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La ballata dell'eroe (eLit): eLit
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E-book279 pagine6 ore

La ballata dell'eroe (eLit): eLit

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Info su questo ebook

Inghilterra, 1109 - Rapita dai ribelli decisi a farne la loro regina, la splendida Judith Canmore viene rintracciata da Corwin di Lenvil, il bel cavaliere che ha popolato i suoi sogni di fanciulla. Quando però lui le rivela che fingerà di unirsi ai ribelli per salvare il trono inglese, Judith gli accorda la sua fiducia e anche il suo cuore. Un amore impossibile, il loro, dato che lei è di stirpe reale e lui non possiede un titolo nobiliare. Di peripezia in peripezia, giungono alla fine della loro avventura e arriva dunque anche il momento di separarsi. Solo che Corwin non è per nulla intenzionato a rinunciare alla sua Judidh con tanta facilità...



"Storie di re e di cavalieri"

1)Prigioniera del cavaliere

2)Un suddito fedele

3)La ballata dell'eroe

4)Sfida al castello
LinguaItaliano
Data di uscita31 mar 2017
ISBN9788858968376
La ballata dell'eroe (eLit): eLit
Autore

Shari Anton

Vive nel Wisconsin e condivide con il marito la passione per la storia, che l'ha portata a scegliere per le ambientazioni dei suoi romanzi i periodi che più ama: la guerra civile americana, le imprese dei pionieri e il medioevo.

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    La ballata dell'eroe (eLit) - Shari Anton

    successivo.

    1

    Inghilterra, 1109

    L'airone non se ne accorse.

    Sospeso contro l'azzurro del cielo, un falco pellegrino si tuffò e colpì con fatale precisione, trattenendo il suo strido di trionfo fino a quando la sua preda rimase inerte fra gli artigli. Dal prato sottostante, Corwin di Lenvil lo osservò ammirato ma non stupito. Era stata Ardith ad addestrarlo e non c'era nessuno in Inghilterra che rivaleggiasse con la sua sorella gemella nell'ammaestrare i rapaci.

    Inseguendo i cani, i portatori corsero a raccogliere l'airone. Il falconiere richiamò il pellegrino. Corwin si spostò sulla sella per estrarre dalla sua borsa un pezzetto di carne, il premio del falco.

    «Ho quasi finito le esche, Gerard. Pensate che possiamo tornare al castello senza pericolo?» canzonò il cognato.

    Gerard, barone normanno del vasto feudo di Wilmont, scosse i suoi lunghi capelli biondi e scoppiò in una fragorosa risata. «Senza pericolo? Affatto. Tremo al pensiero del trattamento che ci riserverà Ardith per vendicarsi del fatto che non le abbiamo permesso di venire a caccia con noi. Magari potessi stare qui fino a stasera.»

    Un'idea allettante. Corwin non riusciva a immaginare nessun altro posto in cui preferisse stare se non nelle campagne con Gerard, soprattutto quando andavano a caccia con i falchi, uccelli che un uomo della sua posizione sociale non aveva il diritto di usare. Pochi sassoni nell'Inghilterra governata dai normanni godevano dei suoi stessi privilegi e in momenti come quello ringraziava la sorte per il fatto che il suo signore feudale avesse avuto il buonsenso di innamorarsi e sposare la sua gemella.

    Sollevando il pezzetto di carne fra le dita guantate, fischiò tre volte per richiamare il falco. «Vi farò un enorme favore, mio signore. Se mi profondessi in lodi sperticate per questo volatile, potrei riuscire a rabbonire Ardith al punto da indurla a perdonarvi.»

    «Molto gentile da parte tua.»

    «Sarà un piacere, mio signore.»

    Corwin allontanò la carne un attimo prima che il falco atterrasse con gli artigli aperti. Irrigidì il braccio per accettarne il peso, si affrettò ad arrotolare i geti appesi alle sue zampe, poi gli dette il premio che si aspettava. Per essere un rapace tanto feroce, il falco gli tolse delicatamente la carne dalle dita, un'altra caratteristica dell'addestramento di Ardith.

