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Il vento del destino ( Collana Io me lo leggo)
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E-book691 pagine10 ore

Il vento del destino ( Collana Io me lo leggo)

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Info su questo ebook

Parigi 1706, 2016,    In occasione del trecentesimo anniversario dell’azienda di famiglia Victor fa un incontro inaspettato, da quel momento inizia ad avere la percezione di rivivere la storia del suo avo e del grande amore che egli ha vissuto un tempo.  L’incontro con due occhi indimenticabili.  Una promessa. Un amore invincibile. Ed improvvisamente, tutto è chiaro…  Quei due uomini hanno in comune lo stesso destino.
LinguaItaliano
EditorePubMe
Data di uscita22 gen 2020
ISBN9788833664095
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    Anteprima del libro

    Il vento del destino ( Collana Io me lo leggo) - Antonella Parmentola

    destino.

    PROLOGO

    Parigi, 1716

    Accompagnato da suo figlio, che reggeva il portagioie di legno intagliato tra le mani, uscì dal porticato della casa ed attraversò il grande giardino, adornato di statue di marmo e panche di pietra. Camminarono lungo il viottolo di ghiaia bianca fino ad una costruzione separata dal resto della casa. Era un’immensa sala da ballo, decorata da candelieri dorati, specchi enormi alle pareti ed un pavimento a scacchi di marmo purissimo, tanto lucido da potervisi specchiare. Era lì che quel portagioie era stato aperto per la prima volta, in quel meraviglioso salone da ballo. Lì il blu degli occhi di lei si era fuso per la prima volta nel blu di quel meraviglioso zaffiro. Gli sembrava il posto più adatto per seppellirlo. Suo figlio non capiva le sue motivazioni. Era un gioiello così bello e fine! Proprio per questo doveva proteggerlo. Aveva ancora un compito importante da svolgere, ma sarebbe passato molto tempo prima che potesse farlo. Doveva riposare.

    Si inginocchiò e cominciò a scavare una piccola buca a mani nude. Suo figlio lo osservava in disparte, il portagioie tra le mani e lo sguardo assorto, intristito per il dolore di suo padre. Lui non soffriva più da tempo, ormai. Il dolore era stato forte, incredibilmente crudele, ma la sua promessa gli aveva dato un nuovo motivo per andare avanti. Una nuova forza albergava in lui, la forza della speranza. Aveva una missione, adesso. Doveva solo aspettare. Lo aveva promesso, un giorno sarebbe successo di nuovo, ma adesso doveva attendere, doveva ristorarsi. Anche il gioiello avrebbe riposato. Per anni sarebbe stato dimenticato. Tutti avrebbero creduto che fosse andato perduto, ma lui sarebbe rimasto lì a sonnecchiare e ad aspettare che giungesse il momento in cui sarebbe stato sfoggiato di nuovo. Il momento in cui quel blu immenso si sarebbe rincontrato con il blu di quegli occhi splendidi.

    Il vento sfiorò la sua pelle, provocandogli un brivido lungo la schiena. Era un vento freddo, sebbene fossero in piena estate.

    Inspirò a pieni polmoni la brezza, come se in quel vento ci fosse qualcosa per la quale valeva ancora la pena di lottare, di vivere.

    C’era la sua vita, in quel vento. I momenti felici e quelli tristi che aveva vissuto. C’era tutto ciò che, ancora per poco, lo divideva dal suo scopo. In quel vento c’era, ancora una volta, il suo destino.

    I

    Parigi, 2016

    Con lo sguardo fisso da almeno un quarto d’ora sulla stessa frase dell’articolo de Le Nouvel Observateur sulla sua azienda tra le mani, Victor maledisse per l’ennesima volta il rumore assordante del trapano elettrico, proveniente dal giardino della villa. Inspirando pazientemente, bevve l’ultimo sorso di aranciata dal bicchiere e chiuse la pagina di giornale, contando di leggerla più tardi, in ufficio.

    -Gradisce ancora del succo, signore?- gli domandò Josephine, la sua domestica. Senza rispondere alla domanda, alquanto innervosito dai rumori dei lavori in casa sua, Victor le rivolse uno sguardo confuso:

    -Quando finiranno gli scavi per la piscina, Jo?

    -Tra qualche settimana, signore.

    Bene. Quando suo padre gli aveva comunicato di aver deciso di costruire una piscina al coperto, al posto del piccolo campo da tennis sul retro della casa, Victor non avrebbe mai pensato che i lavori durassero così a lungo. Erano almeno un paio di mesi che gli operai invadevano ogni mattina il giardino di casa con le loro tute da lavoro unte e imbrattavano il prato con i resti del loro pranzo. Non vedeva l’utilità di una piscina al coperto, anche perché non aveva quasi mai tempo di rilassarsi a casa, ma suo padre aveva ritenuto opportuno creare uno spazio adeguato allo svolgimento della festa del trecentesimo anniversario della loro azienda, che si sarebbe tenuto proprio di lì a qualche settimana. La BB- Blanchard Bijoux, alias, l’azienda di gioielli più prestigiosa in Francia, festeggiava il suo trecentesimo anniversario da quando il suo capostipite, Victor de Blanchard, l’aveva fondata, nel lontano 1716. Sua madre, Catherine, aveva espresso il desiderio di dare un mega party in riva alla piscina, ma erano nel mese di aprile ed il tempo avrebbe potuto giocare brutti scherzi, quindi suo padre, Armand, aveva deciso di far costruire una seconda piscina, al coperto. Victor sbuffò via l’insofferenza al solo pensiero di tanto spreco di denaro, ma erano i suoi genitori a finanziare il lavoro, quindi non aveva alcun diritto di replicare. In realtà l’aveva fatto, ma gli era stato risposto di non preoccuparsi e che i lavori non avrebbero disturbato in alcun modo la sua quiete domestica. Con un sorriso cinico scosse la testa, pensando che se sua madre fosse stata lì in quel momento, forse, si sarebbe ricreduta. Lei, però, non c’era. Si, perché monsieur Armand Blanchard e signora si erano presi le ferie anticipate ed erano volati in Italia per la loro ennesima luna di miele. Quanti anni di matrimonio festeggiavano? Quaranta, forse? Victor aveva perso il conto. Si alzò distrattamente dal divano e si avvicinò alla vetrata del salone dalla quale c’era una meravigliosa vista sul giardino e sulla nuova piscina. Al momento c’era solo la vasca e gli operai la stavano abbellendo con marmo bianco ai bordi e piccoli tasselli azzurri di un mosaico che avrebbe presto raffigurato un enorme sole sul fondo. Prima della piscina c’era stato il campo da tennis dove solo suo padre ed i suoi amici si erano divertiti per un po’ e dove lui aveva preso lezioni di malavoglia. Prima ancora del campo c’era stato un piccolo ippodromo e suo padre aveva imparato ad andare a cavallo in quegli anni, molto prima che nascesse lui. E prima ancora? Non lo sapeva con esattezza, ma nel diciottesimo secolo la villa ospitava una grande sala da ballo, dove i padroni di casa invitavano i loro ospiti per festeggiare qualsiasi tipo di ricorrenza. In un certo senso quella parte della casa stava ritornando alle sue mansioni originarie. A dire il vero non era cambiato molto da quando l’edificio esisteva. Col passare dei secoli i suoi abitanti avevano arricchito la villa con i loro gusti a seconda dell’epoca in cui erano vissuti, ma in molti aspetti era rimasta una sontuosa villa baroccheggiante degli inizi del Settecento. Il giardino ospitava ancora gran parte delle statue di marmo bianco raffiguranti personaggi dell’antica Grecia e la fontana al centro, a parte essersi scurita col tempo, non era mai stata modificata e continuava a fiottare imperterrita. All’interno il mobilio era stato cambiato più volte, fino ad essere levigato e laccato secondo lo stile parigino del terzo millennio, ma qua e là alle pareti erano ancora affissi quadri e ritratti dei primi proprietari della villa con le loro cornici originali, dorate e sontuose. In sala da pranzo, ad esempio, sua madre aveva insistito per appendere il ritratto del capostipite della famiglia, monsieur Victor de Blanchard, non appena si era accorta che crescendo, lui, suo omonimo, gli somigliasse incredibilmente. Il quadro raffigurava un uomo sulla trentina, dai capelli castani e gli occhi verdi, proprio come lui. Il suo abbigliamento, però, era quello di un gentiluomo del Settecento; camicia con jabeau in pizzo bianco, marsina argentata con ricami in oro. A parte le sembianze fisiche ciò che accomunava il Victor del 1716 e lui era l’espressione sicura, quasi beffarda, dipinta sul volto. Spesso suo padre scherzava, chiedendogli se non fosse addirittura l’incarnazione di quell’uomo!

