Regioni parallele
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Anteprima del libro
Regioni parallele - Omero Marchetti
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1
Nonostante sia forse la più lacerante delle mie angosce io non riesco a rammentare neppure vagamente, o confusamente, come meglio dovrei dire in questa mia condizione, di come sia potuto accadere ch’io entrassi in questa oscura regione, e per quale via, e in quale tempo.
Vaghi frammenti d’un mio passato tanto distante nella memoria da apparire ormai del tutto dilavato e inafferrabile, debolmente affiorano nella coscienza di tanto in tanto, ma essi attraversano la mia mente con tale distratta indolenza che io non riesco neppure a coglierne il senso o a gustarne una qualche dolcezza, e viene da credere che essi siano piuttosto scintille di un’interiore follia implicita nell’anima mia, vacue farneticazioni piuttosto che tracce di un mio personale vissuto, o profetica vista su una condizione di là da venire, intuita sull’ala di un premonitore talento.
Intanto combatto contro questo dolore disperato e diuturno, nel gelo di questo mare oscuro e denso, in cui non è dato vedere o sentire, di cui non conosco dimensione o confini, e che continuo ad attraversare alla cieca, con la speranza Dio solo sa quanto ragionevole, di muovermi sempre alla medesima direzione, sicché sia almeno pensabile che un giorno io possa giungerne a un bordo, a un confine, a una interruzione di continuità che ne possa profilare un’approssimata dimensione, e quindi un principio… e una fine.
Cammino appena posso, assai più spesso mi trascino, nuoto a lungo in questa fanghiglia gelata, e l’aria che respiro non è meno oscura del paesaggio che cerco di sondare alla ricerca di un segno qualunque dal quale io possa desumere dove sia, e chi, o cosa io sia o possa essere.
E se questa condizione sia perpetua e definitiva, o se stia percorrendo una via o un tratto di strada verso qualcosa, o se sia io arrivato fin qua dopo essere cessato da un qualche stato diverso di essere, e pensare, e camminare, uno stato in cui fosse possibile, fermarsi, riscaldare la pelle, riposare le membra su una superficie, un’isola solida e riparata da quest’aria gelata e ferma, infinita, totale.
Sono un grumo di pensiero in una fisicità pressoché sconosciuta, sento queste mie mani e braccia e spalle, che mi sostengono a galla, e mi aiutano a risalire gli orli fangosi di questa sconfinata palude e che avverto come mie per l’indicibile dolore che mi procura questa loro stanchezza; sento queste gambe gonfie che a volte sembra non riescano più neanche a muoversi, sento questa pelle che è il mio bordo corporeo da sempre gelato, questi occhi che non riesco quasi più a tenere neppure socchiusi.
Ciò che mi ha sempre sorpreso è il pensiero, la coscienza, questo mio essere presente a me stesso, questo percepire il dolore e il tempo, questo andare comunque e non so dove e non so perché, come se questa ragione appartenesse a un ordine diverso, a qualcosa remoto e distinto da me e dalla mia coscienza, dalla mia volontà, dal mio sentire.
Da dove derivano le categorie e le immagini che organizzano le riflessioni e innanzitutto il dolore; come faccio a percepirlo, il dolore, se non ho percepito che questo dacché ho coscienza del mio esistere.
Da quale ignota e misteriosa regione viene questo fardello interiore che mi dà coscienza, se non conosco lo spessore di questa aria che è sopra la viscida superficie del fango, né l’estensione di questo infinito andare che da sempre mi accompagna, e sembra essere la ragione ultima del mio essere.
C’è una dimensione diversa dell’andare, uno stare, una pausa, un’interruzione del tempo e dello spazio, un interrompersi del dolore e del sentire?
Ho doni e talenti misteriosi e inquietanti, macigni sulle mie spalle e le mie gambe: conosco le cose, percepisco la mia condizione di dolore eterno e infinito.
Ne conosco la marezzata superficie e l’insondabile, abissale spessore, e raggelante è la mia capacità di cogliere ogni apparentemente marginale suo minimo articolarsi, ogni sua impercettibile vibrazione.
Respiro con ogni poro della mia pelle lacerata la desolazione del mio stato, cosciente, vigile, attento e presente come se questo fosse esattamente lo scopo ultimo del mio esistere.
Un solo perché mi martella ossessivo e crudele: perché questo tempo cresce e si dilata all’infinito, e sembra non debba mai finire, che senso ha questo arrancare sull’orlo dell’abisso.