    «Faresti bene a ricordare che Ardith è in collera anche con te» gli ricordò Gerard. «Non gradisce che tu riparta domani dopo una visita così breve. Da quando è morto vostro padre, non vieni qui abbastanza spesso né ti trattieni abbastanza a lungo per i suoi gusti.»

    Dal giorno della morte di suo padre, avvenuta diversi mesi addietro, la sua esistenza era radicalmente cambiata, non sempre in meglio. Era diventato il signore di Lenvil, un prospero maniero che apparteneva alla sua famiglia da generazioni. Benché gli piacesse dirigerlo, talvolta trovava anche irritante il fatto di non potersi più permettere il lusso di andare e venire a suo piacimento.

    «Ardith sa benissimo che adesso devo occuparmi di Lenvil e che ho altri compiti da eseguire per voi. Inoltre, Bronwyn resterà con lei fino alla nascita del bambino. Nostra sorella sarà certo una compagnia migliore di quanto potrei mai esserlo io.»

    «Capisce che devi andartene, ma non le piace lo stesso. Forse, dopo la nascita del bambino, potrai tornare a Wilmont per una quindicina di giorni.»

    Corwin percepì l'ordine nel suggerimento di Gerard e decise che sarebbe stato ben contento di obbedirgli dopo che Ardith avesse partorito. Fino ad allora desiderava stare il più lontano possibile dalla sua gemella.

    Il vincolo che li univa poteva risultare tanto una benedizione quanto una croce. Consentiva loro di avvertire il dolore l'uno dell'altro e aveva salvato la vita a entrambi nel corso degli anni. Quel vincolo si era indebolito a mano a mano che diventavano adulti e la lontananza costituiva una sorta di toccasana. Ciò nonostante, quando Ardith aveva dato alla luce il suo primogenito, lui lo aveva saputo, benché si trovasse a Lenvil, a un intero giorno di viaggio da Wilmont. Questa volta sarebbe stato nell'estremo sud dell'Inghilterra, a centinaia di leghe di distanza.

    «Non avrete che da mandarmi a chiamare e io verrò.»

    Annuendo, Gerard si volse verso il portatore che gli si stava avvicinando. «Mio signore, tutti i sacchi sono pieni meno uno. Desiderate che si vada a Wilmont a prenderne degli altri?»

    Gerard sorrise. «Tu che ne dici, Corwin? Per quanto tempo ancora vogliamo rinviare il nostro ritorno?»

    «Dico che ci conviene riempire l'ultimo sacco, altrimenti Ardith ci accuserà di essere degli sfaticati.» Sospirò. «Poi immagino che dovremmo rientrare. Ho ancora parecchie cose da fare prima di partire.»

    Come sempre durante il giorno, le porte del castello erano spalancate, consentendo al gruppo di cacciatori di entrare nella corte senza intralci. I portatori si diressero verso la cucina, gli stallieri si precipitarono loro incontro per prendere i cavalli. Mentre smontava, Corwin lanciò un'occhiata ai quattro carri che si trovavano accanto alle stalle. Su uno erano state caricate delle tende e delle provviste, gli altri avrebbero trasportato assi, scandole e chiodi.

    La mattina seguente, insieme a sei guardie e ai conducenti dei carri, si sarebbe messo in viaggio per Cotswold, un maniero nell'Inghilterra meridionale, nei pressi di Romsey. A Romsey avrebbe assunto i carpentieri necessari per apportare alla proprietà le migliorie desiderate da Gerard. Il fatto che il cognato gli avesse chiesto di capitanare la comitiva costituiva un segno della sua benevolenza, oltre a fornirgli il pretesto per stare alla larga da Wilmont per diverse settimane. L'incarico di assumere i carpentieri e dirigere i lavori dimostrava la fiducia che riponeva in lui, fiducia che si era guadagnato in molte occasioni, sia come amico sia come cavaliere. Una fiducia che aveva rischiato di perdere una sola volta, per amore di Ardith.