    Accanto a quel quadro, il secondo mostrava le fattezze di una splendida donna. I suoi capelli biondo-scuri erano raccolti in un’acconciatura fatta di boccoli che ricadevano sulle spalle scoperte. I suoi occhi di un blu intenso, indefinibile, perfettamente riproposto nella pietra preziosa che

    portava al collo. Un collier di finissimi diamanti, tagliati come delle foglie sulle quali poggiava la meravigliosa rosa blu che era il gioiello della signora. Un regalo pregiato che monsieur de Blanchard aveva fatto a sua moglie Constance, forse per il loro matrimonio, non ricordava bene. Per anni Victor era stato affascinato dagli occhi di quella donna e da quella splendida collana al suo collo, ma suo padre diceva che nessuno aveva mai saputo che fine avesse fatto il gioiello, sembrava scomparso nel nulla, non era più stato trovato.

    Lo squillo del cellulare sul tavolino di cristallo, davanti al divano, lo distolse dai suoi pensieri. Sul display lampeggiava il nome di Richard, il suo agente delle pubbliche relazioni, nonché braccio destro. Per anni era stato lui a ricoprire quel ruolo quando c’era suo padre a capo dell’azienda, ma ora che lui gli aveva ceduto il posto, Richard aveva acquisito il suo compito di indire conferenze stampa, organizzare appuntamenti con i clienti e parlare al posto suo quando lui non aveva nessuna voglia o tempo di farlo. Prese l’Iphone dal tavolo e rispose:

    -Richard?

    -Victor, ti ricordo che oggi alle undici abbiamo l’appuntamento con gli inglesi. Sono le dieci e mezzo, dove sei?

    Victor diede un rapido sguardo al Rolex sul suo polso e si maledisse per aver perso tempo a fantasticare sulla storia della sua famiglia in un giorno così importante:

    -Cazzo, me ne ero dimenticato. Sarò lì il prima possibile e se quando arrivano non ci sono, prendi tempo!

    -Prendo tempo? Cosa faccio, cavolo?

    -Non lo so. Improvvisa!

    Prima che il suo collaboratore potesse replicare, Victor aveva già riattaccato. Corse a prendere la ventiquattrore dal divano e infilò la giacca grigia alla svelta mentre lo sguardo di Josephine lo seguiva divertito ad ogni movimento.

    -Jo, perché non mi hai detto che ero in ritardo?- la rimproverò affettuosamente.

    -Non sapevo che avesse un appuntamento, signore!

    -D’accordo, senti… non tornerò per pranzo, quindi non aspettarmi, okay?

    -Va bene…

    Victor la salutò distrattamente ed uscì. Percorse il lungo vialetto di ghiaia del giardino e raggiunse il garage, dove salì nella sua Audi nera e partì il più in fretta possibile senza far caso agli operai che lo fissavano, probabilmente invidiando il suo completo Armani e l’eleganza del suo portamento. O forse semplicemente la sua auto? Aveva completamente dimenticato che quel giorno un’importante azienda di gioielli inglese

    aveva chiesto un appuntamento per parlare direttamente con lui. Non sapeva per quale motivo, erano stati molto discreti per telefono con Richard. Probabilmente volevano proporgli una collaborazione o roba del genere, non ne era sicuro. Ad ogni modo, non poteva farli attendere. Dov’era tutta la professionalità di cui era capace?

    Erano le undici e un quarto quando entrò nell’ascensore della BB diretto al quinto piano. Sbuffò un paio di volte, allontanando la tensione che lo aveva aggredito in auto. Odiava quando l’ansia lo prendeva per qualcosa di nuovo. Non riusciva a controllarlo. Appena le porte dell’ascensore si aprirono al quinto piano, quello degli uffici, la sua segretaria, Claudette, gli andò incontro, allarmata:

    -Buongiorno, signore. Devo informarla che gli inglesi sono già arrivati, il signor Monfort li ha già fatti accomodare nel suo ufficio.

    -Grazie, Claudette. Hai già fatto preparare il caffè?

    -Arriva subito, signore.

    -Bene!- Victor fece un profondo respiro ed entrò nel proprio ufficio. All’interno, seduti davanti alla sua scrivania, due uomini dall’aspetto curato e gentile stavano chiacchierando con Richard che, come lui gli aveva proposto, stava improvvisando nell’attesa del suo arrivo. Il Victor ansioso dell’ascensore aveva lasciato il posto ad un uomo affabile e sicuro di sé. In molti gli invidiavano quell’incredibile controllo delle proprie emozioni, almeno davanti agli altri.

    -Buongiorno, signori. Vi prego di scusarmi per l’imperdonabile ritardo, ma quando a casa tua ci sono dei lavori di ristrutturazione è sempre una scommessa riuscire ad uscire!- esordì in un inglese perfetto.

    -Signori, vi presento il nostro capo, il signor Blanchard!- sorrise Richard. I due uomini si alzarono e gli strinsero cordialmente la mano, sorridendo:

    -Non si preoccupi, signor Blanchard, so cosa vuol dire avere operai in casa!- fece uno di loro, quello più alto, che si presentò come John Meyer.

    -E poi abbiamo atteso solo un quarto d’ora…- disse l’altro, Dereck Reynolds.

