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Il colore della saliva
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Il colore della saliva
E-book371 pagine5 ore

Il colore della saliva

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Info su questo ebook

La capacità di saper scegliere, di saper rinascere e di riuscire a vedere una speranza, una luce, in fondo ad un tunnel, dove di luce sembra essercene troppo poca, a sedici anni, vissuti tra tristezza, silenzi e privazioni, a pochi passi da uno scantinato buio e da un baule pieno di giocattoli, paure e segreti. Questa è la storia della giovanissima Chivonne, temprata dalla vita sin da bambina, con un bagaglio di esperienza talmente ricco da maturare dentro di sé una forza incredibile per amare, per aiutare, per accudire, per risolvere tutti quei problemi ai quali una sedicenne di oggi difficilmente si avvicinerebbe. L’altruismo è il comune denominatore, al suo fianco, l’amore è uno dei protagonisti principali, sullo sfondo, infine, la forza dell’amicizia. Una storia dove le barriere vengono infrante, i tabù svelati, i sogni nei cassetti realizzati e i pregiudizi sconfitti.

LinguaItaliano
Data di uscita18 giu 2019
ISBN9788868153151
Il colore della saliva
Autore

Franco Baldo

Franco Baldo vive a Mori (Tn). Tecnico di Radiologia in pen-sione, è sposato e ha due figli. Si occupa di problemi legati al consumo di alcol nella sua comunità ma anche nel resto d’Italia dove partecipa spesso a serate informative e convegni sul tema. Collabora con l’Azienda Sanitaria organizzando i corsi previsti per il recupero della patente ritirata per alcolemie illegali. I ragazzi dalla collana di lamiera è il suo secondo romanzo. Il primo Dove dorme l’ornitorinco è stato pubblicato nel novembre 2009 da Erickson.

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    Il colore della saliva - Franco Baldo

    Il colore della saliva

    romanzo

    Franco Baldo

    Meligrana Editore

    Copyright Meligrana Editore, 2019

    Copyright Franco Baldo, 2019

    Tutti i diritti riservati

    ISBN: 9788868153250

    Meligrana Editore

    Via della Vittoria, 14 – 89861, Tropea (VV)

    (+ 39) 338 6157041

    www.meligranaeditore.com

    info@meligranaeditore.com

    In copertina: La ragazza alla finestra, Maria Dorigatti

    acrilico su tela, 90x50 cm, 2001

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    Indice

    Frontespizio

    Colophon

    Licenza d’uso

    Franco Baldo

    Copertina

    Dedica

    Il colore della saliva

    Ringraziamenti

    Meligrana Editore

    Licenza d’uso

    Questo ebook è concesso in uso per l’intrattenimento personale.

    Questo ebook non può essere rivenduto o ceduto ad altre persone.

    Se si desidera condividere questo ebook con un’altra persona, è necessario acquistare una copia aggiuntiva per ogni destinatario. Se state leggendo questo ebook e non lo avete acquistato per il vostro unico utilizzo, siete pregati di acquistare la vostra copia.

    Grazie per il rispetto verso il duro lavoro di questo autore.

    Franco Baldo

    Franco Baldo vive a Mori (Tn). Tecnico di Radiologia in pensione, è sposato e ha due figli. Si occupa di problemi legati al consumo di alcol nella sua comunità nei Club Alcologici Territoriali e nei Club di Ecologia Famigliare. Conduce inoltre serate informative sul tema delle fragilità e dei disagi. Collabora, in forma di volontariato, con l’Azienda Sanitaria organizzando i corsi previsti per il recupero della patente ritirata per alcolemie illegali. Ha già pubblicato: Dove dorme l’ornitorinco (2009, Erickson) e I ragazzi dalla collana di lamiera (2011, Meligrana).

    Contatto autore: fnc.baldo@gmail.com

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    A Ornella,

    ai sorrisi che ci ha regalato.

    Troppe volte nelle sfumature del grigio

    ma altri nei colori dell’arcobaleno.

    Il colore della saliva

    I personaggi e i fatti descritti in questo romanzo sono frutto della fantasia dell’autore. Ogni riferimento a persone e fatti è puramente casuale.

