva reclutato migliaia di carnefici e sicari. Malgrado il viso rubicondo, i baffetti da sorcio e gli occhiali dalle lenti rotonde che gli davano un’aria da inoffensivo maestro di scuola, Himmler era l’essere più abietto del regime.

    Il vero rivale di Bormann era Albert Speer. Era quel bellimbusto di origini borghesi, figlio e nipote di architetti come lui, sempre in abiti civili, raffinato e prestante dall’alto del suo metro e ottanta, il favorito di Hitler. Il giovane diventato ministro per gli Armamenti non nutriva altro che disprezzo per Bormann, che aveva soprannominato il Mefistofele del Führer. In compenso Bormann lo considerava un bugiardo opportunista, un vanitoso che agiva sempre per il proprio tornaconto. Invidiava l’affetto che il capo provava per un uomo al quale avrebbe voluto somigliare: un architetto, un artista, alla stregua dello scultore Arno Breker e della cineasta Leni Riefenstahl. Speer aveva inoltre colmato il vuoto lasciato nel cuore di Hitler dalla partenza di Hess per l’Inghilterra. Bormann non era riuscito a usurparne il posto: era l’indigente assunto dal Führer per non doversi occupare delle rogne.

    Rudolf Hess era stato il primo capo di Bormann, al quale aveva fatto da segretario personale. Ma da quando aveva inaspettatamente preso il volo per la Scozia nel maggio del 1941, se n’erano perse le tracce. Vice e confidente di Hitler, presidente della Cancelleria dell’

    NSDAP

    , alla vigilia dell’imminente entrata in guerra della Germania contro l’

    URSS

    avrebbe voluto raggiungere sottotraccia un accordo di pace con la Gran Bretagna. Uno dei sogni che il Führer e Ribbentrop, il ministro degli Esteri, non erano riusciti a realizzare. Insieme all’Oberführer

    SS

    anglofilo Walter Darré, responsabile delle politiche agrarie del Reich, e al capitano Karl-Heinz Pintsch, attendente di Hess, Bormann, era uno dei tre uomini al corrente dei progetti del delfino di Hitler. La cosa avrebbe potuto ritorcerglisi contro e invece, colpo di fortuna o colpo da maestro, fu assunto come segretario di Hitler ed ereditò la Cancelleria del partito, ossia l’amministrazione centrale del governo. Pur restando dietro le quinte, darà subito prova di virtuosismo nella lotta politica e amministrativa.

    Un’ambizione studiata

    Nato nel 1900 vicino alla cittadina di Halberstadt, in Sassonia-Anhalt, Bormann, l’ultimo despota al cuore del Reich, veniva da una famiglia di umili origini. Suo padre era stato trombettista in un’orchestra militare e poi era diventato impiegato delle poste. Luterano convinto, aveva chiamato il figlio Luther, ma Martin non aveva aderito alla sua fede. Peraltro, tra i gerarchi nazisti, sarà quello che profonderà maggiore impegno nel condurre la campagna contro il cristianesimo. Più che pagano era ateo – a differenza del suo primo protettore Rudolf Hess e del collega Heinrich Himmler. Ma dopo il 1943-1944, quando la situazione precipitò, fu costretto a patteggiare con il Vaticano.

    Benché avesse dovuto abbandonare gli studi alle superiori, il giovane Bormann aveva preservato un briciolo di sapere. Si era nutrito delle idee eterogenee dei gruppi antisemiti e paramilitari che dopo la sconfitta del 1918 erano spuntati come funghi. Autodidatta, grande lettore, con molta probabilità fu l’unico gerarca nazista ad aver letto Il capitale di Marx e ad aver sfogliato i testi di Lenin. Aveva scritto per la rivista propagandistica di Turingia «Der Nationalsozialist» e si spacciava per un uomo di lettere. Quando nel 1945 fu evacuata Berlino, le prime cose che fece spedire in un luogo sicuro furono i suoi libri. Ma i suoi gusti letterari si limitavano alla narrativa popolare. Lo prova la corona di fiori che posò sulla tomba dell’autore di romanzi rosa dell’epoca Kurt Kortum. Affettava un’aria falsamente bonaria e rifuggiva la notorietà, ma eccelleva nell’arte di rendersi indispensabile. Aveva raccolto intorno a sé un nutrito staff di esperti, e li aveva sistemati un po’ dappertutto. Diventò il finanziere segreto di Hitler, il suo informatore all’interno del partito e, a partire dal 1943, praticamente il suo unico uomo di fiducia, amministrandone il patrimonio, che fece fruttare senza rubare un soldo. Seppe gestire saggiamente i diritti dell’autobiografia del Führer, il Mein Kampf di cui lo Stato donava una copia come regalo di nozze a tutti i neosposi. Fece anche arricchire il partito acquisendo le quote dell’impero industriale Krupp ed estorcendo regali alla famiglia Thyssen, che aveva un patrimonio leggendario ¹⁶. Il tesoriere dell’

    NSDAP

    , Franz Xaver Schwarz ¹⁷, era all’oscuro di queste transazioni. Scaltro ma onesto, Bormann non attinse mai dalla miniera d’oro e non trasse alcun profitto dalle elargizioni che Hitler dispensava ai suoi generali e ministri. Ciò portò a supporre, probabilmente a torto, che avesse messo al riparo da qualche parte all’estero un tesoro nascosto accumulato nel tempo. Ma nelle lettere alla moglie Bormann scriveva in tono sognante della villa che il Führer gli avrebbe regalato dopo la guerra… Anche se nell’ultimo periodo riuscì a comprare una casa nel Meclemburgo, vicino a Berlino. Negli appunti scriveva che, vista la sua posizione, voleva avere una reputazione specchiata. Disdegnava sia le onorificenze sia le medaglie. Il potere non l’aveva inebriato.

    Mastino con un fiuto da volpe, Bormann aveva

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