Sangue sul campo di battaglia
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Info su questo ebook
Un grande romanzo storico
«Un vero maestro del genere storico.»
381 d.C.
La grande guerra tra l’impero romano d’Oriente e le orde gotiche entra nel suo quinto anno. Il conflitto sembra non avere fine, perché i Goti, anche se ormai padroni della regione, non riescono a conquistare l’ultima delle città romane. Ma gli araldi portano una notizia che potrebbe cambiare tutto: l’imperatore d’Occidente Graziano è pronto a guidare nella mischia le sue legioni, per distruggere l’esercito nemico e salvare l’impero d’Oriente. Gli uomini dell’XI legione Claudia sperano nella salvezza della loro terra, ma il tribuno Pavone sa che queste sono speranze pericolose, perché le mire di Graziano non si arresteranno alla sconfitta dei Goti. La strada da percorrere sarà irta di giuramenti infranti e lame nemiche e inondata di sangue.
Un autore da oltre 150.000 copie
Un epico racconto di avventura e coraggio
«Avventura spericolata, intrighi politici, svolte inaspettate e un eroe per cui tifare.»
Kate Quinn, autrice bestseller di New York Times e USA Today
«Grande serie con molta azione, per chi ama la storia.»
«Luoghi, armi, abiti perfetti nei dettagli: questo romanzo è come un film che scorre davanti agli occhi.»
«Doherty scrive di un periodo storico poco frequentato dagli scrittori, e lo fa in maniera magistrale, proiettando il lettore in quel mondo antico con energia e veridicità. Sembra quasi di essere all’interno della Storia.»
Gordon Doherty
Di origini scozzesi, è autore di diversi romanzi storici. Il suo amore per la storia è nato dal fatto di vivere e lavorare vicino al Vallo di Adriano e a quello di Antonino, siti carichi di magia, che riportano indietro di millenni. La Newton Compton ha pubblicato i romanzi Il legionario, Gli invasori dell’impero, Una vittoria per l’impero, Il flagello dell’Oriente, Imperatori e dèi, L’impero invincibile e Sangue sul campo di battaglia.
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Anteprima del libro
Sangue sul campo di battaglia - Gordon Doherty
Capitolo 1
Lo iudex Fritigerno era seduto all’interno di un piccolo cerchio di carri nel cuore del suo accampamento. L’elmo segnato dalle battaglie posato sulle ginocchia, una pesante pelliccia avvolta attorno alle spalle, i capelli e la barba grigia che incorniciavano il volto smunto e pensoso. Le sue mani tremavano, e per tenerle ferme afferrò la cresta dell’elmo. Quei tremori erano iniziati un anno prima, e all’inizio lui aveva pensato che fosse soltanto per il freddo, ma poi erano continuati anche nell’afa dell’estate. In gioventù non avrebbe mai immaginato di trascorrere gli ultimi anni della vita nell’occhio della guerra. Fritigerno alzò lo sguardo sullo stendardo color zaffiro, sul quale era raffigurato un falco nero che si levava in volo, il suo emblema. Il cielo notturno era punteggiato di stelle e l’aria pervasa dai dolci profumi del fumo di legna, del cinghiale arrosto, della birra d’orzo e del vino.
Scoppi di risa si levavano dal mare di tende, dalle capanne e dalle stalle attorno al cerchio di carri. L’accampamento ospitava più di centomila anime frastornate ed esultanti, donne che cantavano e suonatori di corno che marciavano avanti e indietro sopra i carri. Fritigerno capiva la gioia della sua gente perché, nonostante fossero nell’epicentro della guerra contro l’impero, in quel momento le cose stavano andando bene. Per la prima volta da anni non erano stati costretti a fuggire o a combattere. Nella Tracia meridionale, centocinquanta chilometri a ovest di Costantinopoli, si sentivano padroni di quelle terre, liberi dalle minacce degli unni e dei romani. I romani si erano ritirati nelle loro città costiere, che alcuni sostenevano fossero come scatole di gemme, ostriche che presto avrebbero dovuto rinunciare alle loro perle. I suoi goti governavano con pugno di ferro tutta la Tracia e la Macedonia: ventimila lancieri e arcieri, e cinquemila cavalieri che razziavano grano e denari nei centri rurali e nelle fattorie che un tempo versavano i loro tributi all’imperatore romano.
