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L'enigma del gesuita
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L'enigma del gesuita
E-book375 pagine5 ore

L'enigma del gesuita

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Info su questo ebook

Roma 1634. Il pontefice Urbano VIII riceve una lettera misteriosa: l’autore sostiene di volergli rivelare la chiave per decifrare i geroglifici e, forse, accedere così al sapere originario che Adamo avrebbe tramandato ai suoi discendenti. Il segreto sarebbe custodito nella trascrizione di un’antica stele perduta. Per evitare che cada nelle mani sbagliate, l’uomo ha smembrato il manoscritto e ne ha celato le varie parti dietro una serie di enigmi. Il papa si rivolge così al suo uomo più geniale, il gesuita Athanasius Kircher, inventore, illusionista e studioso, cui affida il difficile compito di decifrare il mistero. Ma anche il cardinale Richelieu è sulle tracce dell’antica conoscenza perduta, mentre la setta che nei secoli ha protetto il segreto fa di tutto per impedire che venga svelato… Padre Kircher, accompagnato da un improvvisato giovane assistente, parte per seguire le tracce che potrebbero aiutare a svelare l’enigma: da Roma all’Egitto, da Parigi a Vienna, da Costantinopoli di nuovo a Roma, gli agenti papali ingaggiano una sfida serrata e senza esclusione di colpi con i francesi, che li costringerà a scelte difficili e a una corsa contro il tempo.

Un autore da oltre 1 milione di copie
Tradotto in tutto il mondo

Un misterioso manoscritto contiene la chiave per decifrare i geroglifici.
Chi riuscirà ad accedere alla sapienza degli antichi egizi?

Hanno scritto di lui:
«Non si può fare a meno di appassionarsi alla narrazione di questo autore.»
Il Messaggero 

«Grande conoscitore del quotidiano annidato nella storia, Frediani usa il particolare come un fregio, arricchendo le vicende con precisione, dalle descrizioni degli abiti fino alle regole dei cerimoniali.»
Il Corriere della Sera

«La sua scrittura ha l’andamento avvincente di una macchina da presa che inquadra l’angolatura giusta al momento giusto.»
Il Tempo

Andrea Frediani
è nato a Roma nel 1963; consulente scientifico della rivista «Focus Wars», ha collaborato con numerose riviste specializzate. Con la Newton Compton ha pubblicato diversi saggi (tra cui Le grandi battaglie di Roma antica; I grandi generali di Roma antica; L’ultima battaglia dell’impero romano; Le grandi battaglie di Napoleone, La storia del mondo in 1001 battaglie; L’incredibile storia di Roma antica e Le grandi guerre di Roma. L'età repubblicana) e romanzi storici: Jerusalem; Un eroe per l’impero romano; la trilogia Dictator (L’ombra di Cesare, Il nemico di Cesare e Il trionfo di Cesare, quest’ultimo vincitore del Premio Selezione Bancarella 2011); Marathon; La dinastia; 300 guerrieri; 300. Nascita di un impero; I 300 di Roma; Missione impossibile. Ha firmato le serie Gli invincibili e Roma Caput Mundi; il thriller storico Il custode dei 99 manoscritti; Lo chiamavano Gladiatore, con Massimo Lugli; La spia dei Borgia, Il cospiratore e La guerra infinita. Le sue opere sono state tradotte in sette lingue.
LinguaItaliano
Data di uscita19 lug 2019
ISBN9788822736673
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    Anteprima del libro

    L'enigma del gesuita - Andrea Frediani

    I

    Rashid, Egitto, 1634

    Un rumore alle spalle. Il vecchio Milad Sumir ruotò appena il collo anchilosato dall’artrosi e con la coda dell’occhio notò l’acqua sobbalzare nella scodella del cane, appoggiata accanto all’uscio di casa. Qualcuno aveva aperto violentemente la porta, mandandola a sbattere contro la parete ancora umida per la recente inondazione.

