Gli Inviti Rossi
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Anteprima del libro
Gli Inviti Rossi - Massimiliano Regoli
Youcanprint
Titolo | Gli Inviti Rossi
Autore | Massimiliano Regoli
ISBN | 978-88-31634-03-8
Prima edizione digitale: 2019
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CAPITOLO 1
Dopo l’alba
Gas stava fissando il suo riflesso nel finestrino posteriore del taxi. Le altre auto passavano sulla quattro corsie scalcinata e polverosa e lui poteva vedere la sua immagine mischiata a quella degli altri veicoli. A volte erano auto dai colori improbabili, probabilmente usate, giunte lì in dei giganteschi container, su gigantesche navi cargo, che dal golfo del Bengala risalivano il fiume. Auto piene di gente, uomini, donne, vecchi, intere famiglie, stipati dietro, gli occhi protetti da occhiali da sole, le pettinature unte, i vestiti sgargianti. A volte camionette minuscole, come ovetti con le ruote, con dietro piccoli rimorchi chiusi in alto e aperti ai lati, pieni di ragazzi e ragazze coi volti sorridenti, gli occhi curiosi, le guance gialle di thanaka, vestiti di bianco e verde, la divisa degli studenti. Altre volte erano taxi come quello su cui era seduto lui, bianchi, anonimi, station wagon vomitate direttamente dagli anni ottanta, sporche, vecchie senza il fascino dell’antico. Non riusciva a vedere mai l’autista, lo sterzo era a destra, sicuro retaggio inglese, ma non sapeva perché le auto circolassero anch’esse a destra, come in Italia. Si chiedeva anche come facessero, con quella sistemazione dell’autista, a non fare incidenti a gli incroci.
Quando l’auto si fermò il volto di Gas si sovrappose a quello di un ragazzo nerboruto, dal fisico asciutto. Ai piedi le classiche infradito di velluto, le caviglie scoperte, piene di tatuaggi e magrissime sotto un gonnellone color sporco
, una canottiera logora copriva a malapena i muscoli del petto, in alto un sorriso rosso, dai denti rossi, vendeva minuscoli fiorellini. Per un attimo i loro occhi si incrociarono ma Gas sapeva di non essere visto, i taxi avevano sempre i vetri posteriori oscurati, quasi a proteggere l’identità del passeggero e permettere al guidatore di darsi arie, di raccontare che trasportava chissà chi. Il ragazzo farfugliò qualcosa al tassista in quella lingua pastosa e sbiascicata dei masticatori di betel. Il tassista gli allungò un foglio marroncino e muffito, ebbe in cambio fiori di gelsomino da attaccare allo specchietto. Le monete non esistevano lì, solo banconote, pezzi di carta che col tempo si logoravano. Curioso pensare che quando in Italia si parla di pochi soldi
si parla di spiccioli
e la parola stessa sembra che faccia tintinnare delle monetine. Non lì. Niente spiccioli, solo carta ingiallita, col suo aroma di aglio e peperoncino, macchiata di bava rossa di betel. Il denaro puzza in Myanmar.
Il cielo era bianco e la luce non proiettava ombre ma ormai la cappa torrida non riversava più pioggia. La stagione secca era iniziata da poco e ancora c’erano i residui del passato monsone. Durante il tragitto che ogni giorno Gas faceva per andare a lavoro ne vedeva i segni: una pozza d’acqua a lato strada, dove il marciapiede era di terra battuta e non si era ancora convertito in un cretto arido; una nuova crepa in un fatiscente palazzetto di cemento, un albero rotto; una capanna di lamiera che non c’era più. Non era facile da notare, nell’intricato panorama di insegne, casette, baracche e venditori ambulanti, la mancanza di un pezzo
, ma Gas faceva quella strada tutte le mattine alle 7:45. Abitava si e no a due chilometri dall’ufficio e a lui piaceva camminare, eppure prendeva sempre il taxi.
Ricordava quando viveva in Mongolia, a Ulaanbaatar, e si faceva i venti minuti di strada per l’università sempre a piedi, camminando in una città dai tombini aperti, le auto chiassose, le strade crepate e una temperatura di meno quaranta gradi. Eppure li, a Yangon, non si azzardava a camminare. Coi suoi sei milioni di persone, la metropoli era tagliata da stradoni a quattro corsie, impossibili da varcare a piedi. Come negli scacchi, il pedone non conta nulla a Yangon. Come su una scacchiera, ogni pezzo si muove in maniera diversa e Gas sapeva che non era un "pedone". C’erano molti modi con cui lo si poteva chiamare ma non pedone. Mentre il taxi prendeva una larga curva ricordò che i suoi colleghi lo chiamavano per nome, ma Gas sapeva bene che volevano dire "direttore. Anche il proprietario dell’agenzia che lo aveva chiamato a
comandare la baracca lo chiamava per nome, con un accento inglese e una voce roca e squillante al tempo stesso, ma Gas sapeva bene che voleva dire
tu sei il direttore, il capo sono io. Gli altri stranieri lo chiamavano
expat, termine bizzarro, che significa
espatriato, come se
immigrato fosse solo uno status da pezzenti, ma Gas sapeva che
expat stava di più per
extraterrestre, pesce fuor d’acqua, alieno. I birmani infine lo chiamavano
sahib, parola araba giunta in questa parte di mondo un secolo fa, che significa
muso bianco, ma Gas sapeva che significava
padrone bianco".
Quando il Taxi salì per la salita di Parami Avanue il paesaggio cambiò un po’. In una zona non ancora infestata di baracche si ergevano giganteschi cartelloni pubblicitari di alloggi di lusso, ma dopo di essi si intravedevano, per una frazione di secondo, le risaie sterminate. Durò un attimo, un battito di ciglia, come un’allucinazione, poi di nuovo il brulicare di casermoni, baracche, venditori. "Padrone bianco, per un attimo Gas pensò che il male che dura meno lascia segni più duraturi. Pensò che i Romani avevano posseduto le terre a nord della Turchia per appena sessant’anni ma ancora oggi quella zona si chiamava Romania. Pensò che i coloni britannici erano rimasti in Myanmar per meno di cinquant’anni, e ancora i birmani vedevano
l’uomo bianco come un
padrone" di foggia coloniale. La città stessa si era chiamata Rangoon fino a pochi anni prima, come l’avevano ribattezzata i dominatori pallidi. Un retaggio di un tempo andato, il servilismo del piegare la testa. Poi Gas si sentì in colpa. Non è mai facile piegare la testa, se un popolo l’ha fatto avrà dovuto prima passare un inferno di patimenti e sevizie da dimenticare.
Erano le 7:50 quando il taxi arrivò in cima alla salita, lo separava dall’ufficio