    Ci vuole più coraggio per dimenticare che per ricordare.

    Søren Aabye Kierkegaard

    I

    Premendo il tasto rosso del telecomando, grande almeno il doppio della sua manina, Chivonne interruppe il cartone che solitamente seguiva a quell’ora. Riusciva persino a coinvolgere la lingua durante l’operazione di spegnimento, facendola scivolare sul labbro inferiore, premendolo forte contro gli incisivi nuovi di zecca, bianchissimi e particolarmente affilati. Conosceva ogni battuta di quella serie e spesso ne anticipava alcune a voce alta per poi ridere quando erano gli stessi personaggi a ripeterle esatte, come fosse stata lei a suggerirle. Si guardò intorno spaziando senza un preciso obiettivo, costringendo gli occhi in una specie di esercizio. Li girava senza muovere la testa creando traiettorie simili a quelle fatte dalle grosse e odiose mosche quando in estate entrano in casa. Smise di colpo, sbuffò e scese dal divano nel suo consueto e bislacco modo, girandosi a pancia in sotto per poi spingersi fino ad appoggiare i piedini per terra. Fin da piccolissima aveva imparato a scendere in quella maniera e solitamente, nel farlo, la gonna le si arrotolava fin sopra la pancia. Quasi sempre attendeva di essere guardata sapendo che o il papà o la mamma avrebbero esclamato ti ho visto il culetto. Questa cosa la faceva ridere a crepapelle ma prontamente sosteneva che non era vero, che non si era visto niente.

    Si accomodò la gonna tirandola giù per benino e, lisciandola con le mani, sbuffò di nuovo; poi prese una sedia e la spinse davanti alla finestra con la complicità dei feltrini, che l’aiutarono in uno spostamento rapido e silenzioso. Vi salì sopra con discreta abilità, spingendosi contemporaneamente con la gamba piegata sul traversino e il piede rimasto a terra. Appena sopra barcollò un pochino e, per evitare di cadere, piegò un po’ le gambe e allargò le braccia, come fanno i funamboli sulla corda per mantenersi in equilibrio. Sapeva benissimo cosa significava capitombolare dalla sedia perché l’ultima esperienza risaliva alla settimana prima e di questo se ne ricordava anche il suo polso destro, rimasto dolorante e arrabbiato per un paio di giorni. Tornò a mettersi diritta e, con un gesto preciso e risoluto, spostò la tenda dietro le spalle. Movimento azzardato che comunque le riusciva bene ogni volta. Soddisfatta dell’impresa, guardò verso la montagna di fronte dove un insolito sole rosso fuoco stava tramontando. Trascinò la punta del naso sul vetro non proprio terso, come a disegnare qualcosa che subito guardò tirando indietro la testa e strabuzzando gli occhi nel tentativo di capire cosa fosse. Decise che poteva essere un’onda del mare anche se il mare, quello vero, lei non lo aveva mai visto.

    Dalla finestra era in grado di vedere gran parte del parco comunale, almeno quella parte dove c’era il maggior numero di giochi, lo scivolo e le panchine.

    Era la sua finestra, la sua finestra preferita.

    L’appartamento faceva parte di una serie di villette a schiera che davano direttamente sulla via, separate solo da una sottile striscia di prato che poi si allargava dietro lasciando un po’ di spazio al parcheggio. L’ingresso pedonale era costituito da un cancello in ferro battuto, dal quale partiva una serie di gradini in porfido tra due file di bossi sempre ben curati. Le villette davano l’impressione di essere mollemente adagiate su quella collinetta, che le portava ad essere qualche metro sopra il piano stradale. Era una zona residenziale di tutto rispetto, tranquilla, pulita e ordinata.