    Sentì la bestia abbaiare. Ma solo per un istante. Subentrò un guaito, che si trasformò in un rantolo. Le paure che avevano guidato ogni azione del dottore nelle ultime settimane presero corpo. Non osò guardare cosa era capitato al fedele amico di tanti anni, e neppure quale minaccia gravasse sul suo capo. Lasciò cadere il calamo che aveva in mano e cercò di strappare il foglio di carta su cui aveva iniziato a scrivere la lettera.

    Ma una poderosa stretta alla spalla gli bloccò il movimento del braccio.

    «A chi stai scrivendo, vecchio?». La voce era fredda come la lama di un coltello. Le parole incomprensibili come quelle di una creatura dell’inferno. Il dottore rabbrividì.

    «À qui es-tu en train d’écrire?», disse l’uomo, stavolta nella sua lingua. La voce rimaneva quella di un demone. Un demone francese.

    Il dottore provò a parlare, ma dalla bocca non gli uscì alcun suono. Allora l’uomo, mantenendo la presa sulla sua spalla, con l’altra mano afferrò il pezzo di carta e lo osservò.

    «Sua Santità… Allora l’hai fatto… Lo hai avvertito, nonostante ti fosse stato detto di non farlo», proseguì.

    «Io… stavo per farlo», riuscì a dire Milad.

    «Bene. Allora è una fortuna che io sia arrivato in tempo. Dimmi dove tieni quello che hai trascritto», gli intimò lo sconosciuto.

    Il vecchio pregò di nuovo il Signore, perché gli desse la forza. Non rispose, ben sapendo che non sarebbe bastato a evitargli un calvario.

    «La stretta si trasformò in una morsa ferrea. Milad si stupì di quanta pressione potessero esercitare i polpastrelli dello sconosciuto sulle sue stanche membra. Gli parve che l’omero potesse esplodere da un momento all’altro.

    «Donc?»

    «Io… non ce l’ho più».

    «Ah sì? E a chi l’hai dato?»

    «Non… non è più in Egitto».

    «Non dirmi che sono venuto qui a Rosetta per niente…», replicò tagliente lo sconosciuto, chiamando la città col nome che usavano gli occidentali.

    Il dottore sussultò.

    «Allora dimmi dove dobbiamo andare, io e te, per riprendercelo», dichiarò il francese, affondando ancora le dita, fin quasi a perforargli la pelle avvizzita.

    Il vecchio non riuscì più a contenere il tremore. I brividi lo scossero e sentì di non poter più dominare intestino e vescica e si chiese se anche Gesù avesse perso il controllo dei propri organi quando era andato incontro al suo destino sul Golgota; in fin dei conti, nell’orto del Getsemani aveva avuto i suoi dubbi, era stato assalito dalle sue paure… Sentì lacrime sgorgare. Adesso veniva il difficile. Si appellò a Dio e tacque.

    Roma, nello stesso momento

    «Non essere impaziente! Devo farmi bella per te!», gridò Francesca affacciandosi alla finestra e guardando di sotto, verso il povero Antonio che smaniava per salire da lei.

    «Ma quanto ancora devo aspettare?», si lamentò il ragazzo con voce querula.

    «Dammi il tempo di vestirmi almeno!», rispose la ragazza con un sorriso frivolo, sollevandosi appena oltre il davanzale e lasciando intravvedere le forme generose.

    «Ma che importa? Lo sai che tanto poi ti spoglio subito…», replicò malizioso il giovane strizzandole l’occhio.

    La ragazza gli indirizzò un sorriso provocante. «Appunto… Non voglio privarti del piacere di spogliarmi…», ribatté, incurante del giudizio dei passanti.

    Il giovane sbuffò ma parve rassegnarsi. Francesca poté tornare a dedicarsi a ciò che stava facendo. «Sentito?», disse al suo ospite avvicinandosi a lui a passo lento e guardandolo fisso negli occhi. «Dobbiamo sbrigarci a finire. E, quando esci, attendi nel sottoscala, prima di andare. Non voglio che ti veda: mi fa un sacco di regali…».

    L’uomo si mantenne nella penombra, seduto sul divanetto alla parete opposta alla finestra, che le aveva regalato Antonio in uno dei suoi più disperati tentativi di riconquistarla. Rimase in silenzio, sorridendole con perfidia. Lei lo raggiunse e si inginocchiò ai suoi piedi con movimenti studiati, facendosi accarezzare la pelle delle gambe dalla morbida lana delle Fiandre del tappeto. Un altro regalo di Antonio, ovviamente.

