Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

La caduta degli immutabili
La caduta degli immutabili
La caduta degli immutabili
E-book368 pagine5 ore

La caduta degli immutabili

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Se mai esista un romanzo filosofico, è questo il caso. Dopo L’eresia degli asconditi (salutato con vivo apprezzamento da un critico di stampo classico come Bàrberi Squarotti: “ho letto con particolare soddisfazione il suo romanzo (…) decisamente alternativo rispetto alle scialbe e banali mode e forme degli ultimi vent’anni”), in questo secondo romanzo, ambientato nell’ultimo scorcio del secolo XV tra le alte montagne di un immaginoso settentrione italico, l’Autore svolge la narrazione attraverso un gioco di rimandi tra i tormentati eventi in cui il dotto medievale protagonista del romanzo è trascinato – in seguito ad un malaugurato, o piuttosto… benefico, cedimento alla tentazione della carne – e il travaglio intellettuale e spirituale che con quegli eventi si intreccia. Il male, il dolore, la Verità…: in un tardo medioevo popolato di santi e di demòni, di umili e prepotenti, nel mezzo delle feroci lotte locali tra la parte papale e quella imperiale e della grande rivolta contadina guidata dal folle esorcista rivoluzionario, lo scavo interiore del tribolato viaggiatore si snoda sul filo di un sottile gioco intellettuale che miscela rigore e inganno logico o deduzione fantasiosa, scoprendo, al punto più alto, la superiore dignità del dubbio.
…“Alla fanciulla rispettosamente pose la domanda e ottenne cortese risposta (…). Fu nel salutarlo che Pietro colse in lei un intenzionale sia pur lievissimo attardarsi dello sguardo, che ebbe su lui l’effetto di un avvolgente intensissimo trascinamento. Tanto bastò a stregarlo. Fu così che Pietro di Terralta, detto monaco, provò come mai prima le accese tenebre della seduzione”…
 
Giovanni Campana – Dopo il liceo classico, frequentato a Modena, dove è nato e vive, si è laureato in filosofia all’Alma Mater di Bologna. È stato insegnante di lettere, poi, a lungo, preside nella scuola media. Con Europa Edizioni ha pubblicato L’eresia degli Asconditi (seconda edizione, Europa Edizioni 2018).
LinguaItaliano
Data di uscita31 lug 2019
ISBN9788855084468
La caduta degli immutabili

Leggi altro di Giovanni Campana

Correlato a La caduta degli immutabili

Ebook correlati

Narrativa letteraria per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Recensioni su La caduta degli immutabili

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    La caduta degli immutabili - Giovanni Campana

    veritas

    Si riporta, in forma di Avvertenza, uno stralcio della nota con cui l’ultimo discendente dei Terralta, Giovanpietro, ha consegnato il presente testo al sottoscritto perché, compiuta un’ultima essenziale revisione linguistica - di cui, sia pure con qualche titubanza, il sottoscritto si assume piena responsabilità - ne curasse la pubblicazione a lungo rinviata.

    G.C.

    Avvertenza.

    Il manoscritto originale di questa singolare narrazione, da attribuirsi quasi certamente allo stesso protagonista, il mio antenato Pietro di Terralta, andò perduto nel bombardamento della rocca di famiglia nel corso dell’ultima guerra mondiale. Considerando quanto la riflessione sul male occupi le pagine del racconto, una simile fine risulta coerente con l’amaro taglio sapienziale di tanta parte di esso. Trattandosi di uno scritto presumibilmente risalente all’ultimo scorcio del secolo XV, che nessuno avrebbe letto nella pesante e complicata lingua tardoquattrocentesca, mio nonno Riccardo, sul finire degli anni Trenta del ‘900, volle farne una copia completamente riscritta in italiano corrente. Senonché la scrittura prese ben presto, con inaspettata naturalezza, un andamento di sapore, se non antico, sorpassato, che tuttavia non gli dispiacque. Ebbe anzi la netta percezione che, a volgere la narrazione nella lingua della nostra contemporaneità, insieme al timbro dell’antico se ne sarebbe andata anche l’anima del racconto, sicché decise senz’altro di proseguire a quel modo per l’intero testo.

    A questa lingua pseudoantica mi sono affezionato, come ai dubbi e alle speranze dell’antenato Pietro, alle sue caparbie incertezze, ai suoi slanci ideali. Per questo mi sono finalmente deciso a pubblicare La caduta, perché possa il suo rischioso viaggio essere pericolosamente ripercorso da coloro che, nel proprio personale cammino alla ricerca della verità, vogliano indagare anche questa singolare testimonianza.