    Victor li invitò ad accomodarsi e, presto, Claudette entrò con un vassoio colmo di tazze di caffè bollente e croissant caldi. Gli ospiti gradirono e subito dopo la colazione cominciarono a parlare del motivo per cui erano lì. La British Jewels era un’importante casa, famosa in Inghilterra tanto quanto la BB in Francia. Aveva disegnato gioielli per personaggi famosi a livello internazionale, proprio come la sua azienda, una delle cui creazioni era stato l’anello di fidanzamento dell’ex Première Ministre alla sua signora. Era stato Victor in persona a disegnare il gioiello, proprio come faceva ogni volta che la sua azienda doveva lavorare per un cliente facoltoso. Era per accrescere la fama ed il prestigio della sua azienda e chi meglio di lui aveva buon gusto per creare qualcosa di eccezionale? Non disegnava spesso, perché ormai era il direttore della BB, ma ogni tanto gli piaceva farlo, lo rilassava e ne veniva fuori sempre qualcosa di bello. Distolse da sé quel pensiero non appena il signor Meyer cominciò a parlare:

    -Vede, signor Blanchard, il motivo per cui siamo qui è quello di creare una collaborazione fra le nostre aziende. Ci è stato commissionato un lavoro molto importante e sarebbe davvero un piacere per noi lavorare fianco a fianco con un’azienda tanto antica quanto moderna e versatile. Tutte le vostre collezioni hanno sempre avuto molto successo e siamo sicuri che se collaborassimo verrebbe fuori un gioiello davvero regale… Victor si accigliò quando si accorse che l’ultima parola era stata lievemente marcata.

    -Si, dopotutto anche noi siamo i migliori nel nostro campo in Inghilterra, ma questa volta vogliamo creare qualcosa di magnifico, principesco.- aggiunse Raynolds.

    -Beh, devo dire che la vostra proposta mi lusinga, ma sarei interessato a sapere che tipo di lavoro vi è stato commissionato prima di valutare l’offerta, signori.- fece lui, cauto. I due uomini si scambiarono uno sguardo di intesa soddisfatta, poi Mayer disse:

    -Abbiamo ricevuto l’incarico di creare un gioiello per la regina Elisabetta, signor Blanchard.

    Victor sgranò gli occhi esterrefatto e Richard dietro di lui spalancò la bocca in preda allo stupore. Aveva davvero sentito quel nome? La regina d’Inghilterra?

    -Credo di non aver compreso bene…- sorrise confuso.

    -Dunque, quest’anno verrà celebrato il giubileo di diamante della regina, si festeggiano i sessant’anni di regno e per l’occasione ci è stato commissionato un completo di gioielli mai visto prima. Ovviamente è inutile dire che la famiglia reale non baderà a spese…- fece Mayer.

    -Sarà un’occasione veramente importante per noi, signore e ci teniamo a fare bella figura. Deve essere qualcosa di maestoso, stupendo…- aggiunse Raynolds.

    -E la Blanchard Bijoux che parte avrebbe in questo progetto?- chiese lui curioso.

    I due ospiti sembrarono non essere preparati alla domanda. Come al solito fu Mayer a prendere la parola.

    -La parte più importante. La creazione del gioiello.

    -Bene…e invece la vostra azienda?

    -Noi avevamo pensato di… limitarci a dare qualche consiglio apponendo il nostro marchio. Victor accigliò lo sguardo per un momento. Come si aspettava. Volevano affibbiare il loro nome a un gioiello creato da lui. Sospirò lentamente mentre pensava alla risposta migliore da dare ai due inglesi.

    -Dunque, il mio team di designer disegnerà il modello, i miei orafi lo creeranno, io investirò le mie finanze nell’acquisto del materiale e la British Jewels marchierà il gioiello col proprio nome. Ho capito bene?

    Dietro di lui, sentì Richard irrigidirsi. Sapeva che il suo collaboratore non condivideva il suo carattere istintivo, ma lui aveva i suoi buoni motivi.

    -Siamo disposti a pagare qualsiasi cifra, signor Blanchard. Verremo ben ricompensati per il lavoro…

    -Un lavoro che non vi apparterrebbe.

    -No, ma che verrebbe pagato profumatamente!

    Victor inspirò nuovamente. Cosa doveva fare? Vendere il proprio lavoro a un’azienda inglese senza ricavarne nessun riconoscimento? L’idea che gli sforzi della sua azienda venissero celati da un altro nome non lo faceva impazzire. Anzi, non gli piaceva affatto. Certo, ne avrebbe ricavato una somma esorbitante, ma non era quella ad interessarlo. Si alzò dalla sua sedia di pelle ed andò alla vetrata che affacciava sulla Parigi caotica e metropolitana. In lontananza si potevano scorgere la tour Eiffel e gli Champs Eliseé e la vista era semplicemente meravigliosa.

    -Signori, sono davvero lusingato. La vostra proposta è molto allettante e sono sicuro che chiunque al posto mio accetterebbe ad occhi chiusi. Ma la mia azienda ha trecento anni. Non abbiamo bisogno di denaro, ma di fama. Sempre più. Se si fosse trattato di un semplice personaggio del cinema o della politica, forse, avrei accettato, ma qui mi si sta proponendo di disegnare un gioiello per una delle figure più importanti del mondo. Capirete che non posso accettare. Non se il nome della mia azienda verrà coperto dal vostro. Mi dispiace!

    Quando si voltò lo sguardo di Richard esprimeva in silenzio tutto il risentimento per la sua decisione, ma lui era il capo e le decisioni spettavano solo a lui. I due uomini sembravano a disagio, quasi rattristati. Questa volta fu Raynolds a parlare:

    -Ci aspettavamo una risposta del genere. Dopotutto lei ha ragione, è una questione di prestigio. È lo stesso motivo per cui glielo abbiamo proposto.

    -Mi dispiace. Ma voi create gioielli splendidi, sono sicuro che farete una bellissima figura anche senza di noi!- fu la sua risposta.

    I due uomini si alzarono, porgendogli la mano uno dopo l’altro:

    -Beh! È stato un piacere parlare con lei, signor Blanchard.- disse Mayer.

    -Grazie per averci dedicato il suo tempo!- concluse Raynolds.

    -Vi auguro buon viaggio e buona fortuna!- sorrise lui, cordiale.

    Richard accompagnò i signori all’ascensore. Quando tornò, Victor stava di nuovo guardando il panorama, cercando di capire se avesse fatto o no la scelta giusta. Capì di non essere solo, anche perché Richard aveva appena sbattuto la porta per fargli notare la sua presenza. Si voltò a guardarlo con aria serena e sicura di sé.

    -Hai appena lasciato andare un’occasione stra-importante, lo sai, vero?- sbottò.

    -Si…

    -E sei tranquillo così, giusto?

    -Si…

    -Ah! Tipico! Perché continuo a stupirmi della tua arroganza?

    Un altro dipendente al posto suo non si sarebbe permesso di parlargli in quel modo, ma Richard e Victor avevano frequentato la stessa università, erano anche amici oltre che colleghi, quindi ogni volta che Richard aveva una delle sue reazioni ai suoi comportamenti, Victor lo lasciava parlare. Dopotutto, rimanevano solo parole al vento.

    -Ric, la mia azienda non ha bisogno di soldi e tu lo sai. È la fama che vogliamo!

    -La fama? Siamo i migliori in Francia!

    -Voglio che lo diventiamo anche in Europa e nel mondo, se è possibile!- fu la sua risposta. Richard alzò gli occhi al cielo, esasperato come sempre.

    -Non si tratta di un personaggio famoso qualsiasi. Stiamo parlando della regina d’Inghilterra, amico. Il monarca più longevo della storia dopo la regina Vittoria! Se devo disegnare un gioiello per lei allora voglio che ci sia il mio marchio, cazzo!