    Neppure per un istante staccò lo sguardo da lui, mentre scuoteva la testa lasciando fluttuare i suoi lunghi capelli color del grano. Erse il busto e si fece ammirare ancora una volta, poi iniziò a slacciargli la cintura. Afferrò i lembi dei pantaloni per abbassarglieli, ma lui le bloccò il braccio, con una stretta che lei giudicò eccessiva.

    «Mi fai male…», mormorò, sentendo tuttavia montare ancor più l’eccitazione dentro di sé. Non riuscì a trattenere un sorriso malizioso. Si chiese fino a che punto avrebbe potuto spingersi: era curiosa di scoprire quali fantasie nascondesse. L’aveva abbordata al mercato di piazza Navona solo un paio d’ore prima, e il suo atteggiamento misterioso e sicuro di sé aveva prontamente suscitato in lei interesse e desiderio. Così, aveva deciso di portarselo a casa subito, incurante del fatto che di lì a poco sarebbe arrivato Antonio. Certe cose vanno fatte sull’onda dell’entusiasmo, si era detta senza neppure perdere tempo a chiedergli il nome.

    L’uomo mosse l’altra mano e lei immaginò che volesse stringerla e sollevarla. Le piacque l’idea. Le piacevano gli uomini forti e decisi. Ma le dita dell’ospite andarono al borsello poggiato sul divanetto accanto a lui. Lo aprì e ne estrasse un coltello. Francesca sussultò. Sorrise ancora, anche se in modo un po’ più forzato. Le labbra carnose si incresparono quando sentì scavare dentro il suo stomaco. Avvertì il sapore ferroso del sangue riempirle la bocca e vide la figura del suo ospite farsi indistinta, prima di chiudere gli occhi, sopraffatta dal dolore.

    Il messo papale contemplò l’imponente facciata del Collegio Romano, focalizzando la propria attenzione sul grande orologio che campeggiava all’ultimo piano del corpo centrale, una specie di torre tra i due laterali più bassi. Forniva l’ora esatta a tutti gli orologi dell’Urbe, e gli ricordava che se l’era presa fin troppo comoda. Ma tra il Vaticano e il rione Pigna aveva dovuto affrontare una processione e superare un ingorgo di carri.

    Risalì i quattro gradini che conducevano al portone d’ingresso e avvertì un pizzico di soggezione quando varcò la soglia. Adesso si trovava nel tempio della sapienza gesuita, nella scuola che avrebbe formato la classe dirigente dello Stato della Chiesa: niente cui potesse ambire un giovane chierico di modesta estrazione come lui. Si inoltrò nei corridoi della scuola. Sapeva che il professore veniva chiamato di frequente in Vaticano, ma era la prima volta che la segreteria di Sua Santità mandava lui e non sapeva orizzontarsi, nello splendido e ampio edificio. Si guardò intorno cercando qualcuno cui chiedere informazioni, ma non vide alcun custode e le persone che incrociava parevano irraggiungibili.

    Ogni volta che si avvicinava a una persona, rimaneva colpito dallo sguardo concentrato e non si sentiva di disturbarla. Sembravano tutti assorti in alti pensieri: non era come in Vaticano, dove chi pareva distaccato dal mondo era per lo più intento alla preghiera. I frequentatori di quel posto avevano tutti delle carte o dei libri sottobraccio, e qualcuno era addirittura capace di camminare leggendo.

    Proprio uno di essi, un gesuita anziano, con gli occhi incollati alle pagine di un volume, non si accorse di lui e gli finì addosso. L’impatto causò la caduta del libro, che finì sul piede del messo, il quale poté apprezzarne a sue spese il peso non indifferente.

    «Ma guardate dove andate, per l’amor del cielo!», sibilò il gesuita lanciandogli un’occhiataccia.