    Giovanpietro di Terralta

    PARTE I - Il viaggio

    1.

    MONTELLO

    Luce e ombra.

    Fu forse il forte impulso della libertà a spingere Pietro di Terralta alla partenza. Benché non fosse monaco, tale, tuttavia, egli veniva detto per la vita ritirata e i modi chiusi. Sellò il cavallo e partì. Lunga la strada; ma tale era la sua scelta, la sua libertà: lungamente andare.

    Molto ancora distava Gonzubio, quando il sole fu basso all’orizzonte e il rosso del tramonto si sparse al di sopra per la grande volta. Si fermò Pietro a Montello e sistemò il cavallo. Lo attirò, dello sconosciuto borgo montano, lo spazio aperto e tuttavia raccolto del sagrato dinanzi alla facciata della vecchia pieve. Oltre alla bellezza delle forme, osservò di questa i ruvidi marmi. Ne amava la durezza rugosa, la perennità, la solenne pacatezza. Ne percorse con la mano la grana grossa, benefica al tatto, profonda allo sguardo. Luce e ombra vi si annidavano ad ogni grumo pacificate, in una contiguità che, senza violenti strappi, senza pena, le congiungeva l’una all’altra, luce e ombra, luce e tenebra, in una più interiore dolcezza. Per questo così benefiche e intime a sé sentì quelle grumose superfici, per questo la sera che scendeva, così dolcemente, così naturalmente vi si intrideva.

    Parve tutto ciò a Pietro figura di noi, raggiunti da benefici raggi di luce, gravati da pesanti ombre, e di come dolore e stato felice, bene e male, tanto violentemente avversi nell’alterno vivere mortale, non possano sfuggire a un superiore principio d’armonia.

    Questo gli parve aver compreso in quella prima sosta del viaggio. Tanto bastò per giudicare fruttuosa e beneaugurante per il cammino intrapreso quella prima giornata.

    2.

    LE PUTE

    Soverchiante potenza.

    Giunta mattina, pagò e ripartì. Bergiano, Fertuglia, Roccamonte e ancora Le Pute, Casazza, Malacoscia, Diavola, Darra Del Rio sull’omonimo piccolo torrente. La lunga fila di borghi che precedevano l’importante città di Gonzubio si snodava ora sul dorso ora sul fianco di quei primi monti, che gli si svelavano dinanzi nell’incedere quieto del cavallo. Quando, nel disporsi a riprendere il cammino, aveva chiesto al locandiere quali borghi e cittadine lungo la via avrebbe incontrato, era stato colpito dai nomi di alcuni di essi. Che significava Le Pute? e Malacoscia? e Diavola? e Casazza? voleva forse quest’ultimo nome ricordare le vergognose case del vizio? e lo stesso quel riferimento a fanciulle, e, nemmeno velata, la sconcia allusione a nudità proibite. Poco oltre, una diabolica potenza seduttiva femminile doveva un tempo aver tenuto in pugno gli uomini di quelle terre, lasciando al luogo il beffardo nome di Diavola. Fu turbato Pietro al pensiero del baratro di lussuria in cui l’intero territorio compreso tra quei borghi doveva essere un tempo sprofondato; e immagini proibite, intramontabili figure di peccato, si affollarono in lui, risalendo scomposte da oscuri labirinti dell’anima. La lotta che dalla ormai lontana adolescenza, con regolare ritorno, duramente sfidava la sua composta e tuttavia sofferente resistenza fu più ardua del solito per tutto il tempo del lungo cammino. Forse, pensò, è in noi celata, nel nostro stesso fondo, in un luogo a noi negato, una parte inaccessibile di noi. Solo preghiera e penitenza possono ottenerne la vera e piena sottomissione al nostro autentico volere, così da piegare la soverchiante potenza che da occulte nicchie di desiderio in noi irrompe, e fiacca e vince la nostra volontà, non di rado la più decisa e forte.