Quale ragione a me sconosciuta mi trattiene in questa inumana condizione dell’andare tuttavia, senza respiro, senza potermi fermare, senza tregua, senza nemmeno la consolazione del pensiero che comunque questo stato possa avere una dimensione di finitezza pur se all’infinito.
Così da poter almeno contare su uno di quegli illogici paradossi della ragione che mi sottende secondo i quali all’infinito tutte le cose si incontrano e si chiude finalmente questo stato di innaturale incompiutezza fra amanti, oggetti, pensieri, entità, votate apparentemente a essere da soli e imprigionati da una inconoscibile maledizione in separati stati, fino al fulgore del loro completarsi finale, al confine con l’eterno.
2
Conosco il sapore del mare e dell’acqua.
Pur non sapendo cosa essi siano, o siano stati per me, o saranno se mai io li incontri in questa o in un’altra regione che dovesse esserci, ove questa in cui mi sono perso abbia un limite, o un confine, una valicabilità.
È come se lo conoscessi per differenza, il mare, che pure non riesco a immaginare di aver potuto conoscere addosso.
Se esiste quest’acqua nera e densa, dalla piatta superficie gelata deve esisterne uno limpido e luminoso, caldo dove la mia pelle possa perdere per un po’ almeno il suo algido, mortale torpore.
Conosco il senso dell’aria e del cielo, immagino possa esistere uno stato diverso di questa caligine gravida di agro e di amaro, che mi impasta la gola e scende giù dentro fin nel profondo dei visceri e dei polmoni, che forse mi alimenta e mi rende a essa consustanziale e compatibile, sicché il mio destino potrebbe addirittura essere indissolubile dal cielo di questa regione, dalle sue acque, dal nero e piatto scorrere del suo tempo mentre deriva verso l’infinito, quieta, misurata, crudelissima e perfetta nella sua totale impassibilità.
E anche uno stato diverso dell’essere e del vivere ha familiarità con i miei pensieri, con questa che io chiamo coscienza, perché non mi affiora un diverso modo di definire questo addensarsi delle ombre proprio a ridosso dei miei occhi interiori, in questo andito prossimo ma angusto, pallidamente illuminato, che è il debole mio farneticante spazio di pensiero.
Immagino esista una parallela regione della quiete, so che esiste un tempo che a volte con clemenza e compassione rallenta fin quasi a non battere ciglio, come accogliendo il richiamo di me sfinito da questo avanzare perpetuo, da questo insopportabile dipanarsi di passi che non lasciano tracce.
Un tempo che potrebbe non scorrere proprio perché infinito, e sospendere il suo cammino cristallizzando per sempre il grumo rappreso dell’anima mia.
Anima.
Anche di lei mi sorprende il pensiero. La sento pervadermi e intridersi del mio affanno, la percepisco straziata da questo dolore.
Forse esiliata nel mio corpo esiliato, incatenata in questa prigione sigillata, privata del suo stato che probabilmente ha segrete affinità con un’idea di mare, di aria, di vita diversa ma esclusa dietro la superficie di uno specchio, a me estranea e invisibile.
Sorprendente questa traccia dell’anima che sembra essere impressa nella mia coscienza, perché essa non è la mia coscienza, è invece la saldatura di due cicatrici, la cognizione del dolore infinito e immutabile e la soglia chiusa verso la tentazione di finire, di abbandonare ogni sforzo per lasciarsi lentamente affondare, o scivolare, o sommergere, chiudendo il respiro e prendendo commiato da questo cielo gelato e solido, che se serro appena le labbra si rapprende fra le labbra.
L’anima è questo sguardo chiuso sulla morte.
La delicata sua presenza al mio interno mi ha dato una certezza, di non aggirarmi da solo in questo inferno, e che questo baluginare incerto dell’essere mio in questo stato non è illogico, pur se dovesse essere cieco, e sconosciuto, e casuale, e perduto da chissà chi e in quale arcano tempo e remoto.
Di certo vengo da una opposta regione, o forse da una regione parallela dove tutto quel che a frammenti mi sovviene c’è in forma di felice unità, di non ferita completezza, di solare accezione.
O forse vado verso questa regione con l’intuizione di un prossimo avvenire, ma a dire il vero c’è troppo di dolore, di nostalgia, di tristezza per poter sperare che si stia a mutare questa infelicità in una non sperabile dolcezza.
3
C’è stato il momento in cui ho preso conoscenza di me e del mio stato.