    Il giovane lo fissò imbarazzato, ciondolando con il piede dolorante, mentre l’altro rimaneva immobile a guardarlo. Se ne stettero per qualche istante così, poi il messo comprese cosa serviva per rompere lo stallo. Si chinò e raccolse il libro, consegnandolo al gesuita che lo prese con fare sprezzante.

    «E state più attento, la prossima volta!», gli intimò, aprendo il volume alla pagina che lo interessava, per poi riprendere a camminare.

    «Posso… chiedervi dove trovo il professor Kircher? Athanasius Kircher?», osò domandare il giovane.

    L’altro si fermò per un istante, senza voltarsi. «Primo piano, seconda aula a destra a fianco delle scale», dichiarò, allontanandosi a un’andatura spedita nonostante tenesse di nuovo gli occhi fissi sulle pagine.

    Il giovane sospirò e si avviò verso le scale, che risalì con circospezione, stando bene attento a non costituire un ostacolo per un altro di quegli studiosi: un impatto sui gradoni avrebbe potuto avere ben altre conseguenze. Ne evitò un paio e quando giunse al piano superiore si diresse verso l’aula che gli era stata indicata, trovandola con la porta appena accostata. La spinse e fece capolino all’interno. Una ventina di giovani studenti seduti ai banchi seguivano con attenzione i simboli matematici, per lui incomprensibili, che il loro professore tracciava col gessetto su un’ampia lavagna.

    «…Questo è il teorema di Pappo di Alessandria, vissuto in Egitto ai tempi dell’imperatore Costantino il Grande», spiegava il professore con un pronunciato accento germanico, le consonanti accentuate e la r arrotata. «A lui dobbiamo un’enciclopedia della matematica in otto volumi, di cui sono giunti fino a noi in forma completa gli ultimi sei. Il teorema che vi ho illustrato qui…».

    Padre Kircher si interruppe non appena notò la presenza del messo. Lo guardò in tralice e disse: «Vi hanno mandato dal Vaticano per seguire la lezione o avete qualcosa da annunciarmi?».

    Il giovane rimase senza parole di fronte allo sguardo penetrante del professore, dotato di due occhi scuri e profondi che spiccavano con potenza inaudita in un volto rotondo dalla pelle bianca come il latte, tipica dei tedeschi. La barba ispida, su cui si intravvedeva qualche pelo bianco, conferiva a quel viso dai forti contrasti un’autorevolezza che lasciava interdetti.

    «Allora? Avete intenzione di parlare o devo arrivarci da solo?», insisté il professore.

    «Sua Santità… desidera parlarvi, professor Kircher», trovò infine la forza di dire. «Ma… come facevate a sapere da dove vengo?», gli venne spontaneo chiedergli.

    «Ce l’avete scritto addosso, in pratica», replicò il professore, apparentemente compiaciuto per la domanda. Poi si rivolse alla classe, come se volesse fare sfoggio del suo acume. «Siete un chierico, e visibilmente sudato, ma non indossate vesti adeguate ai frequentatori del Collegio. Quindi siete qui per svolgere un incarico per conto di qualcuno di importante. Inoltre, avete l’abito spiegazzato, il che rende probabile che siate passato attraverso la folla della processione che si sta svolgendo su Ponte Sant’Angelo e dintorni. Direi che c’era un’alta percentuale di probabilità che proveniste dal Vaticano, no? L’unica cosa che non potevo sapere era se vi avesse mandato Sua Santità o qualche cardinale».

    Il giovane rimase a bocca aperta. Ma scrutando i discenti, notò che molti alzavano gli occhi al cielo, si scambiavano risolini d’intesa o facevano smorfie. Evidentemente, l’esibizione del professore era uno spettacolo abituale.

    «Bene, signori, a quanto pare oggi la lezione finisce anzitempo», riprese padre Kircher, radunando i propri documenti disseminati sulla cattedra. «Le mie competenze sono richieste altrove, come avete sentito. E vedete bene che avete il privilegio di imparare da chi deve pur possedere qualche capacità, se il Santo Padre ritiene di doverlo consultare. La prossima volta riprenderemo dai teoremi di Pappo-Guldino. Memorizzate questa formula che indica la superficie dei solidi di rotazione», concluse indicando i segni sulla lavagna, tra cui il messo distinse, nell’ultima riga, una A seguita dal segno di uguale, da un altro che non conosceva, da una d e una l.