    Diresse lo sguardo verso lo scivolo in legno, protetto da un tettuccio con delle tegole in plastica di color rosso scuro. Era seminascosto da un grande faggio che, appena al di là del muro, stava ormai rassegnandosi all’autunno vestito dei colori che solitamente questa stagione pretende già a cominciare da metà ottobre. Erano parecchi ad aspettare di salire, tutti in fila con i genitori o i nonni poco lontani ad osservarli o a chiacchierare seduti sulle panchine di legno. Chivonne ogni volta si chiedeva perché gli altri bambini sì e lei no; perché loro potevano salire e scendere da quello scivolo mentre lei doveva accontentarsi di salire e scendere da una sedia per poterli vedere gesticolare allegri. Strappò volentieri lo sguardo triste dalla scena felice e spensierata, per accompagnare il sole fino al bordo della montagna. Lo vide tremolante ma lui non può tremare perché ha freddo, pensò, perché non si chiamerebbe più sole. Ecco, sparito!

    Sapeva che là, dietro a quella montagna, c’erano persone che si svegliavano perché era mattina, così almeno le aveva detto papà quando gli aveva chiesto cosa andasse a fare il sole dietro la montagna durante la notte. Magari scappa perché ha paura della notte, concluse lei poco soddisfatta della risposta.

    Girò lo sguardo in basso verso il bar sul lato opposto della strada, dove entravano ed uscivano parecchie persone. Seguì per un po’ le foglie del Liriodendro a lato del cancelletto mentre cadevano a terra, indecise su dove appoggiarsi. Alcune sceglievano la panchina, altre direttamente il prato, una finì dentro al bidone dell’umido lasciato aperto da qualcuno. Non ricordava il nome di quell’albero, ma si ricordava quante erre conteneva e che difficoltà aveva sempre nel pronunciarlo speditamente. Sapeva, però, che i suoi fiori erano bellissimi ma si potevano vedere solo dalla finestra. Da sotto era impossibile vederli perché i petali esterni sono verdi come le foglie.

    Dopo qualche minuto decise che poteva bastare. Scese con un salto sicuro e spinse la sedia al suo posto. Si guardò intorno ma, a causa del sole rosso ancora negli occhi, le sembrò tutto scuro. Decise di accendere la luce, poi camminò lentamente verso sua madre che stava dormendo e russando distesa malamente sulla poltrona. Un filo di saliva schiumosa le colava dall’angolo della bocca fino a raggiungere la punta del mento. Chivonne aspettò che la goccia, che si stava via via ingrossando, si staccasse per finire sul cuscino o forse sulla spalla, e per tutto il tempo tenne il naso arricciato in una smorfia di schifo. Per uno strano gioco di luci le sembrò persino ricca di colori quella saliva, come i colori dell’arcobaleno e l’arcobaleno lei lo conosceva bene. L’ultimo temporale ne aveva lasciato uno stampato in cielo per una buona mezz’ora e lei aveva fatto domande per tutta la sera, e per qualche tempo era riuscita a ricordarne almeno tre di colori, compreso l’indaco che le sembrava così difficile da pronunciare. Andrea li aveva elencati tutti in perfetto ordine ma a Chivonne non era sfuggito quel nome bizzarro del colore tra il blu e il viola. Mormorò indaco per tutto il giorno seguente, facendolo girare in bocca come fosse un boccone di quella odiosa carne che doveva mangiare la domenica. Pochi giorni dopo quella spiegazione, Andrea, in un parcheggio sotterraneo, salutò un signore elegante e distinto. Chivonne, che gli camminava a fianco, chiese papà chi è quel signore che hai salutato? Il sindaco, rispose. A me sembrava grigio però, ribatté saltellando. Andrea lì per lì non capì, ma una decina di metri dopo la raccolse letteralmente da terra con una manovra decisa e se la strinse forte non senza trovarsi con gli occhi umidi. Sindaco, non indaco le sussurrò nell’orecchio rimettendola a terra.

    Le solite due o tre lattine giacevano semivuote sul pavimento di cotto che da settimane non vedeva l’aspirapolvere. Le solite lattine e il solito dormire strano, pensò.

    Niente di nuovo in quella stanza. Da tanto, da troppo tempo.