Ma questa notizia cambiava tutto. Fritigerno fissò i due messaggeri in piedi davanti a lui.
«Stanno arrivando», ripeté con voce sibilante reiks Winguric, con la barba legata al mento che si alzava e si abbassava, e il naso informe e unto che scintillava nella luce rossastra del fuoco da campo.
«Le armate d’Occidente che hanno sconfitto l’Orda nera a Sirmio», aggiunse reiks Judda spalancando la sua bocca da rospo, «ma raddoppiate… raddoppiate!».
«Sono numerosi come noi, iudex», insistette Winguric. «E per questo dobbiamo attaccarli noi, prima che si ricongiungano con l’esercito d’Oriente».
Fritigerno fissò Judda e Winguric – due dei membri più anziani del concilio dei reiks –, sorpreso e preoccupato dal fatto che avessero rinunciato a quell’opportunità di prendere l’iniziativa. Come lupi che sdegnavano un facile pasto… era forse perché ne avevano fiutato uno più ricco nelle vicinanze? Winguric, in particolare, andava tenuto d’occhio. Su di lui gravavano ancora sospetti che erano come un cattivo odore, benché avesse sempre negato di avere dato fuoco a quel santuario cristiano nel lontano Bosforo parecchi anni prima. Quattrocento donne e bambini goti avevano perso la vita in quell’incendio. E lui, per dimostrare che era innocente, aveva professato la propria fede cattolica.
«Sono soltanto voci», disse Fritigerno. «Non c’è stato nessun avvistamento dell’esercito di Graziano. Altre voci sostengono che sia impegnato a trasferire la sua capitale da Treverorum in Gallia a Mediolanum in Italia. L’Oriente non gli interessa. Venire fin qui gli richiederebbe uno sforzo massiccio e mesi di preparazione. E noi saremo pronti ad affrontarlo, come abbiamo affrontato tutti gli attacchi romani dopo aver attraversato il grande fiume».
«I reiks Alateo e Safrace hanno sempre reagito prontamente al pericolo», borbottò Judda.
Fritigerno indietreggiò con sguardo accigliato, come se avesse visto un uomo con un sandalo in un piede e uno stivale nell’altro.
«Quei due cercavano la fama e la gloria. E hanno trovato la fama e una morte indimenticabile in una delle più schiaccianti sconfitte mai subite dal nostro popolo. Sono finiti in pasto ai corvi a Sirmio e ora sono soltanto ossa e polvere, come il resto dell’Orda nera. Io non ho mai sacrificato così inutilmente i nostri guerrieri o messo in pericolo le nostre famiglie. Abbiate fiducia in me come avete sempre fatto finora. Non costringerò il mio popolo ad abbandonare queste terre per delle voci prive di fondamento. Non possiamo ritornare a una vita errante costellata di minacce».
All’improvviso gli tornò in mente l’accesa discussione che aveva avuto sui monti Rodopi con il tribuno romano Pavone in una notte come quella. Il tribuno faceva parte di un contingente di legioni orientali dirette a Occidente per dare manforte a Graziano nella battaglia di Sirmio. Se fosse stato più giovane e combattivo, Fritigerno avrebbe potuto massacrare quel giovane ufficiale e tutti i suoi uomini… ma non l’aveva fatto perché il tribuno gli aveva parlato di qualcosa che credeva fosse sprofondato da tempo nell’oblio. La pace
, si disse ricordando come Pavone avesse sostenuto che tutti i tentativi di raggiungere un accordo erano stati ostacolati dagli interessi di parte di alcuni goti e romani, incluso l’imperatore d’Occidente. C’era ancora un modo per arrivare a una tregua? Una pur vaga possibilità, esile come la sottile falce della luna in quel cielo d’inchiostro?
Uno scoppio di risa riecheggiò nel campo. Fritigerno e i suoi due reiks si voltarono e videro un altro reiks che avanzava malfermo, con la faccia viola come una prugna e la saliva che gli colava sul mento, indicando un nobile compagno, sdraiato a terra, con i pantaloni alle caviglie, che faceva appassionatamente l’amore con una zolla di terra. Altri avevano il viso affondato nel petto nudo di donne gote e alcuni mulinavano le spade in aria vantandosi delle loro eroiche gesta nelle battaglie del passato.