    «Allora? Cosa aspettate? Andiamo!», intimò il professore non appena raggiunse la soglia dell’aula.

    Il messo si riscosse dalla sorpresa e infine si incamminò con lui.

    Sì, questo cervellone doveva avere proprio competenze speciali, per indurre il papa in persona a chiamarlo d’urgenza in Vaticano, si disse.

    Antonio si accasciò contro la porta bussando disperato con la testa, con le mani, coi piedi. E intanto piangeva, continuando a maledire la propria stupidità e la propria inettitudine, che non gli avevano permesso di impedire lo scempio che aveva trovato. Non aveva scelto consapevolmente da chi andare subito dopo la scoperta che aveva fatto. Terminate le formalità con la polizia, i suoi piedi lo avevano portato lì, dalla prima persona che aveva il dovere di informare; che guarda caso, era anche la sola persona sulle cui spalle avrebbe potuto piangere senza vergognarsi.

    La porta si aprì e Beatrice comparve sulla soglia. Per un istante, ma solo per un istante, nei suoi lineamenti Antonio rivide quelli di Francesca; ma quando la donna assunse un’espressione sconvolta, che la rendeva meno attraente, Antonio si disse che Francesca, al contrario di lei, non riusciva a essere brutta neppure quando era turbata.

    No. Non l’avrebbe ritrovata in nessun’altra donna. Mai più.

    «Cosa hai fatto? Cos’è tutto questo sangue?», disse Beatrice osservando i suoi vestiti.

    Antonio entrò con decisione e lei lo assecondò, accompagnandolo nel saloncino, dove lo fece accomodare sul divanetto. Poi si precipitò in cucina, dove prese dell’acqua, che gli offrì premurosa come sempre.

    Il giovane continuò a scuotere la testa e si chiese quale fosse il modo migliore per dirglielo. Ma poi decise che era preferibile andare dritti al punto. «Questo sangue è di tua sorella», dichiarò dopo aver bevuto un sorso, la voce ancora rotta dall’emozione.

    Beatrice lo guardò a lungo in silenzio, poi rispose: «L’hai colta in flagrante stavolta e gliene hai date di santa ragione? Be’, se la meritava una lezione. Se non fossi stato tu lo avrebbe fatto un altro», commentò.

    Antonio fece un sorriso sprezzante. «La odi proprio… Be’, allora sarai contenta di sapere che è morta. Io però non c’entro, l’ho solo trovata. Sono stato finora con la polizia, che ho chiamato io stesso», replicò, sperando di farle del male.

    Beatrice si irrigidì. Tacque per qualche istante, e Antonio vide i suoi occhi inumidirsi. Non erano splendenti come gemme verdi, al pari di quelli di Francesca, ma erano altrettanto profondi. Erano proprio i suoi occhi che lo avevano indotto a fidanzarsi con lei… prima di conoscere la sorella.

    «Io non la odiavo… anche se ne avrei avuto tutti i motivi, per ciò che ci ha fatto patire», si giustificò lei.

    «Ha saputo rendermi felice come nessun’altra», protestò lui, sentendosi in dovere di difendere la memoria della sua amata.

    «Ma anche triste e disperato come nessun’altra è riuscita a fare…», obiettò la ragazza.

    Stavolta fu Antonio a tacere. Non poteva negarlo.

    «Cosa è successo? Chi è stato?», lo incalzò lei, gli occhi ancora umidi.

    Antonio sospirò. «Se lo sapessi, il sangue che mi vedi addosso non sarebbe solo quello di Francesca», ribatté sconsolato. «È tutta colpa mia».

    «Che vuoi dire?»

    «Avevo appuntamento con lei. Sono arrivato davanti a casa sua e l’ho chiamata, ma lei mi ha fatto attendere, affacciandosi alla finestra e dicendomi che non era ancora pronta. Mi ha fatto attendere tanto. E mentre io me ne stavo fuori buono buono come un cagnolino, qualcuno l’ha ammazzata».

