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I figli segreti di Hitler
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I figli segreti di Hitler
E-book253 pagine3 ore

I figli segreti di Hitler

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Una storia vera che devono sapere tutti

La vera storia del progetto Lebensborn, il più agghiacciante esperimento dei nazisti

A soli 9 mesi, Erika Matko viene sottratta alla sua famiglia in Jugoslavia e trasferita in Germania per essere inserita all’interno di uno degli esperimenti più agghiaccianti condotti dal nazismo: il Lebensborn, un programma che prevedeva la creazione di una nuova razza ariana.
La piccola Erika era stata selezionata perché, contrariamente ai suoi fratelli, aveva occhi azzurri e capelli biondi, ed era quindi considerata – secondo gli standard dei nazisti – ariana. La bambina viene affidata a dei genitori adottivi, che la ribattezzano Ingrid von Oelhafen, nascondendole la sua origine. Solo molti anni dopo Erika/Ingrid viene gradualmente a conoscenza della verità. Da quel momento, comincia il calvario per cercare la sua vera famiglia, un doloroso viaggio che passerà attraverso la scoperta delle atrocità commesse dai nazisti in nome del Lebensborn: il rapimento di decine e decine di migliaia di bambini destinati al programma e l’uccisione di molti altri che non rientravano negli standard previsti. Una volta arrivata nel suo paesino d’origine, però, Erika non troverà ancora pace: verrà a sapere che un’altra donna ha utilizzato il suo nome e ha vissuto la sua vita…

L’orrore non finisce mai.
Dalle parole di chi lo ha vissuto.

«Scioccante… ho dovuto prendere dei momenti di pausa durante la lettura per riflettere. Questo è un importante documento, che chi si interessa alla storia del Terzo Reich o chi si preoccupa del disastroso impatto delle politiche basate sul concetto di supremazia ha il dovere di leggere.»

«In un’epoca in cui quasi niente riesce a sconvolgere le coscienze occidentali, scopriamo che c’è ancora molto per cui sconvolgersi nelle storie vere. E la storia di Ingrid è dolorosamente vera. I figli segreti di Hitler è un libro che non dimenticherete in fretta dopo aver letto l’ultima pagina.»
Ingrid Von Oelhafen
è un’ex fisioterapista che vive in Germania, a Osnabrück. Per lunghi anni ha svolto ricerche sulla propria drammatica storia personale e sul progetto Lebensborn.
Tim Tate
documentarista pluripremiato, è autore televisivo di successo e autore di diversi bestseller in Inghilterra su temi d’inchiesta e attualità. Da qualche anno dirige una sua casa di produzione, la Interesting Films. Alcuni dei suoi documentari sono stati premiati da Amnesty International.
LinguaItaliano
Data di uscita16 nov 2015
ISBN9788854187948
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    I figli segreti di Hitler - Tim Tate

    1

    Agosto 1942

    Gli uomini […] devono essere fucilati, le donne imprigionate e trasferite nei campi di concentramento, mentre i figli devono essere strappati alla loro madrepatria e trasferiti nei territori del vecchio Reich.

    Heinrich Himmler, Reichsführer-SS, 25 giugno 1942

    Cilli, Jugoslavia occupata, 3-7 agosto 1942

    Il cortile della scuola era affollato. Centinaia di donne, giovani e meno giovani, stringevano le mani dei figli e cercavano uno spazio libero nella calca. Poco discosti, i soldati della Wehrmacht, con i fucili a tracolla, osservavano le famiglie affluire lentamente dalle cittadine e dai villaggi vicini.

    Le donne erano state convocate dai loro nuovi padroni tedeschi con l’ordine di portare alla scuola i figli per sottoporli ad alcuni esami medici. Al loro arrivo le avevano arrestate e costrette ad aspettare. Otto Lurker, comandante della polizia e dei servizi di sicurezza della regione, osservava rilassato e impassibile – con le mani infilate nelle tasche – mentre il cortile si riempiva di gente. Un tempo Lurker era stato il carceriere di Hitler; adesso era il più fedele accolito del Führer nella Bassa Stiria. Ricopriva il rango di SS-Standartenführer – l’equivalente di un colonnello dell’esercito –, ma quella mattina d’estate indossava informali abiti civili.

