Destino in Polvere
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Destino in Polvere - Paolo Tagliapietra
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Capitolo 1
ottobre 1997, Torino
La casa era un’espressione tipica della città, la forma, l’aspetto, il colore dei muri, richiamavano alla mente il fine novecento, gli zoccoli dei cavalli sul pavè
, i panni lavati sulla riva del fiume, i panciotti con gli orologi a taschino.
Nessuno sfarzo, come l’etichetta cittadina richiedeva.
È sempre stata un po’ austera questa Torino silenziosa, un occhio al cielo, frastagliato dalle montagne, l’altro al grande fiume che, lento, trascina con sé secoli di storia.
La casa apparteneva ad allora, ma viveva nell’oggi, segnata dal tempo e dallo smog.
Da alcune delle sue finestre, si potevano scorgere le passeggiate domenicali tra platani e ippocastani lungo le sponde del fiume, gli stessi luoghi dove, d’estate, molti trovavano un rifugio notturno.
Su uno spigolo, in direzione della strada più transitata, era sistemato un orologio con una cornice ed un sostegno in ferro battuto. Stava lì da molti anni e faceva il suo lavoro onestamente.
Il portone era di legno, scuro e pesante, tanto che la signora
Bosco faticava non poco ad aprirlo, malgrado i grossi cardini rinforzati da bandelle di ferro inchiodate. Aveva chiesto più volte di fare qualcosa per evitarle un po’ di fatica e, puntualmente, l’amministratore, il geometra Giraudi, rispondeva che si sarebbe dovuto rimettere alla decisione dell’assemblea dei proprietari, questione che, puntualmente, non veniva affrontata.
Varcato il portone, ci si imbatteva al centro in una grande scala che saliva agli appartamenti, a destra la porta che conduceva alle cantine, a sinistra le cassette delle lettere in vetro e ottone e delle piante rigorosamente di stoffa, raso forse, perché la poca luce non permetteva altro.
Il piccolo lucernario, sopra il portone, non dava quasi luce nell’atrio, così una lampada sempre accesa, al neon per via delle spese condominiali, lasciava un minimo garantito per non inciampare nei primi gradini e vedere la posta arrivata.
Tinteggiatura bianca con banda a tre quarti color nocciola e incorniciato, il vecchio regolamento di condominio, in un foglio ingiallito dal tempo.
L’ascensore era un’altra di quelle cose di cui non si riusciva a discutere e ad avere, ci sarebbero voluti troppi soldi da parte di ognuno e i pochi inquilini e le poche possibilità, avrebbero lasciato quella casa così come stava.
Le pulizie delle zone comuni non erano state affidate a nessuna delle imprese proposte dal geometra durante quelle interminabili riunioni di condominio, ma venivano fatte, un paio di volte alla settimana, dalla signora Maria che abitava proprio nello stabile a fianco, al piano rialzato, con un ruolo da portinaia quasi perfetto.
- Mi permetto di domandarle se potesse farmi qualche lavoro in casa -, le chiese la signora Martino, una mattina - Magari solo i pavimenti una volta alla settimana -
La signora Maria, una donna robusta, forte fisicamente, di volontà ed intraprendente, accettò di buon grado considerato che suo figlio non aveva ancora un lavoro stabile e suo marito era in pensione da un paio d’anni.
Di li a poco, comunque, con il passaparola, riuscì ad impegnare tutta la settimana in quel condominio: le voci circolano rapidamente.
Il lunedì mattina era a stirare da Lucchi, l’assistente universitario che viveva solo, all’ultimo piano, il martedì e giovedì erano destinati alle pulizie dello stabile, il mercoledì, appunto, dalla signora Martino e il venerdì le faccende erano per la signora Bosco.
Era così preciso e rigoroso il giro settimanale che, sulle etichette delle chiavi dei vari alloggi, non c’era il nome dei proprietari, ma scritto il giorno della settimana. Una piccola cautela.
- Così, - pensava - anche se vado a perdere le chiavi non capita nulla -.
Gli altri inquilini non le avevano mai chiesto di fare lavori da loro, forse non ne avevano bisogno o non si volevano spendere dei soldi.
Il signor Fattori, tenente di cavalleria, era all’ultimo piano, il quarto, dirimpettaio di Lucchi. Il cranio completamente rasato, il viso spigoloso e squadrato, davano, insieme alla sua figura slanciata, un aspetto prepotentemente fiero.
Incuteva non poca soggezione anche tra i suoi sottoposti. Nella casa lo osservavano passare misurando lo sguardo, quasi felici che desse lustro a quel luogo. Una carriera militare folgorante e importante per le sue aspettative, lo portò a migrare in diverse città italiane fino a fermarsi, per sua scelta una quindicina di anni prima, in questa Torino che non aveva mai visto e che lo aveva profondamente colpito.
Spesso era fuori casa, in caserma oppure in manifestazioni o concorsi ippici.
Sosteneva corsi di addestramento militare, anche in altre città, figura sicuramente riconosciuta come capace e importante nell’Esercito.
Quando era a casa non aveva bisogno, quindi, di grossi lavori domestici e non amava, soprattutto, interferenze nella sua vita privata. Preciso e rigoroso come la sua carriera imponeva, preferiva fare tutto da solo, silenzioso, lasciando sempre il dubbio se fosse o no in casa.
Questo era anche quello che si chiedeva il professor Lucchi che, invano, più volte, aveva tentato di fare conversazione, magari trovando spunti banali.
- Anch’io sono stato qualche volta a cavallo - gli disse una sera sulle scale rientrando - Qualche anno fa avevo degli amici che ogni sabato si trovavano ai maneggi e così, per la compagnia, li seguivo -
- Quindi deduco che lei non ami troppo l’animale - riprese lapidario il militare quasi a far capire al professore che gli argomenti erano terminati.
- Che tipo- pensò colpito Lucchi - siamo quattro gatti in questa casa e manco ci si conosce. Idiota -
Conversazioni che si chiusero in fretta.
Da quella volta un buongiorno e un buonasera erano più che sufficienti per la relazione tra vicini.
Al tenente era bastato sentire che il professore, nel ‘68, era matricola a Palazzo Nuovo e al professore sapere che nello stesso periodo il militare era già elemento di spicco nell’Esercito, per ripararsi entrambi nei loro pregiudizi e rimanervi ancorati.
Aria del professore tutto libri e codici, Lucchi colpiva per l’aspetto davvero poco ricercato. Occhiali pesanti su un viso non molto solare, pallido talvolta.
Barba corta e una forte stempiatura, abiti scuri su maglie dolcevita d’inverno, rarissime le cravatte, camicie a mezza manica con il taschino, d’estate. La borsa, di cuoio scuro, era quasi un tutt’uno con la mano destra.
Era un tipo tranquillo, apprezzato anche dagli studenti, soprattutto per quegli sguardi incoraggianti durante gli appelli che cercava di nascondere ai docenti al suo fianco.
Aveva in mente, nelle sue fantasie giovanili, di diventare Procuratore, ma le cose andarono diversamente dopo che il titolare di cattedra gli chiese di rimanere con lui.
Metodico e rigoroso fin quasi alla nausea, ma senza particolari ambizioni carrieristiche, rimase nella condizione di assistente, anche