    «Qualcuno che era già con lei, vuoi dire?», insinuò Beatrice.

    «So cosa intendi: che mi ha fatto aspettare perché se la stava spassando con un altro che poi l’ha uccisa».

    «Sarebbe da lei. E lo sai».

    «Io pure non sono mai stato uno stinco di santo. Eppure continui a volermi bene», la provocò.

    Beatrice sospirò. «Ebbene? È stato qualcuno che era lì con lei?»

    «È probabile. La polizia ha interrogato i condomini, ma non hanno sentito o visto nulla. Non sanno chi c’era con lei, e io non ho sempre tenuto d’occhio il portone: era previsto che salissi io, non che scendesse lei. Alla fine, mi sono stufato e sono salito. Non rispondeva e ho dovuto usare la chiave».

    «Avevi la chiave di casa sua?», lo interrogò incredula lei.

    «Ehm… Certo. Me ne sono fatto una copia di nascosto quando gliel’ho consegnata. In fin dei conti, l’ho aiutata a comprarla».

    La ragazza lo fissò allibita. «Non me lo avevi mai detto. Anche questo ti ha estorto…», balbettò.

    «È stata una mia scelta! Dopo che l’hai cacciata di casa non sapeva dove andare!», protestò ancora lui.

    «Avrei dovuto continuare a vivere con lei nella casa dei nostri genitori dopo quello che mi aveva fatto?», reagì lei. «Io almeno un lavoro per mantenere la casa ce l’ho. Ma lei viveva solo a spese mie, da quella frivola parassita che era…».

    «Smettila. Era tua sorella!», si indignò Antonio. «Ti ho sempre considerato una persona di animo nobile: non vorrai essere così meschina proprio adesso che è morta!».

    «Ma come è morta? Me lo vuoi dire?», domandò Beatrice.

    «L’ho trovata a terra in una pozza di sangue… pugnalata allo stomaco… E non solo», faticò a dire, inorridendo di nuovo mentre richiamava alla mente la scena.

    «Cosa significa non solo?».

    Antonio sentì la bocca seccarsi, ripensando all’ultima immagine di Francesca, prima che la polizia ne portasse via il corpo martoriato. Un’immagine che l’avrebbe perseguitato per tutto il resto della sua vita.

    «Con il pugnale… Il suo assassino… le ha inciso una grande A sul petto», disse infine singhiozzando, mentre sul viso della sua interlocutrice si dipingeva un’espressione di raccapriccio.

    II

    Parlare con Sua Santità era sempre una faccenda delicata, per Athanasius Kircher.

    Il gesuita percorse con la consueta circospezione i corridoi e le gallerie, le rampe e i cortili dei palazzi vaticani, seguendo in silenzio l’usciere incaricato di portarlo al cospetto del pontefice. C’erano papi che esercitavano il potere in nome di Cristo e papi che esercitavano il potere in nome proprio e della propria famiglia.

    Urbano viii apparteneva alla seconda categoria.

    E non era neppure un vanesio che era facile incantare facendo sfoggio di cultura o anche solo di piaggeria. Papa Barberini ci sapeva fare: non era solo un politico ambizioso e avido, consapevole di essere a capo di uno Stato temporale prima che di una ben più vasta comunità spirituale, ma era anche colto e sensibile alle arti e allo studio. Era perfino un poeta, sufficientemente talentuoso da non vergognarsi di far circolare i suoi componimenti anche se, a onor del vero, erano più celebri le poesie su di lui: «Ciò che non fecero i barbari, lo fecero i Barberini», declamava l’opera del misterioso buontempone noto come Pasquino, riferendosi al nepotismo sfrenato dell’attuale amministrazione pontificia, che aveva insediato membri della famiglia nei posti più vitali.

    Ma d’altra parte, se lui, Athanasius, a Roma da qualche mese, si era visto assegnare una cattedra nel Collegio Romano, lo doveva all’attenzione con cui il pontefice aveva seguito le sue ricerche in Germania e in Francia. Se adesso il gesuita godeva di ampia libertà nel proprio lavoro, che più d’uno aveva giudicato non proprio in linea con i dettami del Concilio di Trento, lo doveva al sostegno papale, che non gli conveniva affatto perdere.