    -Gli inglesi mi sono sembrati alquanto amareggiati dalla tua decisione.

    -Lo credo bene. La British Jewels ha avuto la sua epoca d’oro un tempo, ma i loro modelli sono alquanto obsoleti, noi invece siamo sempre al passo coi tempi e loro lo sanno. È per questo che sono venuti…

    -Forse posso provare a richiamarli e a proporre una vera collaborazione, di modo che il marchio porti il nome di entrambe le case…

    -No! Non chiedo l’elemosina, io!

    -Sto solo cercando di dire…

    -So quello che vuoi dire, okay? Non voglio, punto. Se fossero loro a chiamare, allora forse potrei accettare, ma non chiameremo noi. Fine della discussione. Chiaro?

    -Si, maledizione! Cazzo, sei insopportabile!!!

    Victor si aprì in una sonora risata che contagiò anche Richard e finalmente, lo screzio sembrò essere messo da parte.

    -Ho una fame da lupo, che ore sono?- chiese Richard. Lui diede uno sguardo al Rolex:

    -Le tredici. Andiamo a mangiare!

    -Am… ti dispiace se invece di pranzare qui ci spostiamo in città? Devo incontrare mia moglie, oggi è il mio giorno per tenere mio figlio.

    -Okay. I vostri rapporti sono migliorati dall’ultimo incontro?

    -No! Quella donna è una vipera e ancora mi chiedo come ho fatto a sposarla, ma ti prego, non ne parliamo. Aspettami all’ascensore, prendo la giacca e ti raggiungo.

    Così dicendo, Richard uscì dall’ufficio. A Victor dispiaceva vederlo in quello stato. Avevano firmato la separazione da un paio di mesi e Vanessa, la moglie del suo amico, sembrava intenzionata a rendergli la vita impossibile. Spesso gli negava le visite col bambino. Fece spallucce, sperando di non finire mai come lui. Se doveva sposarsi per poi divorziare preferiva rimanere scapolo a vita. E poi, la vita da single non era male. Poteva vedere chi voleva e quando voleva. Le sue foto sulle riviste erano sempre in compagnia di una donna diversa, tutte giovani e attraenti. Ormai godeva della fama di latin lover, perché doveva sciuparla sposandosi con qualcuno?

    Sorrise distrattamente, prese la borsa dalla poltrona ed uscì, dirigendosi all’ascensore.

    La tavola calda nella quale avevano preso posto non era chic come il ristorante dell’azienda ed il pranzo non era di certo di prima qualità come quelli a cui era abituato, ma, tutto sommato, Victor non poteva disprezzare completamente il luogo. Era arredato in stile americano, con le poltrone in pelle rossa e i tavolini accanto alla vetrata che davano sulla strada e sul via vai di mezzi di trasporto pubblici e privati. La radio trasmetteva canzoni francesi in stile anni venti e dalla cucina giungeva un profumo invitante di pancetta e uova. Davanti a lui, Richard sorseggiava pensieroso una birra, con lo sguardo puntato verso la strada, in attesa dell’arrivo di sua moglie.

    -Rilassati, Ric! Vedrai che andrà bene…- provò a dirgli.

    -Di lei non me ne frega un cazzo, tutto quello che voglio è il bene di Henry.

    -Lo so, amico, ma non potrà mai gioire nel vederti ridotto in questo stato! Cerca di essere meno ansioso.

    -Certo, se stamattina avessimo concluso l’affare con gli inglesi…

    -Oh, no! Non dare la colpa a me!- lo ammonì lui, tracannando il suo caffè.

    Richard si voltò verso di lui con aria risentita:

    -Sono sempre del parere che tu abbia fatto una cazzata, Victor. Una grande, colossale cazzata!

    -Tu non puoi capire…

    -Cosa? Cosa non posso capire?

    -Senti, sono secoli che la mia famiglia disegna gioielli. Per cosa cazzo credi che l’abbiano fatto? Per i soldi? ‘Fanculo! La nostra è arte, Ric. È pura passione, predisposizione… e se dobbiamo farlo deve valerne la pena, accidenti!- aveva parlato e gesticolato con così tanta veemenza che con un gesto della mano fece rovesciare la tazza col caffè, che schizzò sul tavolo, macchiandogli anche gli abiti.

    -Cazzo!!!- esclamò, imprecando.

    -Che diavolo combini!?!- fu la reazione di Richard, che subito richiamò l’attenzione di una cameriera. La ragazza si avvicinò al tavolo con uno straccio, pronta a pulire.

    -Non si preoccupi, signore, ci penso io!- fece.

    Innervosito, Victor si fermò dal suo imbarazzato tentativo di raccogliere il caffè dal tavolo e senza poter fare nulla lanciò uno sguardo distratto alla cameriera. Indossava la divisa gialla del locale, con un grembiule rosso come le poltrone. Aveva i capelli raccolti in una coda e la frangia che copriva in parte gli occhi. Quando alzò lo sguardo su di lui per sorridergli cordialmente, Victor rimase folgorato dal colore intenso dei suoi occhi. Di occhi blu ne aveva visti tanti, ma gli occhi di quella ragazza erano di un blu intenso, quasi innaturale, e lo stavano fissando come se anche lei stesse pensando la stessa cosa riguardo ai suoi. Improvvisamente ebbe la sensazione di averla già incontrata da qualche parte e fece rapidamente mente locale per rendersi conto se fosse vero oppure fosse solo una sensazione di dejà-vue.

    Anche la ragazza lo fissava come se avesse visto qualcuno a lei familiare, eppure nessuno prendeva l’iniziativa di chiedere dell’altro. Alla fine fu Richard a farlo:

    -Vi conoscete?

    Entrambi sembrarono svegliarsi da un sogno e lui fu il primo a parlare:

    -Già, stavo per chiederglielo. Per caso ci siamo già incontrati, signorina?

    -Credo di no, signore. È la prima volta che vi vedo in questo locale.

    -E’ mai stata alla Blanchard Bijoux?

    -Blanchard…- ripeté lei, come se il nome non le fosse nuovo. Scrollò la testa:

    -No.

    -Eppure ho come l’impressione di averla già vista.- esclamò lui, confuso. Lei alzò le spalle e sorrise:

    -In un’altra vita, forse!- scherzò. Tutti e tre sorrisero alla battuta.

    -Sì, forse…- concluse lui.

    La ragazza gli lanciò un ultimo sorriso imbarazzato, poi qualcuno la chiamò dal bancone:

    -Conny, puoi servire un attimo il tavolo tre?

    -Arrivo. Scusatemi, signori.- si congedò da loro.

    Appena se ne fu andata, Victor non poté evitare di seguirla con lo sguardo finché Richard non richiamò la sua attenzione:

    -Se non la smetti di fissarla in quel modo domani sarà incinta!

    -Cosa…?- chiese confuso.

    -Victor, la stai spogliando con gli occhi!

    -No! Cioè… credo di averla già vista da qualche parte, capisci? Però penso di no, è solo una sensazione. Come… un dejà-vue.

    -Mm… capisco. Beh… succede, ogni tanto.

    -E i suoi occhi… cazzo, sono bellissimi!- esclamò lui con lo sguardo nel vuoto.