D’istinto ho iniziato a muovermi verso qualcosa, cercando di tirarmi fuori dall’acuto senso di asfissia e di soffocamento.
Il gelo mi penetrava lentamente fin dentro le ossa, bloccandomi, e in principio mi sembrava dolce riabbandonarmi al buio, alla non coscienza di me da cui appena cominciavo a emergere.
Qualcosa ha reagito dentro, e così ho preso passo passo, bracciata dopo bracciata ad andare, cercando ora verso una riva che sembrava più consistente, ora muovendomi in direzione di una macchia di albore che poi ho scoperto essere solo inganno della mia mente.
Nulla.
Contavo le bracciate e i passi, i movimenti, a volte per lunghissime, infinite serie, poi tornavo indietro, contando di nuovo per tornare al punto di partenza costruendomi in mente una mappa delle acque più alte, dalle quali non era possibile toccare il fondo, delle rive più erte da cui ero scivolato rovinando e ferendomi, delle sabbie inconsistenti sulle quali non era possibile neppure esitare un istante perché insidiose ti risucchiano in fondo.
Non so dire quanto sia durato questo tempo dell’andare ogni volta credo in una diversa direzione, perché differente era la successione delle acque e delle rive, delle sabbie e delle paludi fangose che mi si paravano davanti.
Tornare indietro ogni volta era una decisione di lacerante impotenza, io non sapevo dov’ero, se magari proprio al bordo della mia sconosciuta regione o se invece fossi inconsapevolmente tornato indietro, addirittura più volte, ripassando nello stesso posto, perdendo il conto dei passi e dell’andare.
Così mi davo un termine, solo un tempo di tanti passi, e fatti quelli mi sarei fermato, e poi continuavo, magari potevo essere a un soffio dall’esito del mio cieco andare, magari a un solo passo, un solo giorno, un solo secolo, un solo infinito.
Andavo, andavo, contando e ripetendomi all’infinito: un solo passo, un solo passo, un solo passo ancora…
E poi l’insopportabile strazio di tornare indietro, perché forse la salvezza si trovava dall’altra parte del mio universo tenebroso, nell’opposta direzione.
Eppure trovavo la forza di ripartire, di contare di nuovo al contrario, perché certamente se la linea esposta di quella landa era nell’altra direzione sarebbe bastato solo tornare indietro e percorrere come un pendolo il sentiero inverso.
Ma sentivo che gli ostacoli che avevo mappato venendo e ancorandoli alla serie di numeri costruita nella mia mente non erano più al loro posto, e non ho mai saputo se i miei passi ciechi non potevano comunque tenere un dritto camminare o se invece non sia la natura di questa terra fluttuante, talché invece che a isole o paludi non debba io pensare a grandi banchi di alghe, o chissà cos’altro, una sorta di pack fangoso che fluttua alle correnti segrete di un oscuro oceano.
Chissà per quanto incommensurabile tempo è durato questo incerto peregrinare, e chissà se mi sono spostato verso il bordo di questo concavo disco della disperazione, se ancor più mi sono perso verso il suo centro dove non potrebbe che accrescersi il mio sconforto, la mia stanchezza, l’esitare del mio ragionamento.
4
Avrei voluto fermarmi a ragionare, a riprendere fiato, ma non era possibile e nonostante avessi la tentazione finale di soccombere all’infinita stanchezza mi feci animo e decisi di seguire un modello nuovo per esplorare quello spazio sconosciuto e buio.
Avrei seguito una sola direzione, senza mai tornare indietro.
E avrei continuato a contare, certo, ma secondo un nuovo modello che non fosse quello seriale continuo che mi affaticava tanto da pesarmi infine più dello stesso andare.
Avrei organizzato i numeri secondo un sistema esponenziale, non uno dietro l’altro, ma uno accanto all’altro, in serie di dieci, file e colonne da dieci, e poi dieci strati di file e colonne da dieci, sicché ne sarebbe scaturito una sorta di prisma cubico delle dimensioni di dieci per dieci per dieci, perfetto, controllabile.
Lo potevo materializzare nella mia mente e giungere quasi a toccarlo, se le mie mani avessero conservato la capacità di toccare qualcosa, oltre che di sbracciarsi nel fango e aggrapparsi disperatamente lungo le pareti di invasi viscidi e fangosi.