    Urbano lo ricevette, curiosamente, nella cappella privata accanto alle stanze che i pontefici utilizzavano abitualmente come dimora. Era intento a pregare, quando il custode attirò con discrezione la sua attenzione per avvisarlo che l’ospite era arrivato. Il pontefice si rialzò dal banco su cui era inginocchiato e attese che Athanasius gli rendesse il dovuto omaggio. Il giovane gesuita gli andò incontro baciandogli l’anello, quindi prese posto su uno dei sedili che il Barberini gli indicò. Il pontefice si sedette al suo fianco.

    «Caro Athanasius, abbiamo voluto vedervi qui perché nella cappella ci sentiamo più al sicuro, dal malefico influsso del demonio, e ciò che stiamo per dirvi ha una tale potenza eversiva…», esordì Urbano, scrutandolo con due occhi scuri e stanchi, incastonati sotto una fronte ampia che neppure il camauro calcato riusciva a dissimulare. La sua barba a scopetta e i lunghi baffi brizzolati ravvivavano un viso smunto e asciutto, reso ancor più serio dall’espressione preoccupata.

    Athanasius lo fissò sorpreso. Poi si guardò intorno e avvertì la presenza di Dio, in quel magnifico esempio di arte sacra che era la cappella. Ne aveva sentito parlare ma non l’aveva mai vista in precedenza. La volta lunettata era decorata con ricchi ornati di stucco dorato e affreschi che riproducevano la Passione. Nel mezzo campeggiava Cristo nell’Orto del Getsemani, circondato da angioletti con strumenti della Passione. Nelle lunette riconobbe la Flagellazione, l’Incoronazione di spine, l’Incontro di Cristo con la Veronica. Riportando lo sguardo sul papa, ebbe l’impressione che anche lui fosse nel mezzo di un percorso di Passione.

    «Sono onorato, Santo Padre, che vogliate mettermi a parte di circostanze tanto delicate», osservò prudentemente. «Spero di potermi dimostrare utile». In realtà, era certo di essere l’unico in grado di aiutare il pontefice.

    «Questa faccenda potrebbe rinforzare o distruggere la credibilità di cui gode la parola di Dio presso i popoli», proseguì il pontefice. «E considerate le vostre variegate competenze, la vostra diffusa conoscenza delle lingue orientali, della cultura egizia, ma anche la vostra profonda devozione, confidiamo in voi perché possiate svolgere questo incarico nel migliore dei modi».

    La curiosità di Athanasius si fece ancor più marcata. Non disse nulla e rimase in attesa delle parole del papa.

    «Come sapete, siamo in un momento molto delicato per la causa cattolica in Europa», riprese Urbano. «Le nostre preoccupazioni sono tutte rivolte alle sorti della guerra e il nostro cruccio maggiore è rappresentato dalle scelte discutibili del cardinale Richelieu, che invece di comportarsi come il suo abito ecclesiastico imporrebbe, ha anteposto gli interessi della nazione che rappresenta alla Chiesa cattolica, e si ostina a rimanere alleato dei luterani. Per fortuna il Signore ha voluto privare quegli scellerati del loro principale campione, il bellicoso re di Svezia, ma il loro fronte è ancora sufficientemente forte da rendere sempre incerte le sorti del conflitto che va avanti ormai da un quindicennio».

    Athanasius sapeva fin troppo bene di cosa stesse parlando il pontefice. Era cresciuto nell’Assia, uno dei territori germanici maggiormente tormentati dalle orde dei mercenari ingaggiati dai principi luterani o cattolici che si affrontavano sostenendo gli uni la causa di Svezia e Francia, gli altri quella dell’impero. E solo tre anni prima era dovuto fuggire da Wurzburg, in Franconia, dove insegnava matematica, filosofia morale, ebraico e siriaco, per l’arrivo dell’esercito svedese, riparando in Francia, dove si era stabilito ad Avignone.