Soltanto altri due uomini, oltre a Winguric e Judda, si erano rifiutati di fare un’offerta. Reiks Fravitta – un trentenne con la barba a tridente, il mantello dorato e uno sguardo da predatore – era rimasto in disparte, appoggiato a un carro, mentre osservava con attenzione la scena. E il ragazzo con le trecce bionde, un figlio della guerra soltanto undicenne, ma con l’astuzia e il sangue freddo di un soldato con il doppio dei suoi anni.
Fritigerno si chiese perché erano lì e non con gli altri. Lupi o guardiani?
«Sì, non dobbiamo essere precipitosi. Ma non possiamo nemmeno permetterci di essere compiacenti», proseguì Winguric. «La capitale dell’Impero d’Oriente è a pochi giorni di cavalcata. Le nostre spie ci informano che l’imperatore Teodosio ha un carattere instabile, che può passare dalla calma alla follia da un momento all’altro. I suoi vescovi di Nicea lo fomentano e lo terrorizzano con minacce divine; gli hanno detto che non siamo ariani ma demoni. Non possiamo correre il rischio che invii le sue legioni qui, a privarci della possibilità di scegliere se e quando mobilitarci».
«Le legioni d’Oriente sono ancora allo sbando», osservò Fritigerno, «a dispetto del grande sfoggio di sentinelle sulle mura di Costantinopoli. Alla fortezza di Scupi li abbiamo decimati», aggiunse senza alcun vanto, ricordando le fosse comuni, gli avvoltoi, i nugoli di mosche e il fetore della carne in putrefazione. «Sono rimaste soltanto sette legioni stremate e scoraggiate, che non saranno in grado di circondarci».
Winguric e Judda si scambiarono uno sguardo d’intesa.
«E se Teodosio disponesse di più uomini di quanti pensi?», domandò Judda.
Fritigerno strizzò gli occhi.
Winguric si sporse in avanti, facendo scricchiolare l’armatura di cuoio. «Hai sentito, iudex?».
Fritigerno roteò gli occhi e un brivido corse lungo la sua schiena quando scorse l’espressione compiaciuta di Winguric.
«Ieri i nostri ricognitori hanno visto una squadra di romani scendere sulla costa, lungo la sottile striscia di terra dove osano ancora avventurarsi. Stavano rientrando a Costantinopoli dopo un’incursione sul grande fiume».
«Sai chi stavano scortando?», chiese Judda sporgendosi in avanti e sgranando gli occhi come una moglie pettegola.
Winguric accostò la bocca al suo orecchio. «Atanarico», sussurrò, come se quel nome fosse una maledizione.
«Cosa hai detto?», domandò Fritigerno, sentendosi mancare il respiro.
«Atanarico, il vecchio re dei goti, è andato a Costantinopoli», rispose Winguric.
«Il tuo antico rivale nel controllo delle tribù ha attraversato il fiume su una galea privata e si è alleato con l’imperatore Teodosio», aggiunse Judda.
Quando erano calati gli unni, Atanarico, che era stato iudex prima di Fritigerno, era rimasto a nord del fiume per insediarsi sulle aride e ventose pendici dei monti Carpazi, dove aveva costruito una città fortificata nella speranza che i cavalieri della steppa non si sarebbero mai spinti fin lassù.
«Avrà di certo portato un ricco dono all’imperatore», disse Judda sorridendo.
Fritigerno strinse il bordo del suo elmo con fare nervoso. Atanarico non era potente come in passato, ma comandava ancora qualche migliaio di veterani che lo proteggevano nel suo rifugio sulle montagne. E se fossero stati ancora più numerosi e pronti a schierarsi al fianco dell’impero? Forse anche altre tribù, non soltanto di goti, avevano cercato la sua protezione contro gli unni. Forse era proprio quello il dono che aveva portato a Teodosio. E se anche le legioni occidentali di Graziano si stavano dirigendo verso di loro? Fritigerno si chiese se i sopravvissuti delle legioni orientali e gli uomini di Atanarico avessero stretto un’alleanza per attaccare il loro accampamento, imprigionandoli lì come l’assistente di un macellaio che immobilizza un maiale mentre il suo padrone lo sgozza…
«Queste pianure dove ci siamo insediati sarebbero il campo di battaglia ideale per le forze congiunte degli imperatori romani e di Atanarico. Una tomba perfetta. Non possiamo aspettarli qui. Puoi mettere in dubbio i movimenti di Graziano, ma i nostri ricognitori hanno visto i legionari occidentali operare insieme ai soldati di Teodosio».