    -Se è un modo per far colpo su di lei sei pessimo. Hai fatto di meglio, amico.

    -Sto solo dicendo la verità. Riesci a definire quel colore? Io… credo di non averlo mai visto. O forse si…

    Non sapeva cosa gli prendesse. All’improvviso si sentiva confuso, come se stesse sognando e nel sogno conoscesse qualcuno che, in realtà, non aveva mai visto prima. Era difficile da spiegare. Improvvisamente, Richard disse qualcosa e si alzò, uscendo dal locale. Solo gettando lo sguardo in strada e vedendo la scena del suo amico che abbracciava il figlio davanti allo sguardo vigile della moglie si rese conto che era il momento della visita. Tornò con la mente all’appuntamento di quella mattina e cominciava a dubitare della sua capacità di giudizio. Aveva fatto bene a rifiutare quell’incarico importante? Come si sarebbe comportato suo padre al suo posto? Beh, lui aveva riposto piena fiducia in suo figlio, quindi lo avrebbe sicuramente appoggiato. Sapeva cosa significasse il suo lavoro per lui. Quello che aveva significato per Victor de Blanchard trecento anni prima e quello che aveva significato per ogni membro della sua famiglia fino a quel momento e non poteva essere svenduto per i soldi.

    La sua attenzione venne catturata di nuovo dalla figura della cameriera che si muoveva agile tra i tavoli del locale. Doveva avere all’incirca venticinque anni, di media statura, con un fisico asciutto. Sorrideva a chiunque le si rivolgesse, eppure sembrava stanca, affaticata. Victor non riusciva proprio a staccarle gli occhi di dosso. Era bella, ma ciò che lo attirava erano i suoi occhi. Avrebbe potuto rimanere a guardare quegli occhi per il resto della sua vita e, lentamente, si fece spazio in lui la sensazione di aver già pensato a una cosa del genere un’altra volta. Eppure non l’aveva mai vista quella ragazza!

    Si sorprese nell’accorgersi che, in un momento di pausa, anche lei aveva cominciato a fissarlo con la stessa espressione confusa dipinta in volto. Victor sentì il suo cuore cominciare a battere forte, come dopo una lunga corsa. Cosa gli stava prendendo? Si sentiva tremendamente attratto da quella sconosciuta, ma non solo a livello fisico. Era come se fosse legato a lei da qualcosa di arcano e sconosciuto. Come se la conoscesse da tutta la vita, come se ne fosse innamorato. Si, si sentiva come se l’amasse e come se avesse passato tutta la vita ad amarla. Scosse con veemenza la testa e si alzò di scatto dal tavolo con l’intenzione di darsi una controllata. Cosa c’era in quel dannato caffè? Cercò di sembrare sicuro di sé quando si avvicinò alla cassa per pagare. La cassiera era bassa e robusta e per niente gioviale, ma quando lo vide si aprì in un sorriso imbarazzato. Dopotutto, lui era molto affascinante e ne era ben consapevole.

    -Conny, cosa ha preso il signore?- si rivolse alla ragazza.

    Victor provò a non voltarsi di nuovo verso di lei. Sapeva che se l’avesse guardata di nuovo quegli occhi lo avrebbero travolto ancora e non gli piaceva sentirsi confuso. Rimase con lo sguardo basso a sentire il suono della sua voce, un suono che per la prima volta, da quando aveva cominciato a parlare, gli sembrò stranamente familiare.

    Dopo che ebbe riferito le ordinazioni del loro tavolo, la ragazza, Conny, si allontanò da loro lentamente, come se fosse l’ultima cosa che avesse voluto fare.

    Victor pagò per lui e Richard e salutò. Si voltò di scatto per uscire il prima possibile da quella tavola calda, ma si scontrò con la ragazza che, proprio in quel momento, stava raggiungendo il tavolo accanto alla porta. Si guardarono. Fu un istante. Un momento breve, eppure sembrò una vita ed improvvisamente a Victor balenarono delle immagini nella mente.

    Un letto, un uomo e una donna. Voci sommesse, parole d’amore e un pianto. Mani intrecciate, visi bagnati dalle lacrime.

    Una promessa…

    Questa volta fu la ragazza a distogliere lo sguardo e ad allontanarsi come se il contatto con lui le avesse provocato una scossa elettrica.

    -Buona giornata, signore…

    -Arrivederci…

    Victor uscì da quel posto senza più voltarsi, sebbene ne avesse tutta la voglia. Cosa diamine era successo in quel locale con quella sconosciuta e cosa voleva dire la visione che aveva appena avuto? Non era stata una visione, non aveva visto nulla. Era stata più una sensazione, come se avesse ricordato un momento vissuto. Scosse ancora la testa e si avvicinò

    a Richard, agitato. L’amico stava scherzando con suo figlio, ma quando lo vide si preoccupò:

    -Ehi? Ti senti bene?

    -Io… devo andare …a casa…- disse lui a mezza voce.

    -Stai male? È successo qualcosa?

    -No, sta tranquillo. Devo …solo andare… a casa. Ti chiamo più tardi…

    Così dicendo, si allontanò, dirigendosi verso l’Audi. Avviò il motore e partì senza sapere cosa gli stesse succedendo. Per fortuna non aveva altri appuntamenti per quel giorno, poteva assentarsi dall’ufficio. Doveva calmarsi. Non sapeva cosa avesse, ma era in ansia e doveva darsi una controllata. Chi diavolo era quella ragazza? Possibile che la conoscesse e non se ne ricordasse? No! Due occhi così non si dimenticano. Ma non l’aveva mai incontrata, ne era certo! Per fortuna, più guidava, più si allontanava da quel posto, più cominciava a stare meglio.

    Quando arrivò a casa era primo pomeriggio e gli operai stavano ancora lavorando. Lasciò la macchina in garage e, invece di salire di sopra, si avvicinò inconsapevolmente al cantiere. Gli uomini lavoravano senza fare caso a lui, ridendo e scherzando fra loro. Solo il capomastro lo notò e gli si avvicinò, col suo casco anti infortuni giallo e la tuta da lavoro arancione, con gli strappi catarifrangenti.

    -Signore, contiamo di finire i lavori entro una settimana. Se procediamo di questo passo sabato prossimo potrete riempire la vasca.

    Victor diede un rapido sguardo alla piscina vuota. Era profonda all’incirca quattro metri e dalla zona più avvallata il pavimento saliva lentamente fino alle scale di pietra dalle quali si poteva accedere per entrarvi. Più o meno la lunghezza era di quindici metri e nella zona opposta alle scale stavano montando un trampolino. A cinque metri da ogni angolo della vasca rettangolare erano stati costruiti dei pilastri che avrebbero retto il tetto della struttura e tutto intorno, tra un pilastro e l’altro, delle vetrate colorate avrebbero chiuso l’ambiente, conferendogli un aspetto elegante e fine.

    -Quanto ci vorrà per il lucernario?- domandò Victor indicando il tetto immaginario nel quale si sarebbe aperto uno squarcio per prendere il sole di giorno ed osservare le stelle di notte.