    Chivonne si ricordò di un po’ di torta avanzata dalla festa del giorno prima, quella dei suoi cinque anni. Festa così per dire, dato che erano loro due sole sedute a tavola a spegnere le cinque candeline. Raggiunse il frigo, afferrò decisa la portiera, contrapponendo i pollici alle altre dita allineate, e spinse sulla guarnizione fino a deformarla. Accompagnò lo sforzo con un issa sibilato e composto da un’infinità di esse. L’ondata di fresco, mischiata a odori di ogni tipo, le fece un certo piacere. Se ne impadronì chiudendo gli occhi e inspirando profondamente. Sentì l’odore della cipolla farsi largo tra tutti. Lo aprì ed esaminò il contenuto, soffermandosi su un paio di fette di torta sbriciolate, poi il suo sguardo girò malvolentieri verso destra e si posò con riluttanza sulla solita fila di lattine riposte in bella vista accanto alle uova e alle sottilette. Una, due, tre, quattro, mormorò. Sapeva contare fino a dodici, non di più, e il suo inconsapevole esercizio sulle operazioni di matematica consisteva nel contare le lattine al mattino e alla sera. Non ci voleva molto a capire che se non erano accanto alle uova e alle sottilette erano dentro a sua madre. Ed era quando i conti non tornavano che lei dormiva strano, perdendo saliva in quel modo. E quando invece era bella e sveglia anche nel tardo pomeriggio, voleva dire che le lattine nel frigorifero c’erano ancora tutte a far compagnia alle uova e alle sottilette, e non serviva contarle. Spesso si chiedeva se anche le altre mamme dormissero così a lungo di giorno, ma per il momento poteva chiederlo solo a se stessa. Qualcosa non tornava nei suoi pensieri ancora così minuti e approssimati, ma aveva chiaro il concetto di ciò che poteva essere bello o brutto. Quando rifletteva su questa cosa, chiudeva forte le labbra mordendole con i denti, oppure le serrava trascinandole da destra a sinistra per qualche istante. Tornò sul divano portando il culetto indietro fino ad appoggiarsi con la schiena. Si accomodò la gonna di pizzo stendendola bene, quasi a formare una specie di ventaglio aperto sulle ginocchia. Premendo sul tasto verde con forza esagerata riaccese la tv. C’era ben poco altro da fare in quella casa così stracolma di silenzio e di tristezza. Gli occhi di Chivonne erano come la pallina sul campo da tennis: un po’ su sua madre, un po’ sul cartone, un po’ sua madre, un po’ sul cartone. Era quello di Mila e Shiro, uno dei suoi preferiti.

    Dopo una decina di minuti decise di chiamarla, di svegliarla da quel sonno triste. Tristemente fuori luogo, tristemente fuori tempo.

    – «Mamma, ho fame!» – esclamò obbligandosi a fissare il televisore.

    Niente. Gridò lo stesso appello con voce ancor più decisa ma rotta da un pianto in via di formazione, questa volta guardandola. Deglutì più volte come per allontanare quella sensazione dalla gola, senza peraltro riuscirci. Anche la vista si annebbiò rendendo tutto oblungo e distorto. Le lacrime non sembravano convinte a lasciare soli quegli occhi per scendere lungo le guance. Pochi secondi dopo un pianto amaro si fece avanti in quella stanza, deprimendo ancora di più tutto l’insieme. Si catapultò dal divano con la solita modalità e andò veloce verso il frigorifero. Applicò il consueto protocollo per l’apertura della pesante porta. Dita allineate e schiacciate sulla guarnizione e un issa pieno di esse. Come prima, una zaffata di freddo la colpì in pieno volto, costringendola a fare un profondo respiro. Prese due lattine e si avviò verso lo scantinato lasciando il frigo aperto. Fece attenzione ai gradini anche perché si era dimenticata di accendere la luce del giro scala. Posò le lattine e abbassò la maniglia della porta tagliafuoco che cigolò e andò ad appoggiarsi alla colonna sbattendo, per poi vibrare per alcuni istanti. Aspettò che quel brutto rumore finisse, poi accese la luce alzandosi un bel po’ sulle punte dei piedi per raggiungere l’interruttore. Si accorse che le mani erano talmente ghiacciate da non sentire i polpastrelli. Provò a toccarsi il viso con l’indice della mano destra trascinandolo sulla guancia, ma sentì solo una strana sensazione perché il dito non le sembrava nemmeno il suo, sembrava appartenere ad un’altra persona. C’era un’unica fonte di calore cui attingere comodamente. Si portò le mani chiuse a pugno davanti alla bocca e vi alitò sopra. Poi si guardò attorno come faceva ogni volta, quasi a controllare che nessuno fosse là a guardarla, compresi i topi con i quali tempo prima aveva avuto un incontro ravvicinato non proprio simpatico. Ciò che stava per fare non lo sapeva nessuno, era un suo segreto. Si chinò a raccogliere le lattine e, camminando lentamente, raggiunse il baule dove erano ospitati i vecchi giochi, le sue bambole e le trottole che le aveva regalato una vicina di casa. Le ragnatele che lo coprivano le avevano messo paura solo un paio di mesi prima quando lo aprì per la prima volta. Era un vecchio baule in legno scuro che poteva aver visto diverse guerre. Semplice nella sua struttura, con il coperchio convesso e due occhielli in ferro sul davanti per posizionare il lucchetto. Ai lati le maniglie in ferro, ma non uguali, una rettangolare e l’altra ovoidale.