«Dove?», chiese Fritigerno strizzando gli occhi.
«Circa dieci esploratori romani hanno seguito la scorta di Atanarico mentre rientrava a Costantinopoli. Indossavano mantelli neri con il cappuccio, venivano dalla Pannonia e li seguivano a uno o due chilometri di distanza, come una retroguardia», rispose Judda.
Un brivido corse lungo la schiena di Fritigerno. «Seguivano i legionari che accompagnavano Atanarico? Mantelli neri? Non erano né ricognitori né retroguardie, ma ombre viventi… Speculatores. Hai detto che erano diretti a Costantinopoli? La chiamano la città di Dio… e mi auguro che Dio protegga chiunque incontreranno lungo il loro cammino».
Pavone scrutò il mare e seguì con lo sguardo le due triremi armate di baliste che solcavano le placide acque del Ponto Eusino, seguendo a sud il piccolo distaccamento di fanteria come una mano protettrice. Il basso sole invernale riscaldava le loro schiene mentre avanzavano sulle lastre di pietra incrostate di ghiaccio della Via Pontica, la strada costiera lungo la quale i soldati romani potevano ancora entrare e uscire dalla capitale. Era l’unica arteria che potevano percorrere in sicurezza, protetti dalla costa e dalla flottiglia che li scortava. Il tribuno volse poi lo sguardo verso le colline dell’entroterra, dove risuonavano i versi degli animali selvatici. Soltanto un folle si sarebbe avventurato nel cuore della Tracia e della Macedonia, occupate dai guerrieri di Fritigerno. Erano passati dieci giorni senza che fossero avvistati altri speculatores. Pulcher aveva sostenuto di aver visto, una notte, un’ombra aggirarsi nelle tenebre, ma non c’erano state altre segnalazioni. E ora, mentre la Claudia si avvicinava al cuore dell’Impero d’Oriente, il ricordo di quei corpi sventrati nel gelido nord sembrava quasi irreale.
Alla fine del pomeriggio si avvicinarono a Costantinopoli. Superarono i bastioni di legno e detriti eretti lungo la strada, come dighe e frangiflutti per contenere un’inondazione. Non era la prima volta che Fritigerno guidava i suoi uomini fino a Costantinopoli, che aveva rinunciato a conquistare perché le strutture difensive gli erano parse inespugnabili, ma nessun romano voleva vedere di nuovo la sua orda avvicinarsi a quell’antica città sacra, e per questo l’avevano fortificata con barricate e torri di guardia. Gli elmi dei romani scintillavano dietro i bastioni finché le guardie, allarmate, non si resero conto che gli uomini che si stavano avvicinando erano in realtà degli alleati.
«Tribuno Pavone», lo salutarono dei legionari lungo la strada. Pavone ricambiò con un severo sguardo militaresco. Alcuni sembrarono fissarlo più a lungo del dovuto e Pavone fu scosso da un brivido di sospetto. Gli speculatores potevano essere ovunque, chiunque. Prendetemi pure
, pensò, e portatemi dal vostro imperatore. Nessuna delle sue catene potrà trattenermi… non quando il suo collo è alla portata della mia spada
.
Poi si rese conto che i legionari non fissavano lui, ma l’uomo che stava scortando.
Si voltò a guardare Atanarico il goto. Prima di quell’incontro Pavone non aveva mai avuto occasione di vedere il leggendario re, ma altri legionari gliel’avevano descritto come un uomo molto alto e snello con i capelli corvini, i tratti prominenti, gli occhi fiammeggianti e il cuore duro come la pietra: un guerriero astuto e spietato. Pavone vide però soltanto il guscio di un uomo segnato dal tempo. Non doveva avere più di quaranta estati, ma gli ultimi anni erano stati inclementi con lui: era avvizzito, con la schiena curva, le dita adunche come artigli e le ossa sporgenti. La faccia butterata si era afflosciata come una candela mezza sciolta, con gli occhi cisposi, la chioma ridotta a poche ciocche rinsecchite su un capo coperto di croste rossastre e la barba incolta che pendeva sulla corazza arrugginita decorata con rondelle di bronzo. Era devastato dall’età, o forse dagli anni trascorsi nascondendosi sulle aride alture dei Carpazi mentre gli unni imperversavano nelle sue terre perdute. I ricordi affiorarono alla mente di Pavone: la trappola in cui era caduto nel lontano regno del Bosforo e le dispute che avevano portato alla guerra gotica… Quell’uomo aveva avuto un ruolo preponderante in entrambe le cose. Ma qualsiasi cosa avesse fatto in passato, ora era ridotto all’ombra di sé stesso. Pavone provò pietà per lui.