    -Dopo che avremo finito qui cominceremo con la struttura. Più o meno un altro paio di settimane, credo. Forse impiegheremo di meno…

    Victor annuì pensieroso. Non gli importava un bel niente dei lavori, ma non aveva voglia di entrare in casa. Rimase lì ancora un po’ a discutere col caposquadra del progetto che suo padre aveva approvato, poi si avviò verso quella che sarebbe presto diventata l’uscita.

    -Ah, signor Blanchard! Dimenticavo...- la voce del capomastro richiamò la sua attenzione, quindi si voltò ad ascoltarlo.

    -Abbiamo trovato qualcosa durante lo scavo. Un contenitore...

    -Un contenitore?

    -Si, come un portaoggetti di legno. Era incrostato e ossidato, non ho capito di cosa si trattasse. Lo abbiamo lasciato alla sua domestica.

    Il capomastro stava continuando a parlare, ma improvvisamente, l'attenzione di Victor fu catturata da una musica lontana.

    Il suono del martello pneumatico era troppo forte per riuscire a distinguerla, ma credeva di aver udito un clavicembalo. Un clavicembalo? Chi diavolo poteva mai possederne uno nel terzo millennio? Si voltò nella direzione da cui proveniva la musica e, improvvisamente, gli sembrò di udire anche qualche arco dal suono aspro e stridente. Non c’era nessuno, se non gli operai al lavoro. Si scosse. Stava per andarsene, quando al suono degli strumenti si associò un vociare di persone. Si voltò ancora una volta, ma il chiasso di centinaia di persone non poteva essere prodotto da una ventina di operai. Udì una voce sommessa dire qualcosa di indefinibile. Sentì un’improvvisa disperazione farsi largo in lui, seguita da una muta tristezza e poi dal vuoto. Cosa gli stava succedendo?

    Da dove provenivano quella musica e quelle voci? E perché si sentiva così distrutto emotivamente senza alcuna ragione?

    Il cellulare squillò e, immediatamente, la musica, le voci e la disperazione svanirono come risucchiati da un vortice. Aprì la conversazione strisciando il dito sul display senza vedere chi fosse, agitato:

    -Si…?

    -Victor? Stai bene?

    Era Richard. Forse voleva sapere come si sentisse. Beh, fino a pochi minuti prima stava abbastanza bene, poi aveva avuto un’altra specie di allucinazione.

    -Ric, sì, sto bene. Dimmi.

    -Volevo solo dirti che mi hanno chiamato gli inglesi. È pazzesco, lo so, ma mi hanno proposto di collaborare. Capito, Victor? Ci sarà anche il nostro nome sul gioiello.

    Le sensazioni dell’ultimo paio d’ore erano state talmente forti da lasciarlo confuso per un lungo istante. Dall’altro lato del telefono Richard incalzò:

    -Ehi, sicuro di stare bene? Allora? Cosa gli dico?

    -Io …digli che li contatteremo domattina per una risposta definitiva.

    -Domattina? Potrebbe essere troppo tardi!

    -Ric, fa come ti ho detto e non rompere le palle!- così dicendo, riattaccò. Trasse un profondo respiro, ma il rumore incessante del trapano l’avrebbe fatto impazzire se fosse rimasto lì, quindi decise di entrare in casa. Percorse il vialetto, attraversò il giardino ed entrò nel salone principale. Josephine gli andò incontro, preoccupata. Non era usuale che tornasse a casa a quell’ora del pomeriggio.

    -Signore, tutto bene?

    -Jo, per favore, preparami una tisana, qualcosa per distendere i nervi e portala nel mio ufficio.- disse, mentre saliva le scale verso il piano di sopra.

    Appena fu nel suo ufficio chiuse la porta, gettò la ventiquattrore sulla poltrona di fronte alla sua scrivania di vetro bianco e si gettò sulla sedia di pelle, dietro al computer. Inspirò ed espirò per diversi secondi, cercando di calmarsi e, infine, ci riuscì. Si alzò e si tolse la giacca per stare più comodo. Non riusciva a togliersi dalla mente le strane sensazioni di quella giornata. Insomma, era cominciata come una normale e comune giornata e poi era cambiato tutto. L’incontro con quella sconosciuta, i suoi occhi e quella sensazione di averla già conosciuta, addirittura amata. Poi la musica e le voci giù in piscina, seguite dalla sensazione di tristezza. Accese il computer in preda all’ansia e si mise al lavoro per tenersi occupato. Aveva alcuni documenti dell’azienda da controllare e alcune mail da spedire, ne avrebbe avuto per tutto il pomeriggio.

    Verso le sei e mezzo, finalmente, Josephine entrò nello studio per portargli la tisana.

    -Non ci speravo più!- esclamò quando la vide.

    -Mi dispiace, dovevo preparare la cena e non potevo lasciare il forno incustodito.

    -Cosa c’è per cena? Oggi non ho mangiato molto.

    -Pollo arrosto, signore. Con un buon vino rosso.

    -Sei la migliore!- sorrise lui.

    Dopo aver passato qualche ora davanti al computer il suo umore sembrava essere migliorato nettamente. La domestica lo lasciò solo e lui cominciò a bere la tisana alla melassa che gli aveva preparato. Sperava davvero che funzionasse, perché il giorno dopo doveva essere calmo e rilassato per chiudere le trattative con gli inglesi della British Jewels. Aveva deciso di collaborare. Il mondo non avrebbe saputo che il lavoro fosse solo suo, ma almeno che aveva collaborato a gran parte del progetto e questo era già un grande passo per uscire dai confini della Francia. Finì la sua tisana e lavorò ancora per un paio d’ore allo schermo del suo computer. Quando si massaggiò gli occhi che gli dolevano, si rese conto che fuori era calata la sera. Sbuffò, stanco, e si alzò dalla scrivania. Aveva tenuto il cellulare in modalità off-line e tutte le telefonate erano state deviate alla segreteria. Due chiamate di Richard e una di suo padre. Per il primo non aveva alcuna intenzione di rimediare. Lo avrebbe sentito il giorno dopo. Suo padre, invece, non lo sentiva da una settimana, quindi decise di richiamarlo. Probabilmente voleva solo accertarsi che stesse bene e che all’azienda tutto fosse al proprio posto, ma era sempre meglio non farlo aspettare troppo. Mentre cercava il numero in rubrica, dall’interfono sulla parete della stanza la voce di Josephine gli comunicò che la cena era pronta. Aprì la porta e scese lungo le scale mentre aspettava che suo padre rispondesse. Finalmente, quando fu arrivato in sala da pranzo, Armand si decise a rispondere. C’era un vociare indistinto al telefono e gli fu difficile sentire la sua voce all’inizio, poi, finalmente, lo sentì chiaramente.

    -Victor! Che fine hai fatto?

    Il suo tono era, come sempre, autoritario.

    -Papà! Ciao…- fece.

    -Ciao, figliolo. Scusa, ma siamo ad una festa. Ci stiamo divertendo un mondo, ragazzo mio…

    -Dove siete di preciso, adesso?

    -Cosa?- le voci dal fondo erano fortissime.

    -In quale parte dell’Italia siete, adesso?- gridò lui, forte.