    Tornò a rimettere a terra le lattine e sollevò il pesante coperchio appoggiandolo alla parete dietro. Questa manovra la obbligava a spostarsi su un lato, perché altrimenti non sarebbe stata in grado di accompagnarlo fino a farlo appoggiare dietro. Ovviamente questo rendeva ulteriormente complessa e pericolosa tutta l’operazione. Sbuffando le raccolse da terra e le mise dentro a far compagnia alle altre, quelle raccolte in tutto quel tempo. Erano tante e ricoprivano quasi tutti i giochi. Si vedeva solo la testa di un orso, due o tre libricini di cartone, le gambe di un paio di bambole nude e altre cose colorate. Il resto era la malinconica collezione di lattine che ogni volta Chivonne guardava in silenzio, pensando che almeno quelle non avrebbero reso triste e strana sua madre. Ogni volta pensava cosa potessero contenere quelle scatoline rotonde di così cattivo e magico da poter trasformare sua madre in quel modo.

    Richiuse il baule facendo attenzione alle dita e a non far rumore. La condensa delle lattine mischiata alla polvere del baule le avevano ridotto le mani davvero male. Se le guardò per poi strofinarle ripetutamente sulla gonna. Spense la luce, chiuse la porta e risalì le scale. Passò davanti al frigo aperto, guardò le lattine rimaste con aria di sfida, immaginando che fine avrebbero fatto. Dentro sua madre o dentro al baule dei giocattoli? Ma non aveva voglia di fare un altro giro in cantina. Chiuse il frigo con un colpo violento avviandosi poi verso sua madre, che ancora dormiva. Fece un paio di passi e si fermò a fissarla meglio per qualche istante, poi chiuse gli occhi come a voler cancellare ciò che stava osservando. Nutriva la speranza che, una volta riaperti, quella scena cambiasse, come accadeva con il telecomando quando cambiava canale. Li riaprì e in una frazione di secondo la speranza fu trascinata via dalla delusione. Niente era cambiato, il telecomando non aveva funzionato. Con una rabbia incontenibile si avventò su di lei come obbedendo ad un preciso ordine, colpendola con dei pugni sulla pancia fino a svegliarla.

    Marta aprì gli occhi stralunati, fissando incredula sua figlia con i pugni ancora chiusi e pronti a colpirla di nuovo. Tutto quello che c’era intorno sembrava fare il tifo per Chivonne, persino le lattine vuote della birra sembravano colpite da uno strano senso di colpa. Fu un incontro impari tra occhi che chiedevano perché e occhi che chiedevano perdono. O forse erano solo dei perché da tutte e due le parti.

    La notizia riguardante una frase di Prodi in merito alla finanziaria uscì dal televisore nel preciso istante in cui Chivonne gridò un mamma a decibel incredibili. Dato il perfetto tempismo sembrò quasi che fosse disperata per la sorte di Prodi o per quella degli italiani. Corse verso la sua cameretta e andò a piangere a pancia in giù sul letto ancora da rifare.