    Da sedici mesi la Jugoslavia era sotto il dominio nazista. Nel marzo del 1941, dopo che le confinanti Ungheria, Romania e Bulgaria erano entrate a far parte dell’alleanza delle nazioni balcaniche schierate con il Reich, Hitler aveva esercitato pressioni sul sovrano del Regno di Jugoslavia, il principe reggente Paolo, affinché si allineasse con gli altri Paesi. Il principe e il suo gabinetto si rassegnarono all’inevitabile, schierandosi con le potenze dell’Asse ma l’esercito – i cui vertici erano a maggioranza serba – attuò un colpo di stato e destituì Paolo, sostituendolo con il cugino di secondo grado, il diciassettenne principe Pietro.

    Il 27 marzo la notizia della rivolta giunse a Berlino. Hitler giudicò il colpo di stato alla stregua di un insulto personale e diramò la Direttiva 25, in base alla quale la Jugoslavia diventava ufficialmente un nemico del Reich. Il Führer ordinò al suo esercito di distruggere la Jugoslavia militarmente e come stato. Una settimana più tardi la Luftwaffe scatenò un devastante attacco aereo, mentre la fanteria della Wehrmacht e i carri armati della Panzer-Division invadevano città e villaggi. L’esercito jugoslavo non riuscì a contrastare il Blitzkrieg tedesco, e il 17 aprile il Paese si arrese.

    Le truppe di occupazione seguirono prontamente le istruzioni di Hitler per smantellare le vestigia dello Stato. Circa sessantacinquemila persone – soprattutto intellettuali e nazionalisti – furono esiliate, imprigionate o assassinate, e le loro case e proprietà vennero requisite dai nuovi padroni tedeschi.

    Ma nei restanti mesi del 1941 e nella prima metà del 1942 i gruppi partigiani, guidati dal comunista Tito, opposero una tenace resistenza. La Germania scatenò una brutale repressione: la Gestapo attuò rappresaglie contro combattenti e civili, deportando migliaia di persone nei campi di concentramento del Reich. Altri furono giustiziati come monito contro la resistenza. Nel corso dei nove mesi successivi al settembre del 1941, 374 uomini e donne furono fatti schierare contro il muro del cortile della prigione di Cilli e fucilati. I fotografi documentarono le esecuzioni per i posteri e a fini di propaganda.

    Il 25 giugno 1942 Heinrich Himmler – l’uomo più potente e temuto della Germania nazista dopo Hitler – ordinò alla sua polizia segreta e agli ufficiali delle SS di sgominare la resistenza partigiana.

    Questa campagna possiede tutti i requisiti per rendere inoffensiva la popolazione che ha sostenuto i banditi, fornendo loro risorse umane, armi e rifugio. Gli uomini di queste famiglie, e spesso anche i loro parenti, devono essere fucilati, le donne imprigionate e trasferite nei campi di concentramento, mentre i figli devono essere strappati alla loro madrepatria e trasferiti nei territori del vecchio Reich. Attendo un rapporto speciale sul numero dei bambini e sui loro requisiti razziali.

    Durante questa sanguinosa rappresaglia, 1262 persone – molte delle quali parenti di coloro che erano stati giustiziati come ammonimento per gli altri – si trovarono radunate quella mattina di agosto nel cortile della scuola in attesa del loro destino.

    Tra queste c’era una famiglia del vicino villaggio di Sauerbrunn. Johann Matko proveniva da una nota famiglia di partigiani: suo fratello Ignaz era stato fucilato in luglio nella prigione di Cilli. Johann fu deportato a Mauthausen. Dopo sette mesi gli permisero di tornare a casa dalla moglie Helena e dai tre figli: Tanja, di otto anni, suo fratello Ludvig, che all’epoca ne aveva sei, e la piccola Erika di nove mesi.

    Quando tutte le famiglie furono registrate, venne impartito l’ordine di dividerle in tre gruppi: i bambini, le donne e gli uomini. Lurker ordinò ai soldati di strappare i figli dalle braccia delle madri; un fotografo locale, Josip Pelikan, immortalò quella scena straziante per gli ossessivi archivisti del Reich. Pelikan catturò la paura e l’apprensione delle mamme e dei bambini: alcuni scatti ritraggono i neonati adagiati sulle balle di paglia nelle stalle annesse all’edificio scolastico.

    Mentre le madri aspettavano all’esterno, gli ufficiali nazisti cominciarono a esaminare sommariamente i bambini. Consultando grafici e blocchi per appunti, annotarono minuziosamente le caratteristiche facciali e fisiche di ognuno di essi.