    Quanto tutto ciò contraddicesse alla superiore armonia che egli aveva veduto il giorno innanzi promanare dai marmi della sacra pieve gli parve enigma duro e inquietante. Libero e incontrastato gli sembrò operare nel mondo un indominabile principio del male. Temette, quasi ne fu improvvisamente certo, non poter esservi né ora né mai composizione alcuna: incontrollato il male, imprevedibile il bene, l’uno e l’altro sovrani dimezzati dall’irrompere dell’altra potenza in un’intramontabile lotta di spartizione di luoghi e momenti dell’esistere, senza mai un vero vincitore. Si pentì di un simile pensiero, segno di poca fede o, peggio, di spirituale perversione, ma non poté dedicarvi oltre la mente, preso com’era da quella stessa lotta tra turpi e nobili potenze che in quel frangente in lui si scatenava. Avvertiva infatti la vertiginosa prossimità della caduta. Tuttavia ritenne giusto e in sé decoroso indagare su tutto ciò, reputando la libertà del conoscere ciò che più di tutto merita d’essere perseguito; questo, infatti, lo aveva mosso all’andare. Meditò pertanto di sostare in almeno uno di quei luoghi per fare luce sul passato che in essi sentiva risuonare. Lo colse il dubbio, o piuttosto la mera ipotesi, priva certo di qualsivoglia verisimiglianza, che potesse quel che lì era evocato non appartenere affatto al passato. Raccolse pertanto nell’animo i più elevati pensieri e invocò la divina protezione, così da non temere di lasciarsi sviare da qual che si fosse spiacevole imprevisto.

    Giunse quindi a Le Pute e sostò a una fontana per abbeverare l’animale, guardando all’intorno per chiedere a chi per primo passasse ove trovare una locanda per la notte. Uscì allora dal vicino vicolo e raggiunse quella stessa fontana una fanciulla recante una semplice brocca da riempire. Era il suo aspetto di dolcezza così delicata e insieme teneramente vigorosa, come è della speciale bellezza delle fanciulle da poco affacciate all’esser donna, che Pietro trasalì e tanto si compose esternamente in modi acconci e rispettosamente trattenuti, quanto si scatenò in lui la furia di virulenti umori, nei suoi visceri e per tutto il corpo, e la mente divenne luogo, sull’istante, di furibondo scontro tra opposte volizioni e lo spirito stesso si smarrì e quasi perse ogni discernimento, squassato e quasi soffocato dai flutti del desiderio.

    Alla fanciulla rispettosamente pose la domanda e ottenne cortese risposta: pochi passi più avanti, lungo il vicolo a destra, era la locanda; di là ella stessa veniva. Fu nel salutarlo che Pietro colse in lei un intenzionale sia pur lievissimo attardarsi dello sguardo, che ebbe su lui l’effetto di un avvolgente intensissimo trascinamento. Tanto bastò a stregarlo. Fu così che Pietro di Terralta, detto monaco, provò come mai prima le accese tenebre della seduzione.

    Quel che seguì parve poi aver avuto luogo senza nemmeno svolgersi nel tempo, tale fu il precipizio dell’accadere che divorò l’intera notte. Più tardi, tutto avvenuto, si chiese Pietro in che modo avrebbe mai potuto egli inserirsi con la sua propria volontà ad arrestare il travolgente succedersi dei fatti, prima di uscirne fortunosamente, o piuttosto per grazia del cielo, sulla soglia del non ritorno. Si chiese se, come era a lui parso, veramente una potenza estranea si fosse in lui del tutto sostituita alla sua stessa volontà o non vi fosse stato, piuttosto, un suo impercettibile concorso nell’instaurarsi del fatale laccio che lo aveva tratto nella spira della seduzione. Così, nel recarsi senz’altro alla locanda, si era in lui generato un andare come di semoventi membra d’un corpo estraneo, fermamente determinato in ogni suo moto alla consumazione dell’atto proibito. Ben sapeva, in realtà, che a quello i suoi passi conducevano, che ad esso una parte di lui, su tutto dominando, trascinava ogni moto delle sue membra. Sapeva; e protestava animatamente con se stesso, facendo disperatamente appello alla sua propria volontà per resistere alla tentazione. Pure, procedeva nella direzione assunta; e fintamente, raggiunta in pochi passi la locanda, aveva ignorato l’occhiata compiaciuta della locandiera nel vedere in quel luogo la sua severa figura e la veste quasi monacale; fintamente, nel salire alla stanza assegnata, aveva mantenuto lo sguardo castamente raccolto nell’involontario scorgere da una porta socchiusa fanciulle discinte in attesa, quasi che nemmeno se ne fosse avveduto, quasi fosse a lui dato separarsi dal più violento tumulto che alla vista di ciò lo aveva traversato. Allo stesso modo, deposti gli abiti e infilatosi nel giaciglio, si era girato sul fianco, spalle alla porta, e aveva chiuso gli occhi e levato al cielo breve preghiera, fintamente disponendosi al sonno. Chiaramente sapeva, infatti, benché mai avesse sperimentato simili circostanze in passato, doversi attendere ben altro che un giusto sonno quella notte in un simile luogo. Non erano infatti tardati alcuni tocchi alla porta.