    -Roma! È una città bellissima, figliolo. Molto meglio di Milano e Venezia. Oh, aspetta…tua madre vuole parlarti…

    Mentre aspettava che sua madre prendesse il telefono, Victor si sedette sul divano di pelle bianca mentre Josephine apparecchiava la tavola per lui. Indicò, preoccupata, la macchia di caffè sui suoi pantaloni. Lui fece un gesto della mano per dirle di lasciar perdere. Sua madre prese il telefono:

    -Amore!

    -Ciao, mamma! Come stai?

    -Tesoro, qui tutto bene. A te come va?

    -Benone…- mentì lui.

    Anche sua madre cominciò uno sproloquio su quanto fossero belle le città italiane e su quanto lui dovesse visitarle, un giorno, e Victor finse di ascoltare annuendo di tanto in tanto. Finalmente, alla fine, decise di ripassargli suo padre.

    -Victor, oggi mi ha telefonato Richard. Dice che hai rifiutato di collaborare con quegli inglesi…

    Victor ci avrebbe messo la mano sul fuoco. Richard era bravo nel suo mestiere ed era suo amico, ma a volte era un vero figlio di puttana.

    -Papà, non si trattava di una collaborazione. Volevano apporre il loro marchio su un nostro prodotto e tu sai che questa non è la filosofia della Blanchard Bijoux. Noi non ci vendiamo a nessuno. Però, oggi hanno ritrattato l’offerta, proponendo una vera collaborazione…

    -E cosa hai deciso di fare?

    -Beh… il lavoro non verrà dichiarato interamente nostro, ma almeno saremo soci alla pari. Quindi ho deciso di accettare. Dopotutto è la regina d’Inghilterra!

    -Ben detto! Ma ricorda, Victor, solo se lo ritieni davvero giusto. Lo sai, mi fido ciecamente di te e per me andrà bene qualsiasi decisione, figliolo.

    -Lo so. Ad ogni modo, gli darò una risposta definitiva domattina.

    -Bene. Dormici sopra, forse domani avrai la mente più riposata. Ora ti lascio, figliolo, tua madre sta ballando la tarantella con un uomo, devo andarla a riprendere. Ci sentiamo presto. Ciao!

    Victor sorrise divertito e staccò la telefonata. Sapeva che suo padre l’avrebbe sostenuto. Ci aveva messo anni per apprendere il suo modo di pensare e agire e alla fine lo aveva imitato alla perfezione. L’importante era il successo dell’azienda e tutto ciò che lo rallentava doveva essere eliminato. Erano dieci anni, ormai, che era a capo della BB e poteva ritenersi soddisfatto dei progressi fatti. Da quando aveva preso le redini in mano del lavoro due nuove collezioni erano diventate il simbolo della rinascita dell’azienda; la Homme de nuite, con i suoi orologi, i fermacravatta con pietre incastonate e i gemelli di platino e Famme Fatale, il cui fiore all’occhiello era il tris di fede, vera e solitario di diamanti. Erano state sue idee e avevano funzionato. Suo padre era soddisfatto del suo lavoro. "Un vero Blanchard", così diceva.

    Il suo intuito per gli affari non lo aveva mai tradito e il suo talento nel disegnare gioielli era innato, molto più che in suo padre. Ed ora l’intuito gli diceva di doversi mettere a disegnare. Ne sentiva il bisogno, il desiderio.

    Cenò in fretta, poi si sedette al tavolino di cristallo mentre Josephine rimetteva tutto in ordine. Prese il raccoglitore di fogli dal ripiano della libreria alle sue spalle, andò ad attizzare il fuoco nel camino e tornò a sedersi al tavolino. Doveva disegnare un gioiello che fosse fine, elegante e desse l’idea della regalità. Non poteva concedersi frivolezze. Doveva essere sobrio, solenne, rendere l’idea di monarchia. Quando alzò lo sguardo dai fogli era quasi mezzanotte e fino a quel momento aveva accartocciato almeno una decina di bozze. Nessuno di quei disegni rendeva l’idea che, invece, lui voleva dare della sua arte. Sospirò esasperato, ma non poteva fermarsi. Il giorno dopo voleva fare un’ottima figura davanti agli inglesi e non poteva mollare, anche se si sentiva stanco e la tisana alla melassa cominciava a fare effetto. Si stiracchiò un attimo le membra intorpidite dal freddo primaverile e solo allora si accorse che Josephine era ancora in piedi.

    -Jo, che ci fai ancora sveglia?- domandò.

    -Aspetto che vada a dormire. Così potrò riassettare il salotto.

    Victor si guardò intorno e si rese conto che tutti i fogli che aveva accartocciato erano in giro sul pavimento, sul tavolo di cristallo c’erano i resti delle cancellature con la gomma e qualche macchiolina di vino che aveva continuato a bere durante il lavoro.

    -Lascia perdere qui, metterò a posto io. Va a dormire, Jo!- le disse affettuosamente.

    -Ma io…

    -É un ordine!- sorrise, autoritario. La donna gli sorrise di rimando, ma prima di andarsene gettò lo sguardo sull’ennesimo foglio imbrattato.

    -Cosa disegna?

    -Qualcosa di… regale! So di aver bisogno di disegnare, ma non trovo l’ispirazione.

    -Signor Victor, sono anni che la vedo disegnare. Era un bambino piccolo quando ha cominciato e non ha mai avuto nulla da invidiare a suo padre. Sono sicura che riuscirà anche questa volta. Si fermi a riflettere su quello che vuole davvero. L’ispirazione è dentro di lei. La troverà!- gli sorrise.

    -Grazie, Jo!- sospirò lui.

    -Buonanotte!

    -Notte…

    La domestica lo lasciò solo, scomparendo in corridoio. Victor sbuffò lentamente per saziare di ossigeno il suo cervello. Josephine aveva ragione, lui non aveva mai sbagliato. Quando aveva disegnato un gioiello difficilmente aveva accantonato l’idea di realizzarlo, forse non lo aveva mai fatto. I suoi disegni erano tutti esposti in giro per casa ed erano diventati tutti dei gioielli meravigliosi. Forse, quel giorno era solo confuso. L’episodio di quel pomeriggio lo aveva provato non poco. Forse, era per quel motivo che non riusciva a concentrarsi. Si grattò la nuca ed i capelli che gli ricadevano sul collo e chiuse gli occhi per un momento. L’ispirazione è dentro di lei, la troverà!

    Un collier. Un collier di diamanti purissimi, tagliati in piccole foglioline che facevano da letto ad una rosa blu. Il sole che filtrava dalle imposte di legno del suo laboratorio, la cassa colma di pietre e gemme colorate accanto a lui, le mani sporche per il carboncino ed il sudore sulla fronte madida.

    Aveva già disegnato quel gioiello. Un caldo pomeriggio d’estate, da solo, nella bottega del suo maestro.

    Senza rendersene conto, afferrò la matita e cominciò a disegnare e lentamente quel collier, che lui conosceva bene, prese di nuovo vita dalle sue mani, come se non aspettasse altro che poter rivivere, dopo essere stato dimenticato per troppo tempo. Quando Victor vide ciò che aveva appena disegnato si rese conto di averlo già creato una volta e rimase allibito. Aveva la strana sensazione di rivivere ricordi di un passato remoto, ma non riusciva a spiegarselo. Aveva già visto quel collier e quando si accorse dove alzò lentamente lo sguardo verso la

    parete, dove il ritratto del suo avo e di sua moglie giacevano in silenzio. Il collier che aveva disegnato era la fedele riproduzione di quello che Constance de Blanchard portava al collo nel dipinto di fronte a sé, ma non lo aveva copiato, non vi si era ispirato. Semplicemente, aveva ricordato di averlo già disegnato una volta. Alzò il foglio, coprendo la prospettiva del quadro che aveva di fronte, osservò il disegno attentamente, poi abbassò il foglio e guardò quello dipinto nel quadro. Erano identici!