    Non si trattava tuttavia di normali esami medici, ma di crude valutazioni razziali in base alle quali i piccoli furono suddivisi in quattro categorie. Quelli che soddisfacevano i rigidi criteri di Himmler su come doveva essere il vero sangue tedesco furono inseriti nella categoria 1 o 2, e considerati potenzialmente utili alla popolazione del Reich. Per contro, qualsiasi traccia o indizio di tratti slavi – e a maggior ragione ogni segno di retaggio ebraico – relegava il bambino nello status razziale più basso delle categorie 3 e 4. Etichettati come Untermenschen, questi soggetti non potevano aspirare ad altro che al lavoro forzato per lo Stato nazista.

    Il giorno seguente questa rudimentale classificazione fu portata a termine. I bambini considerati privi di valore razziale furono restituiti alle loro famiglie, mentre 430 altri piccoli di entrambi i sessi, da pochi mesi di vita a dodici anni, furono sequestrati. Affidati a infermiere della Croce rossa tedesca, furono caricati su alcuni treni e portati oltre il confine jugoslavo fino all’Umsiedlungslager – ovvero campo di transito – di Frohnleiten, vicino alla città austriaca di Graz.

    I bambini non rimasero a lungo in questo centro di detenzione. Nel settembre del 1942 furono sottoposti a un’ulteriore selezione, questa volta da parte di esperti razziali appartenenti a una delle numerosissime organizzazioni fondate da Himmler per preservare e alimentare le riserve di sangue buono.

    I loro nasi furono misurati e confrontati con i parametri ufficiali della lunghezza e della forma ideali; anche labbra, denti, fianchi e genitali furono esaminati, catalogati e fotografati per separare il grano umano geneticamente prezioso dalla pula. Questa seconda setacciatura, più rigorosa, ridistribuì i prigionieri all’interno delle quattro categorie razziali.

    I più grandi tra i bambini inseriti nelle categorie 3 o 4 furono spediti in campi di rieducazione in Baviera, nel cuore della Germania nazista. I soggetti migliori e più giovani appartenenti alle prime due categorie sarebbero stati destinati in seguito a un progetto segreto gestito dal Reichsführer in persona. Il suo nome era Lebensborn, e tra i prescelti c’era anche la piccola Erika Matko, di appena nove mesi.

    2

    Anno zero

    Noi vogliamo che questo stato sopravviva per mille anni. Siamo felici di sapere che il futuro è interamente nostro!

    Adolf Hitler, Il trionfo della volontà, 1935

    Alle 2:40 del mattino di lunedì 7 maggio 1945, in una piccola scuola di mattoni rossi della città francese di Reims, il generale Alfred Jodl, capo di stato maggiore delle forze armate tedesche, firmava la resa incondizionata del Reich millenario. I cinque laconici paragrafi di questo atto di capitolazione consegnavano la Germania e tutti i suoi abitanti alle quattro potenze alleate – Gran Bretagna, Stati Uniti, Francia e Unione Sovietica – a partire dalle 23:01 della notte seguente.

    Una settimana prima, Hitler e la maggior parte degli ufficiali della sua cerchia ristretta si erano suicidati nei sotterranei del bunker della Cancelleria a Berlino. Heinrich Himmler – il braccio destro del Führer, responsabile dell’intero apparato del terrore nazista – si era dato alla fuga indossando una semplice divisa da soldato e con documenti falsi che gli attribuivano l’identità di un umile sergente.

    Era arrivata la fine dei sei anni di guerra totale, durante i quali il mio Paese aveva depredato l’Europa seminando morte e dolore. Adesso dovevamo vivere in pace.

    Chi eravamo noi tedeschi quella mattina di maggio? Che cos’era la Germania – il Paese che aveva dato i natali a Bach e Beethoven, Goethe e Schiller – all’indomani di una brutale guerra di aggressione, per non parlare della Soluzione finale? Come sarebbe stata la pace per i vincitori e i vinti?

    Per descrivere la nostra situazione, nel 1945 fu coniata una nuova espressione: Stunde Null. Tradotta letteralmente significa ora zero, ma per le macerie fumanti della Germania – un Paese di rovine, vergogna e fame – era più appropriato parlare di anno zero: una fine e un inizio al tempo stesso.