    Mai seppe Pietro di Terralta comporre la pur vivida memoria di quel che seguì in una ordinata e ben connessa figurazione. Alla celerità del cuore, al respiro fatto sull’istante mozzo e affannoso, alla forza accecante del sangue che premeva in capo e per tutto il corpo e pareva dovergli uscire dagli occhi erano corrisposti, all’udire quei tocchi, movimenti convulsi, insieme rapidi e trattenuti. Balzò seduto sul giaciglio e si avviò a scatti ad aprire, dominando a stento la voce che nel frattempo chiedeva con ricercata tranquillità chi fosse alla porta. L’invereconda scollatura della fanciulla, quella stessa prima incontrata, sveltamente introdotta nella stanza dalla mezzana, fu da questa sollecitamente abbassata dalle spalle a mostrare del tutto il petto nudo, lasciando le vesti calate sui fianchi. Il gesto odioso e brutale ed il sorriso sconcio e ributtante dell’anziana donna suscitarono in lui un moto di violenta ribellione. Provò Pietro un senso di disprezzo e condanna, una irresistibile ripugnanza. Ma la vivace dolcezza della fanciulla, gli occhi ingenui e fiammanti, l’ovale perfetto del viso ridente, appena inselvatichito dai capelli scompostamente disciolti, e la sconosciuta inconcepibile grazia e purezza delle carni e delle forme nell’improvvisa disvelatezza delle rotondità nascoste, che ora gli si paravano fascinose dinanzi agli occhi, lo paralizzarono. La fanciulla lasciò cadere le poche vesti offrendosi interamente allo sguardo e mosse alcuni passi verso di lui. Restando Pietro come immobilizzato dinanzi a lei, ed essendoglisi ella avvicinata sino ad aderire a lui con tutto il corpo, la mezzana ve la spinse contro accompagnando il gesto con parole che, per voler sembrare di suadente invito, risultarono di tale sconcia trivialità che Pietro vi si ribellò realmente. Scostò a forza la fanciulla con il braccio chiuso a scudo dinanzi a sé, facendola scompostamente retrocedere e quasi cadere a terra. La mezzana emise un breve grido per l’atto inatteso, poi di nuovo gridò; un nome, questa volta. E a quello un turpe figuro, il volto corrotto da profonde cicatrici, lo sguardo di spietata durezza reso sinistramente ambiguo da un occhio losco, entrò di corsa nella stanza e, afferrato Pietro per un braccio, glielo torse dietro la schiena fino a provocare in lui acutissimo dolore.

    Si avvide Pietro, ripiegato su di sé nella stretta micidiale, che, rannicchiata tra il giaciglio e la parete e con le braccia strette al di sopra a proteggere il capo, la fanciulla era oggetto di violenti colpi dalla mezzana. Questa la schiaffeggiava gridando improperi e minacce, imputandole di essere stata esitante nell’atto seduttivo verso il riottoso ospite; le gridava con odioso sarcasmo che ella, non avendo genitori né altri che la tenesse in proprietà all’infuori della mezzana stessa, a lei doveva obbedienza e che sarebbero seguite venti, cento scudisciate. Al pianto convulso dell’adolescente, alle sue braccia poste a difesa, che pur tentavano una protezione, la brutalità dei colpi si faceva più accanita e selvaggia. Pietro gridava anch’egli, invocando, pretendendo che la spaventevole violenza sulla poveretta cessasse nell’istante. Le nudità della fanciulla, tutta stretta in sé stessa, contratta in tutte le membra nell’atterrita attesa delle percosse, non svelavano ora al suo sguardo che un’infantile indifesa fragilità e l’inaudita verità della sofferenza degli innocenti. Il bruto che lo teneva si unì alle urla minacciose della mezzana e, senza cessare la stretta su di lui, volle unirsi alla donna nelle percosse alla fanciulla, raggiungendola con un forte calcio alla coscia. Ne approfittò Pietro per divincolarsi. Si gettò verso la mezzana allontanandola dalla fanciulla e si pose dinanzi a questa facendole scudo del proprio corpo. Tale era nel suo animo la stretta della pena e il furore dello sdegno che gridò loro di lasciare quell’infelice, di lasciarla per sempre. Avrebbe pagato egli stesso qualunque somma per la sua libertà.