    «Sembra che le operazioni di carico siano quasi ultimate» osservò Gerard.

    «Controllerò i carri dopo essermi occupato del falco» ribatté lui augurandosi che passassero il suo esame. Non voleva che qualcosa andasse storto durante quel viaggio, nemmeno che un'asse si spostasse e facesse inclinare il carro sul ciglio della strada.

    Seguì il cognato e i cani da caccia lungo la scalinata esterna da cui si accedeva al salone. I servi avevano cominciato a fare i preparativi per il desinare, montando i tavoli su cavalletti lungo le pareti. Le ancelle non avrebbero tardato a disporvi le ciotole per la birra e i taglieri fatti di pane su cui posare il cibo. Solo coloro che sedevano alla tavola principale, la famiglia del barone e i suoi ospiti, avrebbero mangiato su dei vassoi di argilla e bevuto il vino dalle coppe.

    Continuando a seguire Gerard, Corwin attraversò il salone. Al di là della pedana, si srotolò i geti dal braccio e con estrema riluttanza depositò il falco sul suo trespolo insieme agli altri rapaci.

    Con aria assorta, gli passò un dito sulle morbide piume del petto. Era uno splendore quel pellegrino. Sebbene a Lenvil tenesse diversi falchi, sarebbe stato un piacere possedere quello, una gioia usarlo ogni volta che lo avesse desiderato. Pur essendo diventato un cavaliere e un proprietario terriero, oltre che un abile guerriero e un uomo istruito, non era di nobili natali e quindi non gli era consentito cacciare con i falchi.

    Un divieto ingiusto, a suo avviso, ma che re Enrico I si rifiutava di abrogare. In effetti, teneva soprattutto a far rispettare la Legge Forestale. I bracconieri non venivano tollerati nei suoi boschi. Abbattere un cervo poteva significare la morte per un cacciatore. Enrico concedeva a malincuore ai suoi aristocratici di uccidere capi più piccoli di selvaggina. Gerard, per fortuna, permetteva ai suoi cavalieri di cacciare nelle loro tenute, ma proibiva loro di usare gli uccelli da caccia.

    Fu Gerard a trarlo dalle sue meditazioni. «Mentre controlli i carri, io salirò a vedere come sta Ardith.»

    «Sto benissimo» risuonò la voce di lei dai piedi delle scale.

    Per Corwin guardare la sua amata sorella equivaleva quasi a guardare se stesso in un vetro argentato. Benché avesse i capelli di una tonalità più scura di quelli di lei, possedevano identici occhi azzurri. Con indosso un'ampia veste di un azzurro leggermente più intenso, la treccia che le ondeggiava sulla schiena, Ardith si diresse verso di lui.

    «Dato che voi due ve ne siete andati a caccia e mi avete lasciata qui da sola, ne ho approfittato per scrivere a Judith. Mi faresti il favore di consegnarle la mia missiva, Corwin?»

    Lui si sforzò di non lasciar trapelare il suo sgomento mentre prendeva la pergamena che lei gli porgeva, anelando a rifiutarsi ma incapace di trovare un valido pretesto per farlo. Ardith non avrebbe compreso la sua riluttanza a fermarsi all'abbazia di Romsey. O a rivedere la sua amica Judith.

    Tre anni addietro, temendo di essere sterile, Ardith aveva disperatamente desiderato consultare una suora, suor Bernadette dell'abbazia di Romsey, che si diceva fosse un'abile levatrice e, pur sapendo di incorrere nelle ire di Gerard, lui l'aveva accompagnata. Gerard era effettivamente montato su tutte le furie, aveva inveito, sbraitato, minacciato una sfilza di punizioni. Tuttavia, lui non provava alcun rimorso per quello che aveva fatto e sarebbe stato pronto a rifarlo in caso di necessità.