Il tribuno volse di nuovo lo sguardo davanti a sé: a est l’orizzonte era cambiato, al posto delle ondeggianti colline si scorgevano ora le imponenti mura di Costantinopoli che, punteggiate da enormi torri di guardia, cingevano la penisola. E all’interno delle mura c’erano scintillanti cupole e monumentali palazzi di marmo e travertino bianco, splendenti tetti rossi insieme a colonne e pilastri che svettavano verso il cielo come dita di dèi. Lungo le mura sventolavano le bandiere con le insegne della città e il sole del tardo pomeriggio si rifletteva sulle lance e le corazze delle guardie di pattuglia. A nord e a sud della penisola le acque color cobalto brillavano come argento. La flotta Classis Moesica – un tempo padrona incontrastata del Danubio – era ancorata a nord del Corno d’oro, mentre a sud lo stretto era solcato da cocche mercantili e barche da pesca. La città aveva assunto un’importanza cruciale: era la capitale, la residenza dell’imperatore Teodosio e anche la sede dell’esercito. Ciò che restava delle legioni era acquartierato lì nel tentativo di rinforzarle e rinnovarle, in previsione dell’arrivo dell’esercito d’Occidente, che avrebbe dato manforte contro i goti.
«Ho sentito parlare di queste meraviglie, ma non credevo che esistessero davvero», gracchiò Atanarico alle sue spalle. «Quando l’orda di Fritigerno è arrivata fin qui, la vista della città è stata sufficiente per fargli fare marcia indietro, e sono fuggiti come cani bastonati. Quando me l’hanno raccontato, nel mio rifugio sui Carpazi, sono scoppiato a ridere. Che idiota!
, ho pensato. Ma adesso mi rendo conto che l’idiota sono io, per aver creduto di poter conquistare questa città».
Pavone scrutò le mura e si augurò che Costantinopoli fosse ancora potente come un tempo. Le perdite dell’anno precedente, durante la battaglia alla fortezza di Scupi, erano state ingenti. Le legioni addestrate frettolosamente dell’imperatore Teodosio erano state decimate dall’orda di Fritigerno. Da allora i presidi sulle mura erano stati triplicati per impressionare gli osservatori esterni, ma nelle baracche e negli accampamenti all’interno della città erano rimasti pochi soldati e la popolazione, affamata e terrorizzata, faceva lunghe code per assicurarsi una misera razione di grano. Il futuro di Costantinopoli dipendeva da Graziano e dalle sue legioni occidentali.
Il destino della città era nelle mani dell’imperatore, rifletté Pavone pensando all’espressione serena del giovane Graziano, una maschera perfetta per un demone. Poi si figurò nella mente una mappa della Tracia, con l’orda dei goti come un cuore pulsante e le legioni d’Occidente che avanzavano furtive per circondarla. Avrebbero ingabbiato tutta la Tracia. Non ci sarebbe stata alcuna via di fuga per chiunque Graziano ricercasse… goto o meno che fosse.
«Sembra che mio nipote Modares si sia sistemato bene nell’impero», disse Atanarico scacciando i pensieri che opprimevano Pavone.
Il tribuno annuì. «È diventato generale, nientemeno che il magister militum dell’esercito della Tracia».
«O di quello che ne rimane», lo corresse Atanarico con una risata che lo fece oscillare sulla sella.
Pavone gli lanciò una gelida occhiata, ma il re goto non sembrò accorgersene.
«Modares è sempre stato un’audace bastardo», continuò Atanarico. «Ha sempre pensato di essere migliore degli altri. Una volta ci siamo scontrati», aggiunse scoprendo i denti in un ghigno. «L’ha scampata per un soffio».