    Insistendo Pietro nella sua disperata proposta e volgendo gradatamente il gridare in voce più acquietata e infine, benché forte, discorsiva al modo di un onesto commercio di cose o animali, la donna gli prestò ascolto, zittendo seccamente il brutale aiutante. Dichiarò provocatoriamente di accettare la turpe transazione, definendo l’inverosimile posta di dieci libbre d’oro, che Pietro certo non possedeva. Egli aveva invece con sé, avuti a compenso dei suoi servigi dalla nobile famiglia dei Marraldi di Pertignano presso la quale era stato per lunghi anni precettore dei due figlioli, cento grossi d’oro, abilmente celati nel doppio fondo appositamente ricavato nella sella del cavallo, che la donna accettò. Sveltamente rivestitasi la fanciulla, che per tutto il tempo era restata a terra raggomitolata su se stessa, e avvicinatasi frastornata e incredula al nuovo venuto, colma ancora di terrore e scossa da irrefrenabili singhiozzi, discesero tutti alla stalla tra la curiosità dei clienti e delle compagne di lei, richiamati alle porte e alle scale dalle forti grida. Si pose Pietro a scucire faticosamente la sella per aprire il punto esatto del doppio fondo, estraendone infine il sacchetto di cuoio con i cento grossi, che aperse sotto lo sguardo della donna e del compagno, i quali, alla vista dell’oro, presi da eccitato godimento per lo scambio vantaggioso, lasciarono la giovinetta e il cavaliere e si ritirarono persuasi.

    Trovò modo Pietro, in quel concitato frangente, di ringraziare il cielo che la cosa si fosse infine volta al bene. Si scoprì anzi a benedire la sguaiata ostensione delle grazie nascoste della fanciulla da parte della mezzana, che con quello sconcio gesto aveva mosso in lui tale sdegno e raccapriccio da provocare la sua risoluta rivolta. Si era così operata nel suo animo una provvidenziale inversione dall’oscura perversa intenzionalità volta a pascersi delle carni di una tale vittima innocente, ad una opposta intenzionalità di bene, volta a proteggere e liberare la fanciulla dall’infelice stato di schiava dell’altrui desiderio cui era costretta la sua giovane esistenza. Nell’un caso come nell’altro egli non aveva fatto che dar corso a opposte potenze che erano in lui. Gli parve il precipitare degli accadimenti ineluttabilmente determinato da soverchianti potenze. Troppo rapidamente si erano svolti i fatti, troppo forti l’uno e l’altro impulso a determinare il suo agire, perché egli potesse riconoscervi il concorso del suo proprio libero volere. Considerò che quell’esito benefico non avrebbe avuto luogo se egli non si fosse lasciato inizialmente prendere dal maleficio della seduzione e se la mezzana e l’uomo non avessero messo in atto quelle intollerabili brutalità. Può dunque il male generare il bene? Questo, non senza angustia, si chiese Pietro, affrettandosi, sotto la silenziosa quiete della luce lunare, a mettere al cavallo i finimenti con le due sacche del viaggio pendenti ai lati e a salirvi infine lestamente spingendosi un po’ avanti sull’ampia sella per farvi luogo alla fanciulla, fatta salire con abile gesto d’aiuto dietro di sé, seduta di taglio al modo delle donne.

    Subito fuori dal piccolo abitato lasciò Pietro l’infida via di Casazza e degli altri borghi di quel territorio e prese l’impervio cammino del bosco, che li avrebbe portati di là dal monte Cuto a Darra del Rio.

    3.

    DARRA DEL RIO

    Il male che genera il bene.

    Essendo la luna, da quel lato del Cuto, nascosta dietro l’alta mole del monte, paurosamente costretto da entrambi i lati entro la barriera della cupa boscaglia, Pietro distingueva a stento nella più profonda oscurità la traccia sassosa del sentiero montano, spronando il cavallo a un’andatura sforzata per giungere al più presto in vista di Darra. Sarebbero essi entrati in Gonzubio la sera del giorno dopo. L’amico abate Dom Kornelius Kolosius da Eschenbach avrebbe certo trovato di sistemare in qualche modo la fanciulla per l’intero tempo della loro sosta, o forse per la vita. La fanciulla, infagottata per la fredda temperie notturna nella mantella blu bordata rosso a lei lestamente porta per le scale dalle compagne poche ore prima, si stringeva fidente ai suoi fianchi, accovacciata al suo dorso come un piccolo bambino a totale e certo riparo. Lui solo aveva al mondo la sconosciuta adolescente. A lui, Pietro monaco, uomo solo alla solitaria ricerca della verità, era toccato di essere padre di elezione della più tenera e indifesa delle creature di Dio. Giunsero in vetta al monte Cuto quando cominciava la notte a scemare e le prime avvisaglie di una splendida giornata si affacciavano al loro sguardo. Si scorgeva in basso, nel cuore della valle, l’attesa cittadina di Darra del Rio, traversata dal torrente.