    Marta si alzò pulendosi il mento dalla saliva con il dorso della mano, poi raccolse le lattine e, trascinando le gambe come non fossero sue, andò a buttarle nel secchio sotto al lavello. Nella sua mente giravano pensieri di ogni genere mescolati a sensi di colpa e promesse a se stessa. Come al solito.

    Era ora di cena, la sua fame era stata placata dalle birre, rimaneva da dare una risposta a Chivonne. Almeno alla sua pancia vuota.

    * * *

    Sul suo lettino disordinato Chivonne pensò a Diana, la sua amichetta della scuola materna. La sua mamma la portava tutti i giorni al parco giochi. Anche Daniele ci andava spesso. Daniele era un grande della stessa scuola. Chivonne al parco giochi c’era stata una volta o forse due con suo padre a giugno, poco prima che partisse nuovamente per il Canada. Montava forni per la panificazione.

    Abbracciò il cuscino ficcandoci dentro il visino bagnato dalle lacrime. La fame e le altre cose tristi le tennero compagnia ma il sonno che lei aspettava stentava ad arrivare. Si era perso in giro da qualche parte. Come diceva papà ci sarebbero state le pecore da contare ma erano poche quelle che avrebbe fatto entrare nel recinto. Solo dodici. Ci voleva qualcos’altro e pensò alle parole, così come capitavano, una dietro l’altra a caso. Cominciò a pensarle.

    Cuscino, letto, minestra, finestra, cucina, scivolo, maestra, Diana, minestra, pane...

    In palese ritardo il sonno arrivò e la portò via con sé volentieri.

    * * *

    Chivonne era seduta al tavolo dei Lego intenta a costruire qualcosa. Aveva appena ricevuto i complimenti da una delle due maestre, ma pensò che poteva essere per il fermacapelli nuovo, perché aveva esclamato bello accarezzandole la testa. Poco dopo Daniele le si avvicinò coprendole gli occhi da dietro con delicatezza. Chivonne capì subito che era lui perché le sue mani odoravano sempre di qualcosa di strano anche se gradevole. Le ricordava quelle bustine che scopriva ogni tanto nei cassetti dei calzini o delle mutandine.

    – «Daniele, lo so che sei tu.»

    – «Come fai a indovinare? Cosa costruisci? È una casa? Io ieri ho fatto una gru ma poi non trovavo un pezzo e allora ho fatto una ruspa come quella vera del mio papà.»

    – «L’ho vista, era bella.»

    – «Quella vera o quella finta? Perché non vieni mai al parco? Io ci vado anche oggi.»

    – «Non mi va. Ora provo con questo rosso.»

    Daniele la lasciò costruire la casa senza fare altre domande, tanto sapeva di non aver quasi mai risposte. Era certo che al parco non l’avrebbe vista nemmeno quel pomeriggio. Anche Chivonne era convinta della stessa cosa e deglutì nervosamente continuando a spingere con forza e rabbia il pezzo rosso fino ad incastrarlo in quello blu. La casa era finita. Mormorò non mi piace per poi colpirla con discreta violenza, facendo schizzare ovunque i pezzi colorati. Una delle maestre, la più simpatica a Chivonne, si girò rapidamente:

    – «Chivonne, proprio non ti piaceva quella casetta? A me sembrava carina!»