Atanarico ridacchiò al ricordo di quell’esperienza ai confini della morte vissuta dal nipote e poi volse di nuovo lo sguardo verso la capitale. «Quello che non capisco è perché il vostro imperatore ha costruito queste imponenti mura per tenere i goti lontani dalla città e poi ha accolto nei suoi alti ranghi e nei suoi palazzi dorati un lupo come Modares».
Pavone lo guardò e una nuova luce si accese nei suoi occhi spenti. «Modares non è un lupo. Ha combattuto per l’impero come un leone al forte di Scupi e a Sirmio. Negli anni in cui è stato al servizio dell’imperatore è molto cambiato e si è anche convertito alla dottrina di Nicea. È una brava persona. E nell’impero c’è sempre un posto per le brave persone. Ci sono altri goti al servizio dell’imperatore, fra guardie e alti generali. I romani e i goti possono lavorare insieme. Questa guerra non sarebbe mai dovuta scoppiare».
Atanarico emise uno sprezzante grugnito. «Dodici anni fa, quando ero iudex, mi trovavo su una barca in mezzo al Danubio e di fronte a me era seduto l’imperatore Valente. La reciproca rabbia dettò un accordo che non conveniva a nessuno dei due, un accordo che sottrasse a me i diritti commerciali con l’impero e a lui i miei sudditi per ingrossare le file delle sue armate. Mi sono chiesto spesso se i semi della guerra erano stati sparsi quel giorno. O forse era stato l’arrivo degli unni a far precipitare la situazione. Possiamo attribuire la colpa a quello che vogliamo, ma non possiamo cambiare quello che è accaduto».
«Allora perché sei qui?», chiese Pavone. Non gli avevano detto nulla, soltanto di assicurarsi che Atanarico arrivasse in città sano e salvo.
«Per cambiare il corso della guerra», rispose il goto. «Per farla finire». Poi fissò il vuoto, con quel bagliore che gli illuminava di nuovo lo sguardo. «Per smascherare una volta per tutte la follia del mio vecchio avversario Fritigerno».
Un brivido corse lungo la schiena di Pavone. «Fritigerno vuole la pace», disse.
«Lo credi davvero?», rispose Atanarico con un largo sorriso che lo fece sembrare al tempo stesso più giovane e più minaccioso. L’espressione benevola e condiscendente di prima era scomparsa, come se fosse stato squarciato un velo. «Penso che la pace sia stipulata meglio con la lama di una spada».
All’improvviso risuonarono alti squilli di tromba. Una dozzina di trombettieri si precipitarono in cima alle due alti torri che fiancheggiavano la Porta Aurea, accompagnati da un peana delle buccinae. A qualche centinaio di metri dalle mura, tutti rallentarono istintivamente il passo mentre la porta si apriva.
All’interno, una figura vestita di bianco li aspettava in sella a un cavallo reggendo un labarum con il simbolo del chi-rho. Il sole si rifletteva sul diadema costellato di pietre preziose al collo del cavaliere. Alle sue spalle c’erano due file serrate di lancearii con le corazze dorate.
«L’imperatore Teodosio in persona», disse Atanarico con voce impastata. «Mi auguro che non sia un bastardo figlio di puttana come Valente».
Pavone si fermò e scrutò la sagoma lontana dell’imperatore. Teodosio aveva raccontato a Pavone quanto profondamente Graziano l’aveva ferito facendo giustiziare suo padre. Si era quasi spinto fino ad approvare tacitamente la vendetta di Pavone contro l’imperatore d’Occidente, permettendo al tribuno di unirsi alla spedizione per la battaglia di Sirmio, dove Graziano sarebbe stato presente… e vulnerabile. Ma Graziano ne era uscito incolume, e da allora Teodosio era diventato imprevedibile e pericoloso, incline a violente esplosioni d’ira ogni volta che qualcuno suggeriva che le sue azioni avrebbero potuto contrariare Dio. E peggio ancora, quando Pavone aveva ricevuto le istruzioni per la missione al nord e l’incontro con Atanarico, Teodosio era rimasto in disparte, rifiutandosi di incrociare il suo sguardo. Sembrava che l’imperatore d’Oriente non volesse più sostenere Pavone o la sua causa.