    Non poté Pietro non tornare a pensieri di armonia e bellezza nel discendere a cavallo con la fanciulla in faccia al sole l’alto del monte nel giorno che s’avanzava. Si chiese se non fosse, ora, la malvagia sorte sino allora patita dalla fanciulla, sconfitta e compensata dall’irruzione del bene, che era infine prevalso. Nel guadagnare l’aperto luminoso dell’altopiano ai piedi del Cuto e dei più bassi monti intorno a Darra, la benefica vista della cittadina traversata dal torrente, con le sue tozze mura e i nobili palazzi e il fitto tracciato di vie e ponticelli sospesi nel silenzio del mattino, tutto gli parve ora comporsi in un accordo senza scarti delle diverse nature delle cose, dei diversi fini e forze, del concordante disporsi dell’insieme nell’intero paesaggio.

    Arrestò il cavallo non distante da Darra in un prato costeggiante il torrente e, fattane discendere la fanciulla, la sorresse per alcuni passi, invitandola, avuta cura del suo stato di estrema stanchezza, a sgranchirsi appena le gambe, così da sciogliere un po’ le membra dopo la lunga cavalcata. Accennato un timido sorriso e raggiunta l’ombra d’una vicina acacia, la fanciulla, con rapidi gesti aggraziati, sistemò sull’erba la mantella e vi si distese su di un fianco, venendo colta, nel breve volgere dell’istante, da un sonno profondo. Anch’egli, sfinito per il vortice delle vicende che, in bene e in male, avevano così profondamente provato il suo spirito e duramente impegnato le sue forze corporali, si sedette sull’erba a rispettosa distanza dall’acacia ov’era la fanciulla addormentata e lungamente la osservò con amorevole sguardo protettivo, sino a che non gli si fecero pesanti gli occhi e, così seduto sul prato con il dorso a una grossa roccia, fu anch’egli preso dal sonno.

    Volgeva ormai al tardo mattino la splendida giornata, quando, destandosi la fanciulla, Pietro, già in piedi da tempo, le sorrise al risveglio e, rivoltale per primo la parola, le augurò il buon giorno offrendole alcune more e lamponi raccolti per lei nel frattempo. Apprese così finalmente, nel quieto conversare che seguì, il nome di lei, Fioregia, bello, com’egli osservò, e pieno di festosa leggerezza. Quel nome la madre aveva per lei voluto in ricordo d’un’amata sorella, venuta meno in giovane età. Padre non aveva mai avuto Fioregia, essendo la madre non maritata ad alcuno e costretta sin da giovinetta a quel medesimo modo di vita cui la fanciulla stessa era stata poi avviata allo sbocciare della prima adolescenza. Poiché i primi cinque suoi figlioli, tutti maschi, divenuti appena grandicelli, erano stati ogni volta allontanati per rivenire a visitarla in sole rarissime occasioni, alla figlioletta ella aveva riservato tutto il suo materno affetto, spesso e a lungo piangendo per l’infelice condizione in cui la piccola si trovava e ancor più per quella cui era destinata. Di dolore infatti era morta quando la bambina aveva forse otto, forse dieci anni. Né Fioregia conosceva precisamente la propria età, che riteneva essere di quattordici o quindici anni o forse sedici o diciassette.

    Ascoltò ogni cosa Pietro grave in volto. Come aveva potuto mai guardare a quel viso, a quella figura di fanciulla con occhi diversi da quelli di ora? Avrebbe raggiunto Gonzubio, finalmente, e supplicato l’amico abate Dom Kornelius, di trovare per Fioregia una famiglia benestante e buona che l’accogliesse come una figlia a lungo desiderata. Fioregia, staccato e fatto in pezzi di appena mezza spanna un rametto di bosso e chiesto a Pietro di liberare i bastoncini della corteccia e farli lisci e appuntiti, raccolse con quelli la chioma, più e più rigirandola e infine con essi perfettamente fermandola dietro il capo, così da lasciare libero il collo sino alla nuca, in tal modo acquistando una speciale eleganza nella figura. Infine coprì il capo con un fazzoletto di Pietro, chiudendolo a cuffia con rapida leggerezza in tal guisa da non nascondere del tutto i bei capelli.