    Che cosa significava essere tedesco alle 23:01 di martedì 8 maggio 1945? Per gli Alleati – i nuovi padroni di ogni metro quadrato di terra e di ogni esistenza individuale dalla Mosa a ovest al Memel a est – significava soggiogamento, sospetto e repressione. Mai più, dichiararono le quattro potenze occupanti, ai due fiumi venefici del nazionalismo e del militarismo tedesco sarebbe stato permesso di esondare allagando il continente. Nel volgere di poche ore sarebbero stati messi in atto meccanismi e procedure per applicare questo principio, sistemi che, sebbene all’epoca fossi troppo piccola per conoscerli, avrebbero determinato il corso della mia vita.

    Per i tedeschi questi problemi d’identità si ponevano in modo diverso. Si trattava di qualcosa di molto meno filosofico, che poteva essere schematizzato con le tre p: physisch, politisch e psychologisch (fisico, politico e psicologico). Dei tre, l’aspetto più importante – e più pressante – era senza dubbio quello fisico.

    Nel maggio del 1945 la Germania era una terra desolata, costellata di ponti bombardati, strade sventrate e carri armati distrutti. Negli ultimi mesi di agonia del suo Reich, divorato dalla follia e dalla rabbia impotente, Hitler aveva ordinato di creare città-fortezze. La madrepatria doveva essere difesa fino all’ultima goccia di puro sangue tedesco e fino all’ultimo mattone dei suoi edifici. Invece della resa ci sarebbe stato una Götterdämmerung di fiamme e sacrificio per segnare la fine della sua autoproclamata razza padrona.

    Il risultato, più che una pira funeraria, fu un gigantesco e meno nobile falò della vanità. Costretta a difendere con le armi ogni centimetro di territorio – e devastata dai bombardamenti a tappeto degli Alleati – la Germania fu ridotta a un deserto postapocalittico. Dove un tempo si ergevano palazzi, adesso restavano soltanto montagne di macerie: nella sola Berlino ne erano ammucchiati lungo le strade settantacinque milioni di tonnellate. Anche le altre città tedesche avevano subìto danni ingenti, distrutte dai bombardamenti e dai combattimenti casa per casa che lesionarono o resero pericolanti il 70 per cento degli edifici. E ovunque si aggirava con aria cupa e smunta quella gente un tempo fiera che aveva soggiogato coloro che considerava inferiori.

    I cinegiornali e le foto (degli Alleati, poiché la stampa tedesca aveva cessato ogni attività dopo la resa) catturarono scene prima inimmaginabili. Attorno ai palazzi sventrati, dove le vestigia di una vita un tempo normale erano esposte agli sguardi di tutti – un caminetto, brandelli di carta da parati, un water sbreccato –, si radunavano i fantasmi viventi di donne e bambini. Orfani, rifugiati, vecchi e feriti: e ovunque un quadro distopico di corpi anonimi che giacevano senza vita nelle strade, osservati – o più spesso evitati – da figure scheletriche che presto si sarebbero unite a loro.

    Tutta la Germania, almeno nelle città, frugava tra le macerie per costruire rifugi di fortuna, mendicando cibo, nascondendosi o fraternizzando timorosamente con le forze di occupazione. Non per scelta, ma per necessità.

    Nelle ultime settimane di guerra l’economia del Paese – fino ad allora diretta dal Partito nazista e a esso asservita – era crollata come i suoi palazzi. Per un tragico paradosso c’era un sacco di denaro, ma le monete e le banconote non servivano a nulla: tutte le risorse disponibili erano state infatti sottratte alla popolazione per soddisfare i bisogni delle forze armate, e dato che le esplosioni avevano messo fuori uso la rete ferroviaria, impedendo la distribuzione del cibo immagazzinato, c’era poco o nulla da comprare con i marchi diventati ormai carta straccia.

    Anche i nuovi padroni della Germania non sembravano avere alcuna idea su come gestire la situazione. Tra il luglio e l’agosto del 1945 i leader alleati – Churchill (e in seguito Attlee), Truman e Stalin – si incontrarono a Potsdam per pianificare il futuro. Alla fine della prima guerra mondiale, quando la Germania era stata sconfitta e sottoposta a una severa punizione e al pagamento di pesanti riparazioni, nessuno aveva pensato di cancellarla dalla mappa geografica e politica; ora invece si decise che il Paese avrebbe cessato di esistere. Al suo posto ci sarebbero state quattro diverse zone di occupazione, ognuna governata da una potenza vincitrice in base ai propri princìpi e progetti.