«Da Teodosio ci si può aspettare di tutto», disse Pavone. «Va’ avanti, i miei uomini e io ti seguiremo dentro le mura». E ti terremo d’occhio.
Atanarico fece schioccare la lingua e spronò il cavallo. Le sette guardie che l’accompagnavano lanciarono un’occhiata a Pavone e lo seguirono. Il tribuno lo guardò attraversare la porta e si augurò di non aver portato un serpente velenoso nel cuore dell’Impero d’Oriente.
Poi fece segno ai legionari della Claudia di andargli dietro e si voltò a guardare il sole calante, gli alberi, le rocce, le colline e gli uomini che montavano la guardia lungo la strada. Tutti erano ombre nella luce infuocata del tramonto. Ombre… così tante ombre. Con un brivido, si girò e seguì gli altri dentro le mura di Costantinopoli.
Capitolo 2
Sura fissò il bulboso testicolo di montone. Era stato tagliato in due e farcito con spinaci e garum. Una mano invisibile gli strizzò lo stomaco. Alzò gli occhi dal piatto e guardò le facce allegre dei commensali e la piccola folla che si era radunata attorno a loro nella taverna all’aperto, sperando di rimediare qualche sorso di vino. Altra gente si era accalcata sui balconi gelati e sui tetti che si affacciavano sullo spiazzo.
Per un istante fu tentato di non mangiare quella roba. Ma la maggior parte della gente in città avrebbe fatto la fila per un pasto simile. In quei giorni le strade erano affollate di mendicanti a piedi nudi che vagavano giorno e notte in cerca di cibo. I fieri contadini della Tracia erano ridotti in miseria, le loro vecchie case distrutte, saccheggiate o cosparse delle ossa dei loro cari che non erano fuggiti in tempo dai goti. Persino da lì riusciva a udire il clamore delle voci che salivano dal mercato del pane: i magazzini della città erano già vuoti e la successiva spedizione da Tessalonica sarebbe arrivata soltanto l’indomani.
Sura alzò lo sguardo verso il cielo azzurro del mattino e poi recitò tra sé una preghiera a Mitra. Aveva mangiato centinaia di volte quel piatto, e di solito lo trovava delizioso. Ma adesso l’odore del garum gli dava la nausea e, peggio ancora, il testicolo gli ricordava…
«Forza!», ridacchiò Pulcher. «Mangialo».
Sura sollevò la massa globulosa con entrambe le mani, annusandola con finta noncuranza, e fissò il boccone come se fosse un nemico mentre lo avvicinava alle labbra. Il garum e il sugo del testicolo gli colarono lungo le dita e le braccia. Dallo stomaco gli salì un rigurgito, che ricacciò giù con un sorso di vino. I commensali si strinsero le mani scommettendo: tutti gli occhi erano puntati su di lui.
Sura aprì la bocca, affondò i denti nel testicolo, ne staccò un pezzo e lo masticò a bocca aperta, facendo vedere il bolo agli scommettitori. Gli astanti indietreggiarono schifati e uno di loro posò il sacchetto contenente le monete delle puntate davanti a Sura.
«Continua», disse Pulcher alzando un dito per fermare la transazione. «Devi mangiarlo tutto… fino all’ultimo pezzetto».
Sura si sentì rivoltare lo stomaco. Il sacchetto con le monete fu prontamente tolto dal tavolo. Era riuscito a mangiare quel boccone, ma un altro sarebbe stato troppo. Proprio in quel momento, una vena del testicolo si ruppe, macchiandolo di sangue.
«Bleah!», urlò Sura, scostandosi dal tavolo e spruzzando sul petto della tunica e sulle gambe nude un fetido vomito arancione.
Gli spettatori si ritrassero divertiti e cambiarono le loro scommesse. Pulcher girò attorno al tavolo e afferrò il compagno per le spalle. «Questo ti insegnerà a essere meno sconsiderato con un correligionario che ha perso il testicolo».
Sura gli lanciò un’occhiata sprezzante e poi spalancò la bocca inondando il pavimento con un altro fiotto di vomito. I commensali balzarono indietro come se fosse un appestato.
Libone, con le lacrime agli occhi per le risate, coprì con la mano il suo bicchiere di vino mentre Sura continuava a essere scosso dai conati. «Per Mitra, questa me la sono persa», disse.