E una volta completato questo prisma lucente esso diventava a sua volta mattone, elemento di base di un nuovo più grande prisma fatto a sua volta di righe e file e strati di altrettanti prismi perfetti, e poi via di questo passo, e ogni volta si sarebbero aggiunti tasselli a tasselli, un passo dopo l’altro, un numero dopo l’altro, un tempo dopo l’altro verso il cammino nuovo, verso una direzione costante.
Con furore incontrollabile provai a muovermi verso questa nuova direzione, ma la mente presto si perse nella foresta fitta del suo nuovo gioco di matematica, inebriante, purissima bellezza e i miei passi furono alleviati da questo inganno meschino, quasi infantile della mente.
Mano a mano cominciarono a comporsi i prismi che immaginavo di cristallo lucente all’interno dei quali racchiudevo queste unità di misura di spazio e di tempo che erano i passi, le bracciate, i respiri.
Ero così intento a costruire quest’architettura imponente e luminosa che a volte mi sorpresi ad affrettare il passo o a contrarre il respiro per chiudere una fila, o un rigo che chiudesse una serie che a sua volta completasse un numero e un nuovo sudato, incredibile assieme, sempre più alto, più complesso, più bello.
Vedevo il mio numero crescere, non avrei saputo più definirlo se non in funzione della sua dimensione esponenziale che giganteggiava nella sua assurda, inarrivabile, solitaria assoluta bellezza e grandezza.
Lenta, inesorabile cresceva la sua imponenza, non avrei mai pensato di poter arrivare a sostenere con la mia povera mente una dimensione di quel genere.
E passavano le unità del tempo, un passo, una bracciata, un urlo di disperazione.
Una unità dopo l’altra, mentre il prisma lucente continuava a crescere e la lucida follia della mia mente era in grado di sostenerne il controllo e la mappa relativa ai guadi, ai bracci d’acqua, ai punti significativi della banchisa viscida.
Mano a mano però l’etere dell’orgoglio di poter sostenere una così complessa macchina numerica solidamente controllata dal mio pensiero cominciò a evaporare facendo affiorare nello spazio illuminato della coscienza tutta l’insostenibile crudeltà di quell’inumano fardello.
Di nuovo cominciai a darmi un limite prossimo e raggiungibile: arriverò fino non so dove. E poi stabilirò cosa fare, completerò questa ultima serie per arrotondare il valore complessivo raggiunto adesso e poi vedrai che giungerò a ridosso della linea di confine.
Giunse il giorno che l’edificio dei numeri che avevo edificato nella mia testa fu talmente complesso da pesarmi ancor più del mio andare, come era già del resto successo quando contavo con i numeri seriali.
Giganteggiava l’edificio di puri numeri e io ne percepivo la monumentale, solida, imponente consistenza quasi materiale, ma tanto era cresciuto da diventare del tutto insopportabile alla mia povera mente.
Ma non potevo fermarmi e così di nuovo mi trovai nelle condizioni di escogitare un nuovo inganno per i miei ragionamenti che mi rendesse meno insopportabile il dolore e l’andare perenne.
Continuai a contare ma un po’ alla volta lasciai scivolare nell’oblio interi pezzi della mappa di numeri e siti, alleggerendo così mano a mano lo sforzo di tenere a memoria contemporaneamente presente l’infinita serie di circostanze, avvenimenti, punti che consideravo importanti nella mappa del mio errare.
Del resto mi sembrava che ormai fossi in grado di controllare almeno la direzione dei miei passi.
E così mentre subdolamente, mi alleggerivo di quel farmaco che stava diventando un letale veleno prese forma nella mia coscienza l’idea di contare i passi con le parole.
Sì, avrei messo in fila serie di parole, in ordine sparso e poi in ordine alfabetico, forse ordinate secondo il numero di sillabe e secondo l’alfabeto.
Magari avrei potuto cominciare semplicemente pronunciando alcune parole così come affioravano dal mio inconscio, e poi le avrei ordinate una volta secondo una regola, e poi secondo l’ordine inverso, e poi ancora secondo un’altra regola per un numero infinito di volte.
Sì, avrei cominciato a contare con le parole, era giunto il momento di lasciare rovinare nel vuoto il castello dei prismi numerici, e intanto andavo avanti a contare, così avrei assaporato di più il cambiamento più radicale della mia vita: le parole, e l’insondabile, inquietante universo del loro suono, delle loro inafferrabili connessioni.
5
Cominciai all’improvviso, fui travolto dal polverizzarsi immediato del mio castello di numeri e provai una eccitazione senza fine quando iniziai a pronunciare le