    Purtroppo, all'abbazia di Romsey aveva anche conosciuto Judith Canmore, nipote sia della regina Matilda d'Inghilterra sia di re Alessandro di Scozia. Un giorno avrebbe lasciato il convento per sposarsi, ma fino ad allora fungeva da dama di compagnia di Matilda quando la regina si trovava a Romsey per uno dei suoi frequenti ritiri. Judith era stata gentile con Ardith e le due ragazze erano diventate amiche. La sua gentilezza, però, non si era estesa a lui.

    Be', non era necessario che mettesse la lettera nelle sue mani, poteva limitarsi a consegnarla a chiunque gli avesse aperto la porta.

    «Volentieri» rispose infine con un sorriso forzato.

    Ardith si illuminò. «Al tuo ritorno dovrai dirmi se Judith è cambiata. Immagino che sia ormai diventata una bellissima, giovane donna.»

    Era assai probabile che l'incantevole fanciulla di un tempo fosse diventata una donna stupenda, eppure lui non aveva la benché minima voglia di posare gli occhi su di lei. L'ultima volta che lo aveva fatto era stato per ammirare i suoi dolci occhi grigio tortora e i suoi lucenti capelli castani, chiedendosi anche quali curve si celassero sotto la sua veste monacale e desiderando assaporare la sua adorabile bocca, solo per vederla arricciare il suo aristocratico nasino.

    Era stata una delle poche volte in cui la mancanza di un titolo gli veniva gettata in faccia con tanta efficacia, e quella non era certo un'esperienza che amasse ripetere.

    Rimboccandosi le maniche della veste nera, Judith si preparò a lavare le pentole che avevano usato le suore per cucinare il desinare. Sarebbe potuta toccarle una punizione peggiore, ma la badessa Christina aveva scelto quella particolare incombenza proprio perché sapeva quanto lei la detestasse.

    Sbrigate le loro faccende, le suore avevano lasciato la cucina, tranne suor Mary Margaret, che la teneva d'occhio per accertarsi che pulisse a dovere le pentole.

    «Non è necessario che restiate, sorella» dichiarò Judith, sorridendo all'espressione accigliata dipinta sul volto rugoso dell'anziana suora. «Posso benissimo cavarmela da sola.»

    «Perché poi la badessa venga a sapere che non ho fatto il mio dovere? Meglio di no. Sarebbe capace di far lavare a me quelle pentole. Che cos'hai combinato questa volta?»

    Judith immerse la prima pignatta nell'acqua del mastello e cominciò a strofinarla, ricordando l'accesa discussione culminata con lei quasi in lacrime e la badessa con la faccia paonazza. «Mi sono rifiutata di prendere il velo.»

    «L'avevi già fatto senza che la badessa ti punisse.»

    «Be', temo di essermi rifiutata un po' troppo energicamente e a voce un po' troppo alta questa volta.»

    «Se la regina fosse qui...»

    «Ma non c'è e quindi non può intercedere per me. Perciò lavo le pentole.»

    La regina Matilda era stata richiamata a Londra per governare il regno mentre re Enrico si recava in Normandia. Come sempre, dopo una delle prolungate visite della regina all'abbazia, la badessa aveva tentato di convincerla a prendere il velo. E come sempre, lei aveva rifiutato.

    Suor Mary Margaret avvicinò uno sgabello e vi si lasciò cadere pesantemente. «Potrebbe capitarti di peggio, sai. Una donna del tuo rango potrebbe arrivare molto in alto in seno alla Chiesa.»

    Judith viveva ormai da sette anni in convento e in linea di massima era stata piuttosto contenta. Negli ultimi tempi, però, quando si inginocchiava per pregare, il che accadeva spesso nel corso della giornata di una suora, supplicava il Signore che le risparmiasse altri sette anni. Rabbrividiva al solo pensiero. Sarebbe impazzita molto prima.