    Come se non fosse già abbastanza sconcertante, ciò che lo sconvolse maggiormente furono gli occhi della dama ed improvvisamente si rese conto dove li avesse già visti. Erano gli stessi occhi della ragazza alla tavola calda. I suoi capelli, i tratti del viso e quegli occhi…

    Victor si alzò e, barcollando, si avvicinò al ritratto. Quanto poteva sembrare viva quella donna attraverso quei colori e quelle pennellate? Era come se dal remoto passato lo stesse guardando attraverso il tempo e quegli splendidi occhi potessero scrutargli l’anima. Quante volte si era perso nel blu di quello sguardo? Quante volte era naufragato in quell’oceano di tristezza e vuoto? Aveva provato a salvarla da sé stessa e non ci era riuscito. Il suo sguardo si spostò sul volto del suo avo e quando si guardò allo specchio lo rivide. Erano identici, due gocce d’acqua. Gli sembrò di vederlo girare per la casa, nella sua marsina argentata e il suo jabeau bianco. Sicuro di sé, ma forse non troppo. Dopotutto, aveva sofferto. Aveva lottato e perduto e la vita non gli aveva riservato una seconda occasione.

    O forse si…

    Forse era lui la sua seconda occasione. Forse lui poteva riscattarlo dal suo fallimento.

    Che diavolo stava farneticando? Si scosse immediatamente e tornò al tavolino. Afferrò in fretta tutti i fogli accartocciati, strappò il disegno del collier dall’album e accartocciò anche quello. Quel giorno era successo qualcosa, ma non riusciva a trovarvi una spiegazione e tutto era cominciato con quella dannata ragazza!

    Era cominciato tutto coi suoi occhi…

    Gettò i fogli nel camino e mentre stava per buttare anche quello col collier si fermò. Inspirò profondamente e decise di non darlo alle fiamme. Dopotutto, era l’unico gioiello adatto alla raffinatezza di una regina! Lo lasciò sul ripiano del camino e si allontanò.

    Doveva farsi una doccia e poi andare a letto. Non sapeva cosa gli fosse accaduto quel giorno, ma sicuramente quello seguente sarebbe andato meglio. Doveva solo riposare.

    Entrò nella doccia in camera sua e rimase sotto il getto d’acqua calda un bel po’. Quando si sentì abbastanza rifocillato uscì dalla cabina, si legò un telo in vita e tornò in stanza. Si guardò allo specchio col timore di vedere qualcosa di spaventoso, invece, nel riflesso, c’era solo lui ed i suoi capelli bagnati. Sospirò rilassato, si asciugò, poi si infilò sotto le coperte. Chiuse gli occhi. La cameriera del locale tornò a tormentare la sua mente coi suoi meravigliosi e tremendi occhi. Era identica alla donna del ritratto, ma com’era possibile? Lui era praticamente il sosia del suo avo, ma per lui poteva esserci una spiegazione plausibile grazie alla genetica.

    Lei, invece, era una perfetta sconosciuta, come poteva essere la fedele riproduzione di Constance de Blanchard?

    Avrebbe tanto voluto che fosse tutto un sogno, un incubo dal quale risvegliarsi e sollevarsi gettandosi a capofitto nella realtà, invece era tutto vero, accidenti.

    Era tutto magicamente e tremendamente vero…

    II

    Parigi, 1706

    Victor sorrise soddisfatto mentre il suo maestro, monsieur Gringoire Le Feuvre, esaminava con evidente soddisfazione il disegno che gli aveva appena mostrato. Era passata una settimana da quando avevano ricevuto l’incarico di disegnare un gioiello per una delle famiglie più importanti di Parigi e da quel giorno aveva lavorato incessantemente per dare sfogo al suo estro e creare qualcosa di incredibilmente bello. Erano dieci anni che lavorava per monsieur Le Feuvre e sin dall’inizio il suo datore di lavoro lo aveva considerato un ragazzo in gamba, con un grande talento. Lui cominciava a diventare anziano e non riusciva più a sostenere i ritmi di laboratorio ai quali lui, invece, era abituato da un pezzo. Le Feuvre era uno degli orefici più apprezzati e richiesti di Parigi, ma non aveva figli maschi ai quali lasciare la sua arte e la sua attività. Spesso si era lamentato di questa sua situazione e Victor lavorava duramente e con fervore per aiutarlo. Ormai, i modelli erano quasi tutti suoi, lui si limitava a dare qualche suggerimento, ad aggiustare qualche disegno o a scegliere una pietra piuttosto che un’altra, ma la maggior parte del lavoro era di Victor e monsieur Le Feuvre lo riconosceva. Dopo aver analizzato il disegno a fondo si aprì in un largo sorriso:

    -Figliolo, credo che questo sia il gioiello migliore che potessi disegnare!- esclamò.

    Victor sentì il cuore colmarsi di gioia. Il suo maestro gli mise una mano sulla spalla:

    -Credo che il nostro cliente sarà davvero soddisfatto. A che tipo di pietra hai pensato per la rosa?

    Il disegno raffigurava un collier da donna con piccole foglioline lungo tutto il collo che terminavano in un bocciolo di rosa. Era il regalo di fidanzamento di un ricco nobiluomo alla sua futura sposa, così gli era stato detto. Era stato chiesto che fosse qualcosa di fine ed elegante, così come la donna che lo avrebbe indossato e, soprattutto, che avesse un elemento di colore blu per richiamare il colore degli occhi della sposa.

    -Non saprei. Potremmo utilizzare uno zaffiro…- disse in un soffio.

    -O dei lapislazzuli!- propose Le Feuvre continuando ad osservare il disegno con estrema attenzione.

    -Sì, beh… a dire il vero pensavo che degli occhi potessero essere meglio rappresentati dall’aspetto vitreo dello zaffiro, ma dovrei vederli per stabilirlo con certezza.- sorrise lui.

    Monsieur Le Feuvre si accigliò sulla sua ultima affermazione e sembrò rallegrarsene. Andò a sedersi su uno sgabello e gli fece cenno di avvicinarsi. Esitante, Victor obbedì. Non appena gli fu accanto, il suo maestro gli pose le mani sulle spalle:

    -Victor, sono dieci anni che lavori qui, ormai. Eri solo un ragazzino quando tua madre mi chiese di prenderti a lavorare con me ed ora sei un uomo con un talento straordinario e la passione che metti nel lavoro che fai è pari a quella che avevo io alla tua età.- sospirò come se dovesse aggiungere altro, ma fosse difficile da ammettere.

    I suoi occhi cerulei si iniettarono in quelli verdi del suo allievo:

    -Ma… io non sono più giovane e i tempi cambiano. Questa piccola azienda familiare ha bisogno di una mente nuova, brillante. Una mente che sappia accontentare i gusti di questa

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