    Non rispose e, guardandosi intorno come se stesse per fare qualcosa di sbagliato, si avviò lentamente verso un altro tavolo dove tante mani stavano lavorando della creta per farla diventare molle come aveva suggerito l’altra maestra, quella antipatica. Poco convinta dalla creta e da quel groviglio di mani sporche e scoordinate, decise di uscire in giardino dove altri bambini stavano giocando a rincorrersi. Il sole di tanto in tanto andava a riprendere fiato dietro a delle nuvole dalle strane forme e sui toni del grigio scuro. Le osservò appena, poi abbassò lo sguardo e si accorse che la sua lunga ombra che l’accompagnava sul lato destro era scomparsa improvvisamente. Riprese a camminare a fianco del basso muro che delimitava il prato, strisciando la mano sul cemento ruvido e provando un po’ di fastidio. Si fermò, si guardò la mano rigata e sporca e ci soffiò sopra per poi continuare a sfiorarlo camminando. Di colpo, sentì un rumore dietro le spalle, si girò e notò per terra un barattolo vuoto che rotolava verso l’altro lato del vialetto rallentando la sua corsa. Chivonne immaginò che qualcuno lo avesse lanciato dentro dalla stradicciola esterna. E del resto poteva solo immaginare dato che il gelsomino aggrappato alla recinzione, in quel tratto era molto rigoglioso e fitto. Si mise in ginocchio per meglio identificare l’oggetto, ma aveva già tratto le sue conclusioni sentendo il rumore metallico. È uguale a quei barattoli del frigorifero pensò. Lo raccolse con circospezione tenendolo tra il pollice e l’indice, mantenendo lontane le altre dita. Tornò quasi correndo ed entrò decisa in aula cercando con lo sguardo la maestra simpatica.

    – «Ecco maestra Giulia, l’ho trovata in giardino.»

    – «Chivonne, che fai con una lattina di birra in mano? Da dove viene? I bambini non devono toccare queste cose! È roba da grandi questa.»

    A Chivonne non sfuggì la faccia strana della maestra, una faccia tutta storta col naso arricciato. Era il gesto verso le cose che fanno schifo e lo conosceva benissimo perché spesso lo faceva anche lei quando a tavola incontrava la verdura cruda o, peggio ancora, quella cotta. La maestra prese con titubanza la lattina e, contravvenendo inconsapevolmente ad un basilare principio etico ed educativo, la buttò dalla finestra che dava sul cortile riservato alle cucine, lasciando Chivonne nel dubbio rispetto alla bontà del gesto. Non aveva mai visto nessuno buttare qualcosa dalla finestra, anche perché aveva imparato che la plastica va nella plastica, la carta nella carta e i vasetti della conserva di pomodoro nel vetro, ma senza coperchio. Forse pensò che a casa sua quel tipo di barattolo aveva un altro punto di raccolta. Tornò fuori a strisciare le dita lungo il muretto pensando al nome buffo che la maestra aveva dato a quella roba. Birra, pensò, come quella penna per scrivere che c’è vicino al telefono. Per alcuni metri mormorò birrabirobirrabiro, poi corse dentro e andò verso il tavolo con la creta, dove sempre più mani si stavano animando su quella grossa palla ormai molle. I pensieri di Chivonne non erano su quella roba molliccia e scura, ma rivolti a quelle lattine che adesso avevano un nome e forse un senso. Sua madre beveva birra, ma forse andava bene così. Pensò fosse normale dato che era una roba da grandi, come aveva appena saputo. E la mamma era grande.

    La maestra Giulia si era seduta e stava sfogliando distrattamente un libro. Chivonne le si avvicinò lentamente.

    – «Maestra, ma tu hai tante di quelle nel frigorifero?»

    Capì subito a cosa si riferiva. Appoggiò il libro e se la prese sulle ginocchia, coccolandosela e lisciandole i capelli arruffati.

    – «Devi sapere Chivonne che io bevo la birra solo quando mangio la pizza, ma nemmeno ogni volta perché a me piace l’acqua naturale, sai, quella che viene fuori dal rubinetto di casa.»

    – «La mia mamma la beve senza la pizza. Ne ha tante in frigorifero, ma tante davvero. Tante volte sono di più di queste dita...» – disse mostrando la mano aperta – «Un giorno te le faccio vedere tutte» – aggiunse.

    – «Adesso vai a giocare Chivonne» – disse Giulia, mettendola a terra con una strana rapidità, quasi a volersi liberare di lei e delle sue intriganti confessioni. Nemmeno Chivonne si aspettava un così rapido commiato e, andando di nuovo verso il tavolo della creta, si girò a guardarla. In Chivonne alcune domande stavano prendendo forma proprio come quella creta, che ora assomigliava ad un improbabile coccodrillo con la coda un po’ troppo corta.