    Provava una strana inquietudine da un po' di tempo. Se la prendeva per le cose più insignificanti, come il colore della sua veste o la mancanza di un particolare condimento nello stufato. Era ora che rivolgesse un altro appello ai suoi familiari, che ricordasse loro che aveva raggiunto da un pezzo l'età del matrimonio. Non i suoi genitori, che si sarebbe inchinati a qualsiasi decreto reale. Zio Alessandro si sarebbe limitato a consigliarle di avere pazienza, se mai si fosse degnato di prendere in considerazione la sua richiesta.

    Meglio rivolgersi a zia Matilda, che l'avrebbe ascoltata, che avrebbe compreso il suo desiderio di sfuggire alla pesante opera di persuasione della badessa. Solo che potevano passare dei mesi prima che la regina tornasse.

    «Non ho alcuna voglia di arrivare in alto in seno alla Chiesa» ribatté, mettendo da parte la pentola pulita e afferrandone un'altra sporca. «Christina desidera che diventi badessa dopo di lei, così come un tempo ha cercato di convincere Matilda a fare la stessa cosa, prima che Enrico venisse a salvarla.»

    Un raro sorriso curvò le labbra della vecchia suora. «Ricordo bene le loro discussioni. Da allora ho pensato spesso che se Matilda avesse dato ascolto alla badessa, si sarebbe risparmiata molte sofferenze.»

    Re Enrico, in effetti, non era il più premuroso né il più fedele dei mariti. Buon Dio, aveva almeno una dozzina di bastardi sparsi nel regno. Eppure Matilda soleva affermare che se fosse tornata indietro, avrebbe preso le stesse decisioni.

    «Matilda ha conosciuto la sofferenza, ma anche molte gioie. I suoi due figli. La fiducia che le dimostra il re affidandole il trono in sua assenza. La possibilità di dedicarsi alle opere di carità che tanto le stanno a cuore. Le piace regnare e credo che sia una buona regina. Un giorno mi piacerebbe fare quello che fa lei.»

    «In tal caso, tanto vale che diventi una badessa. La regina passa più tempo qui che a Londra, per allontanarsi da quel fedifrago di suo marito.»

    Judith non poteva darle torto. Matilda si ritirava a Romsey tutte le volte che le era possibile. Eppure, il suo matrimonio non era poi tanto terribile. Enrico le era affezionato e, tradimenti a parte, la trattava con notevole rispetto. Dal canto suo, Matilda lo amava con tutto il cuore.

    Lei non si stancava mai di ascoltare la storia del loro incontro, come l'affascinante principe Enrico fosse venuto in visita all'abbazia con un amico, come avesse chiesto di porgere i suoi omaggi alla principessa sassone che viveva fra quelle mura. Gli occhi della regina si velavano di lacrime nel raccontare come Enrico avesse portato con sé il suo cuore quando se n'era andato.

    Matilda non si era fatta illusioni sul loro matrimonio. Sapeva che unire le case regnanti di Scozia e d'Inghilterra non era che un'abile mossa politica da parte di Enrico. Neppure Judith si faceva illusioni. Sapeva che un giorno avrebbero dato la sua mano a un uomo con cui una delle case reali desiderasse stringere un'alleanza. Poteva solo sperare di sposarne uno che non solo le piacesse ma che potesse anche amare, e che ricambiasse il suo amore.

    «Non tutti i mariti sono infedeli» dichiarò.

    «Forse no, ma la maggior parte degli uomini degni di aspirare alla tua mano non si fa scrupolo di prendersi un paio di amanti. Allora la moglie è infelice e diventa bisbetica. Meglio evitare completamente simili spiacevolezze.»

    Non tutti i matrimoni fra aristocratici erano destinati al fallimento. Bastava pensare alla sua amica Ardith, una signora sassone che aveva sposato un potente barone normanno ed era incredibilmente felice. «Una donna non può trovare la felicità nei suoi figli?»