    Nell’avviarsi a entrare finalmente in Darra, si scusò Pietro con la fanciulla di non avere ormai che una minuscola barretta d’argento, ben celata entro la barra cava a base della staffa, e un po’ di poveri danari in borsa. Con quelli, giunti in Gonzubio, si sarebbe potuta avere una pur modesta sistemazione per breve tempo, confidando di trovare per lei nel frattempo, per l’amicizia dell’importante abate, un luogo sicuro e felice, forse per la vita. Grandi, varcata l’alta porta della cittadina, lo stupore e la gioiosa eccitazione della fanciulla dinanzi alle lunghe file di banchetti e al grandissimo brulichio d’uomini e donne, e bambini con essi, che giravano tra i banchi saggiando con mano esperta i tessuti, rigirando tra le mani paioli e pentolame di rame o i più singolari attrezzi delle diverse arti tra i richiami gridati dei venditori e le ripetute lor litanie d’elogio delle merci. Era la fiera di san Gadino, patrono della città. Vi erano perciò anche giocolieri e mangiatori di spade e sputatori di fuoco e ammaestratori di cagnolini, bardati, questi, come fanti a servizio e piccoli valletti. Mandava Fioregia continue soffocate grida di meraviglia. Persino, vinta poco a poco la timidezza, prese Pietro per mano e lo trascinò quasi a corsa a un banco di fibbie e spille per le vesti e fermagli per i capelli, e fra essi splendenti collanine ed anelli. Si complimentò con Pietro la donna al banco per il bell’aspetto della fanciulla, dicendo che un distinto signore par suo, vantando una così bella nipote, non poteva non offrire alla fanciulla almeno un piccolo anello o una splendente collanina. Si compiacque Pietro, in preda anch’egli a profondi sommovimenti dell’animo, che fosse stato naturale considerare sua nipote la fanciulla. Avrebbe voluto acquistare e donare a Fioregia l’intero banco, ed essendo ora la riserva di danaro non più che pochi spiccioli, preso dal desiderio di vedere piena la felicità di lei, chiese ove fosse il banco del cambiavalute per tornare in danaro un po’ d’argento che portava con sé, avendone in risposta dalla donna che un bell’anellino d’argento valeva meno d’un decimo della barretta del prezioso metallo, all’uopo da lui esibita, sicché si offriva di fare ella stessa un onesto cambio. La gioia di Fioregia fu qualcosa per Pietro di mai prima veduto e per Fioregia stessa mai prima provato. Ella infilò al dito il piccolo anello, recante inciso il disegno d’un semplice fiore a quattro petali, e rise e quasi pianse incapace a contenere la grande gioia. Strettasi forte al braccio di Pietro, si alzò sulla punta dei piedi e, svelta, con gli occhi lucidi, lo baciò in viso.

    Scelta una locanda per la notte, teneramente sorrise Pietro, durante il pasto, nell’osservare come Fioregia, nell’afferrare il pane o il calice o nel sistemare la mantella sulla panca e in ogni gesto delle mani, procurasse, senza perdere la sveltezza del movimento, di tener bene in mostra l’anellino, e soprattutto, facendo vista di posare con noncuranza il viso alla mano, di accostare a sé, al proprio volto, l’oggetto prezioso, quasi che in esso ella stessa fosse segretamente rispecchiata e come racchiusa. Dovendo misurare con massima parsimonia il danaro e non volendo lasciar sola Fioregia, troppo bella e ingenua, chiese Pietro una sola stanza per la notte, con un solo letto, pregando di aggiungere un pagliericcio sul duro legno dell’impiantito, su cui egli avrebbe dormito riservando il letto alla nipote. Lo ferì, giunti alla stanza e posato il lume sul piccolo supporto accanto al letto, l’attimo d’incertezza con cui lo guardò la fanciulla, pur sfinita per la ricca giornata trascorsa, nell’accostare la mano all’allacciatura della veste, quasi si chiedesse se dovesse disporsi a prestare gli abituali servigi sempre dovuti agli uomini. Pietro finse di nulla, rivolgendole tuttavia un sorriso di tal natura da sciogliere ogni odioso equivoco e augurandole un sonno tranquillo; si volse quindi alla spoglia parete e, inginocchiatosi, si raccolse in preghiera, mentre la fanciulla si sistemava lestamente nel giaciglio, subito raggiunta dal sonno.