    Tuttavia, a parte questo, un ragionamento comune su che cosa fare in pratica dell’ex stato tedesco all’indomani della sconfitta di Hitler non era quasi stato articolato. La Francia era favorevole allo smembramento del Reich in una serie di piccoli Stati indipendenti, mentre gli Stati Uniti propendevano per il ritorno della Germania alla condizione di nazione preindustriale fondata sull’agricoltura. Ma alla fine Washington ammorbidì la sua posizione, giungendo alla conclusione che costringere decine di milioni di tedeschi a tornare a vivere come contadini medievali fosse un’idea impraticabile, oltre che non auspicabile. Gli Alleati non si erano comunque posti il problema del funzionamento delle diverse zone di occupazione, né quello gigantesco di come nutrire sia i vinti – una popolazione a cui si erano aggiunti oltre dieci milioni di rifugiati dall’Est – sia gli ingenti eserciti incaricati di imporre la pace.

    Semplicemente, non c’era abbastanza cibo, e senza un sistema di trasporti efficiente quel poco che c’era non poteva arrivare nei luoghi in cui era più necessario. Peggio ancora, le forze di occupazione erano convinte che i tedeschi meritassero un assaggio della stessa medicina che avevano somministrato: i nazisti non avevano forse devastato l’Europa, facendo deliberatamente patire la fame agli abitanti di villaggi, città e intere nazioni?

    Era questa la vera eredità di Hitler: una nazione che moriva di fame; una popolazione condannata a una disperata lotta per la sopravvivenza in cui la gente poteva contare, nel migliore dei casi, su metà delle calorie necessarie per il proprio sostentamento. Un Paese non solo sconfitto e distrutto, ma spazzato via dalla faccia della terra.

    Quando arrivò la pace, erano le tre e mezzo del mattino. Io ero una piccola, tranquilla e archetipicamente bionda bambina tedesca che viveva a Bandekow, un minuscolo villaggio nel cuore rurale del Meclemburgo, con la mamma, la nonna e un fratello poco più piccolo, Dietmar. La nostra era una caratteristica casa della regione, una grande fattoria di legno circondata da ettari di foresta. Eravamo tipici rappresentanti sia di una classe particolare di tedeschi degli anni che avevano preceduto la guerra, sia, per contrasto, della Germania postbellica. I due rami della mia famiglia erano antichi, consolidati e, nonostante il crollo economico, benestanti.

    Mia madre Gisela era figlia del magnate di una compagnia marittima di Amburgo. Gli Andersen appartenevano alla vecchia classe anseatica, la prestigiosa élite patrizia che si era fatta un nome e una fortuna da quando, nel 1815, il congresso di Vienna aveva confermato ad Amburgo lo status di città libera.

    La fattoria di Bandekow apparteneva da generazioni alla famiglia di mia madre: era di proprietà del mio prozio, ma era stata quasi certamente usata come ritiro di campagna negli anni precedenti il 1945. Gli Andersen avevano conservato la loro residenza principale ad Amburgo, e mio nonno era rimasto lì, mentre la nonna divideva il suo tempo tra le due case.

    Gli Andersen avevano quattro figli. Il fratello di Gisela, che aveva prestato servizio nella Wehrmacht, era stato ucciso negli ultimi giorni di guerra; la sorella maggiore era stata allontanata – in seguito a qualche indicibile azione disonesta che aveva compromesso la rispettabilità della famiglia –, mentre l’altra sorella, zia Ingrid (che tutti chiamavano Erika o Eka), mi era stata vicina durante tutta l’infanzia. Alla fine della guerra Gisela aveva trentun anni. Era giovane, brillante – in quel modo fragile e privilegiato tipico della sua classe – e carina. Ed era sposata, anche se il suo matrimonio non si rivelò felice.

    Hermann von Oelhafen era un militare di carriera. Aveva servito con onore la patria durante la prima guerra mondiale: era stato gravemente ferito nel 1914 e poi di nuovo nel 1915, e dopo un’ultima ferita nel 1917 era stato insignito della Croce di ferro per il valore dimostrato. Come Gisela, proveniva da una famiglia aristocratica: sia il padre sia la madre si fregiavano del prefisso nobiliare von.

    Ma mentre Gisela era giovane e piena di vitalità, Hermann era l’esatto opposto. Aveva trent’anni più della moglie e soffriva di gravi crisi epilettiche. Ignoro se queste crisi fossero la causa del suo carattere scontroso e meschino, ma quello che so per certo è che il loro matrimonio – che fu celebrato nel 1935, nei primi, fiduciosi anni del regno di Hitler – nel 1945 era ormai agli sgoccioli. Durante l’infanzia vidi

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