    Suor Mary Margaret scosse la testa. «Può darsi. Ma per avere dei figli una donna deve sottomettersi agli spregevoli impulsi di un uomo e poi partorire. Dubito che valga la pena di sopportare il dolore del parto e della consumazione per avere dei figli.» Si alzò dallo sgabello, la faccia arrossata per aver affrontato un argomento così scabroso. «Fa troppo caldo qua dentro. Penso che andrò a prendere una boccata d'aria. Tu continua a rigovernare.»

    Judith obbedì, non solo per affrettarsi a terminare quel compito ingrato, ma anche per non pensare alla cosiddetta sottomissione. Avrebbe ottenuto un successo maggiore se quel discorso non le avesse riportato alla mente il viso di un particolare uomo. Il primo e l'ultimo che avesse risvegliato la sua curiosità e i suoi spregevoli impulsi.

    Corwin di Lenvil.

    Non lo vedeva da tre anni, ma ricordava bene i suoi stupefacenti occhi azzurri, le sue spalle ampie, la sua vita snella e il suo seducente sorriso. Forse, a quindici anni, era stata pronta a provare quegli impulsi. Forse ricordava il viso di Corwin con tanta chiarezza perché Ardith parlava spesso di lui nelle sue lettere. Purtroppo lo ricordava anche perché aveva ricambiato la gentilezza di lui con inaudita villania.

    Corwin aveva accompagnato a Romsey la sorella, che desiderava consultare una suora la cui abilità di levatrice non aveva uguali. La povera Ardith era sconvolta e Corwin... be', lei non aveva mai visto niente del genere. Figurarsi, un fratello che amava tanto la propria sorella da rischiare le ire di un barone per tranquillizzarla.

    Lo aveva trovato coraggioso oltre che attraente e il suo interesse per lui era apparso tanto evidente da non sfuggire a Matilda. «Non devi incoraggiarlo» l'aveva ammonita. «Corwin è un giovanotto piacevole, ma non possiede né il rango né il patrimonio necessari per corteggiare un'ereditiera di stirpe reale.»

    Terribilmente delusa, lei lo aveva snobbato quando si erano rivisti. Perfino adesso, dopo tanto tempo, provava una fitta di rimorso per la sua maleducazione e una fitta di imbarazzo ancora più grande per l'arroganza che aveva dimostrato dando per scontato che lui intendesse farle la corte. Infatti si era ben guardato da rivolgerle ulteriori attenzioni, né era mai tornato a trovarla.

    Comunque, il fatto di averlo conosciuto era stato un bene. Aveva capito con assoluta certezza di non essere adatta a prendere il velo. Non che avesse avuto molti dubbi in proposito, ma era inconcepibile che una suora provasse i fremiti che la vicinanza di quel giovane le aveva suscitato.

    Judith afferrò il più grande e il più pesante dei paioli di ferro. Lo immerse adagio nel mastello, ma riuscì ugualmente a sollevare una quantità di acqua sufficiente a inzupparle il davanti della veste.

    Seccata, si tirò giù le maniche e uscì nel cortile che si trovava fuori della cucina. Le altissime mura di pietra grigia torreggiarono su di lei, oscurando quasi del tutto il sole che si sforzava di illuminare il piccolo cortile. Suor Mary Margaret sedeva su una panca con le palpebre abbassate. Diverse sue consorelle occupavano le altre. Alcune passeggiavano lentamente, producendo a stento un fruscio in quella quiete perenne.

    Nessun uomo aveva mai messo piede in quel cortile interno, nemmeno i preti girovaghi che la mattina dicevano Messa nella cappella. Anche gioia e risate erano bandite. Solo quando Matilda risiedeva lì e solo nella segretezza della sua stanza, lei poteva ridere senza temere di venire rimproverata.

    Molte suore, come suor Mary Margaret, erano entrate in convento per vocazione ed erano soddisfatte. Ma c'era anche infelicità fra le figlie delle famiglie aristocratiche che erano state destinate a prendere il velo fin da bambine.

    Erano quel silenzio, quelle interminabili giornate sempre uguali a farla uscire di senno, decise Judith. E l'incessante pressione della badessa. Doveva andarsene, mettere fine a quegli

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