    La maestra rimase seduta a considerare la cosa senza togliere gli occhi da Chivonne. Cosa avrà voluto dire con quella frase su sua madre e le birre? pensò. Quel mia madre le beve senza la pizza si scolpì nel suo cervello, lasciandole un’inquietudine che forse aveva bisogno di condividere con qualche collega. Ma no, magari è meglio che mi faccia i cazzi miei, pensò dopo un attimo. Ma tanto, dopo un altro attimo era di nuovo là a pensare a chi dire questa cosa.

    * * *

    Andrea era tornato dal Canada da un paio di giorni. Era in attesa di ripartire per qualche altra destinazione, ma nel frattempo stava cercando di calarsi nella realtà familiare con i soliti tentennamenti di chi, sulla spiaggia, non si decide ad entrare in acqua. Non era facile per lui fare periodicamente questi tuffi di inserimento, ma nemmeno per Marta e Chivonne la cosa era del tutto priva di ostacoli e interferenze. Negli ultimi mesi era tutto un salutarsi per andar via e un salutarsi per essere tornato. Poco altro.

    Quella mattina Chivonne era alla scuola materna. L’aveva accompagnata Andrea in bicicletta, anche se la giornata non era particolarmente calda, del resto ormai era autunno. Aveva piovuto per tutta la notte, ma alle otto e mezza il cielo prometteva grandi cose. Che bello, si va in bici!, aveva esclamato Chivonne saltellando e facendo sobbalzare lo zainetto sulle spalle. La mamma usa sempre la macchina quando non c’è il pulmino, mai la bicicletta, aveva poi aggiunto sottovoce come non volesse condividere un’altra delle sue domande alle quali non riceveva mai risposte.

    Per Marta i ritorni di Andrea erano fonte inesauribile di ansia e inquietudine. Per lei quei giorni erano una maledetta sospensione del suo bere libero e incondizionato. Non c’era nemmeno l’ombra di emozioni quantomeno accettabili da mettere sull’altro piatto della bilancia. Per lei bere era la priorità assoluta in quel periodo, il resto poteva esistere ugualmente. Compresi loro due. Ed era una fatica immane fingere di sorridere, fingere di essere felice, fingere di fare l’amore. E fingere di non bere, perché comunque qualche scampolo di occasione lo trovava per poterlo fare, salvo poi studiare astute strategie per camuffarne gli effetti collaterali indesiderati.

    – «Marta!» – esclamò Andrea appena di ritorno dalla scuola materna – «Ho deciso di imbiancare lo scantinato, ne ha bisogno. Che dici?»

    – «Vedi un po’ tu» – rispose distratta mentre finiva di asciugare le tazze della colazione.

    Andrea non si accorse del tono dimesso e dello sguardo assente di Marta e, a dire il vero, nemmeno dei lunghi silenzi di sempre.

    Lo scantinato era davvero la massima espressione del disordine e della trascuratezza ma Andrea liberò rapidamente le pareti, tirando ogni cosa in mezzo al locale, per poi coprire tutto con dei teli che aveva preparato. Quando arrivò il turno del vecchio baule, Andrea fece mente locale su tutti gli spostamenti subiti nel corso degli anni. Lo avevano tenuto persino nell’atrio di casa, con disappunto di Marta che lo trovava poco inserito nel contesto dell’arredamento. Lei lo aveva sempre odiato quel baule. Considerando i ricordi che il solo guardarlo rispolverava e amplificava, Andrea non poteva accontentarsi di osservarlo solamente, non poteva non aprirlo, era scontato voler vedere cosa contenesse. Sapeva che ci avrebbe trovato ancora i soliti giocattoli, ma era bello rivederli, ognuno con un suo particolare curriculum di cui ricordava il momento della consegna, gli spazi e i tempi che aveva occupato con Chivonne, il rumore che faceva quando cadeva o veniva sbattuto in giro, che fosse una bambolina o una macchinina o quei benedetti lego, che quando ti cadeva la scatola erano brutte

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