Rectus, che se ne stava in disparte coprendosi il naso e la bocca, mise in guardia un compagno che avanzava con un vassoio di bicchieri proprio nell’istante in cui questi scivolava su una pozza di vomito. I bicchieri caddero a terra e il vino schizzò tutt’intorno. Alcuni legionari si alzarono per scoprire il colpevole – che si dibatteva cercando di rialzarsi dal mare di vomito – e se la presero invece con quelli seduti lì vicino. Nel giro di un attimo volò il primo pugno. Denti schizzarono sul pavimento e si udì il rumore secco di un naso che si spezzava. Alcuni presero a scaraventarsi addosso sedie e tavoli, le inservienti strillarono, il locandiere cercò invano di placare gli animi. Poi botti e tinozze furono rovesciate a terra e il vino si mescolò al vomito di Sura. «Chiamate le guardie!», urlò il locandiere esasperato.
Asciugandosi le labbra con un pezzo di tessuto, Sura si guardò attorno divertito dalla scena e diede una pacca sulla spalla a Rectus, Libone e Pulcher. «È meglio che ce ne andiamo», disse.
«Perché?», domandò Pulcher, che moriva dalla voglia di tuffarsi nella rissa.
«Perché oggi e domani siamo noi le guardie», rispose Sura. Si alzarono di scatto e si allontanarono aprendosi un varco tra i contendenti. «Prenderemo gli scudi e gli elmi agli alloggiamenti militari di Neorion e torneremo. La vista delle nostre insegne dovrebbe bastare a calmarli».
«Ma dov’è il tribuno?», chiese Opis evitando un uomo caduto a terra.
Sura schivò un pugno, scivolò su una pozza di vino e vomito e si guardò attorno. «Aveva detto che sarebbe venuto… voleva che mantenessimo un basso profilo».
Da un tetto sopra la taverna, Pavone guardava incredulo i suoi uomini fuggire dai disordini che loro stessi avevano provocato. Cercò di immaginare cosa si sarebbe inventato Sura per giustificare la propria condotta, ma poi rinunciò. C’erano questioni più importanti da considerare. Come gli undici uomini che si erano fatti largo tra i bevitori avanzando verso i suoi compagni un istante prima che esplodesse la rissa.
Quegli stranieri erano ancora laggiù e si muovevano come la prua di una nave attraverso la folla che continuava ad azzuffarsi. Li aveva visti mentre si avvicinava alla taverna, e i loro mantelli neri lo avevano indotto a fermarsi: stavano scendendo lungo la strada delle mura, e qualcosa gli aveva detto che erano diretti alla taverna. Così aveva deviato in una stradina laterale ed era salito su quel tetto per controllarli dall’alto.
Gli undici uomini arrivarono al tavolo dove erano seduti i legionari della Claudia e si scambiarono dei cenni rabbiosi guardandosi attorno.
Pavone si chinò facendo sporgere soltanto gli occhi dal bordo del tetto e infilò il cappuccio della sua logora tunica civile marrone. Uno degli uomini in nero si avvicinò a un uomo che partecipava alla rissa, gli sussurrò qualcosa all’orecchio e si allontanò. Poi gli undici uomini misteriosi lasciarono la taverna e Pavone tirò un sospiro di sollievo. Erano soltanto una delle tante bande locali, si rese conto, dei disperati che volevano bere e menare le mani. Li guardò allontanarsi mescolandosi alla folla nelle strade della città. Poi volse di nuovo lo sguardo in direzione dell’uomo che era stato interpellato da uno di loro e notò la sua espressione confusa, il pallore del suo volto… e la macchia di sangue che si allargava sul petto della sua tunica. Il taglio netto alla base del suo collo era stato praticato con una tale abilità che all’inizio la vittima non se n’era nemmeno accorta. L’uomo barcollò per qualche istante è poi crollò in una pozza di vomito e vino.
«Un assassino professionista?», sussurrò con un filo di voce Pavone.
«Con chi stai parlando?», disse qualcuno alle sue spalle.
Un brivido di terrore corse lungo la schiena del tribuno, che si voltò di scatto e vide Saturnino, magister militum e capo delle guardie del palazzo di Teodosio. Esile e basso di statura, con lineamenti quasi femminili e i lunghi e lucenti