    Non poté Pietro, nell’elevare l’animo al cielo, non pronunciare una preghiera di lode e ringraziamento per la terrena salvazione a cui aveva tratto Fioregia. Ma quell’ultimo gesto della fanciulla, pregno di tutto il suo passato di subìto abominio, lo riportò all’enigma che lo assillava ormai fino a procurargli un doloroso senso di smarrimento per non essere in grado la ragione, unica arma per la conquista del vero conoscere, di dar conto della sconcertante evidenza che ad ogni passo s’imponeva: come, infatti, ritenere veramente male il male e veramente bene il bene, non essendo rinvenibile, come egli aveva ormai sicuramente constatato, un bene senza male alcuno ad esso inestricabilmente connesso? e come, allo stesso modo, negare che tanto di sovente dal male pur si generi il bene, e dal bene il male? Né, inoltre, l’alto principio che vuole bene e male proporzionalmente distribuiti secondo un decreto a noi celato di suprema giustizia gli sembrava trovare riscontro alcuno nel concreto esistere degli uomini, essendo tra essi alcuni le cui esistenze sono accompagnate da prosperità e un gran numero di beni, altri da miseria e pene e intollerabili ingiustizie. Non erano, dunque, bene e male che pura contingenza? Non poteva in lui venire meno, infatti, la ferma convinzione che il bene è ordine, pur non sapendo precisarne la natura, mentre il caso, non potendo offrire senso alcuno, non può essere che male. Aggiuntosi alla stanchezza del giorno lo sfiancante travaglio di un tale rovello, si coricò infine Pietro nello scomodo giaciglio e si addormentò.

    4.

    GONZUBIO I

    Armonia del Tutto.

    Era poco dall’alba quando gli insoliti viaggiatori salirono in sella, lui davanti, lei dietro stretta a lui; e di nuovo furono in viaggio.

    Non alte, ma solenni le antiche mura di Gonzubio. Vi giunsero che faceva quasi notte. Di nuovo fu massima la meraviglia, varcata la porta della città, dinanzi allo spettacolo degli alti nobili palazzi e belle chiese e degli ampi spazi, fino alla vasta piazza dominata dalla grandiosa cattedrale, ancora assediata, a più di cent’anni dall’inizio dell’impresa, da fitte impalcature che impedivano la vista del suo preciso disegno, solo lasciando libere verso il cielo altissime guglie.

    L’indomani mattina, calcolato con sapiente precisione l’esatto momento in cui i monaci terminassero di cantare l’ora terza, puntualmente fu Pietro dinanzi al monastero in compagnia di Fioregia e, fatta attendere la fanciulla a lato del portone, dette due discreti colpi di battacchio. Aperse lo sportello un umilissimo monaco, piccolo nella figura e, dai modi, appartenente a quel genere di servitori di Dio sempre pronti a umilmente compiacere chiunque sia, il quale, veduta l’austera figura di Pietro, nemmeno attese che egli compiutamente si presentasse e, subito aperta la piccola porta ricavata nel mezzo del pesante portone, uscì in strada e, tutto raccolto e chino dinanzi al visitatore, cortesemente gli fece segno d’entrare per primo. Vide allora la fanciulla che questi recava con sé e che attendeva a lato, sicché, preso da timidezza e forte turbamento e procurando di non levare direttamente ad essa lo sguardo, sussurrò all’orecchio di Pietro che, com’egli certamente sapeva, la fanciulla non poteva metter piede in monastero e avrebbe dovuto attendere fuori. Pietro, che nemmeno in quel frangente voleva lasciar sola la giovinetta, chiese che potesse il colloquio svolgersi all’esterno delle mura del monastero, benché comprendesse esser cosa poco riguardosa per l’importanza di colui che egli desiderava incontrare, e cioè nientemeno che il signor abate, di cui egli era da lunga data amico fraterno. Di fronte alle incertezze e resistenze del monacello, che neppure osava presentarsi all’abate di persona, chiese Pietro di poter almeno parlare con il vicepriore, il quale, udite e ponderate le ripetute spiegazioni, si recò a rappresentare l’istanza all’abate vescovo. Così Pietro apprese essere l’amico nientemeno che vescovo di Gonzubio. Discese di lì a poco l’abate vescovo dalla stanza ove svolgeva i suoi uffici, indossando la comune cocolla del monaco, sia pure con la distinzione e il portamento propri

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1