    «Ma forse qualcosa è intervenuto a sbloccare la situazione», proseguì Urbano. «Ieri abbiamo ricevuto una lettera; se è vero quello che c’è scritto, siamo di fronte alla possibilità di risalire al sapere trasmesso da Dio a Adamo; e questo ci conferirebbe un enorme vantaggio su tutti gli altri partiti in causa: sia gli eretici che combattiamo, sia i figli infedeli della Chiesa come Richelieu».

    Egitto… sapere trasmesso da Dio a Adamo… Athanasius iniziava a intuire dove volesse andare a parare il pontefice. E non gli parve vero.

    «Ebbene, abbiamo ricevuto una missiva da parte di un copto residente a Rosetta, presso il delta del Nilo», si decise finalmente a rivelare Urbano. «Egli ci informa di essere depositario di un documento, copia di una stele rinvenuta nella sua città, contenente un testo geroglifico e la sua traduzione in demotico e in greco. E non c’è bisogno che vi diciamo, caro Athanasius, cosa significa questo…», concluse in tono melodrammatico il papa.

    E ne aveva ben donde, pensò il gesuita, rimanendo una volta tanto a bocca aperta e senza parole.

    Il mastro tipografo accolse Antonio con espressione furente. Più furente del solito. Apprendisti, compositori, torcolieri e operai se ne stavano a capo chino, nella certezza che avrebbero assistito alla sua ennesima sfuriata.

    «Con quale donna hai tirato tardi stavolta?», lo aggredì non appena ebbe varcato la soglia dell’officina.

    Antonio scosse la testa, fece una smorfia e non rispose, andando diretto alla propria postazione dove ritrovò il disordine che aveva lasciato la sera prima: le ampolle di piombo, stagno e antimonio in polvere per produrre la lega di cui si componevano i caratteri di stampa erano disseminate sul tavolo alla rinfusa, in un caos apparente nel quale si orizzontava soltanto lui.

    «Stai attento, stavolta è davvero imbufalito», gli sussurrò l’amico Pietro, che era addetto alla produzione degli inchiostri.

    «Allora? Non ritieni neppure di doverti giustificare?», insisté il suo datore di lavoro. «Nessuno stupratore da cui hai difeso la donzella di turno? Nessuna ragazza da portare in ospedale? Nessuna fidanzata gelosa da cui scappare? Nessuna lite tra donne per disputarsi le tue attenzioni? Nessuna amante che non voleva più lasciarti andar via e minacciava il suicidio se te ne fossi andato?».

    Antonio fremette di sdegno. Ogni muscolo del suo corpo si tese, e il giovane fu sul punto di scattare contro il suo principale, investendolo come avrebbe voluto fare con l’assassino di Francesca. Ma poi sentì la mano di Pietro afferrargli il braccio e bloccarlo.

    «Oggi… non ho scuse valide, mi spiace», finì per dire cercando di assumere un’espressione neutra.

    «Figuriamoci… allora vuol dire che proprio non ti andava di venire a lavorare», proseguì l’uomo. Non era un cattivo diavolo, Antonio ne era consapevole; ma sapeva essere pesante e ben poco tollerante, quando lo si contrariava per numerose volte di seguito. Come era solito fare lui. «Saresti potuto diventare già da tempo un bravo compositore… Hai talento e sapresti fare tutto, in una tipografia. Invece ti accontenti di fare l’operaio. Ma a quanto pare sei talmente privo di ambizione che non ti importa nulla di crescere e di guadagnare di più!».

    Antonio sapeva di non potergli dare torto. Non aveva la mentalità imprenditoriale, non gli importava nulla dei soldi: per lui la vita valeva la pena di essere vissuta solo se la si affrontava da gaudenti, senza farsi troppi problemi e senza pensare al domani. Le donne erano il suo solo, vero interesse anche se, da quando aveva conosciuto Francesca, lei aveva finito per monopolizzare il suo cuore: le altre erano state solo un palliativo per compensare le sue assenze e i suoi tradimenti. Non se la sentì di rispondere, e il mastro tipografo scambiò il suo atteggiamento per strafottenza.

    «Ma vediamo come reagisci se invece di rinunciare a promuoverti ti degrado…», lo provocò. «Se non tieni neppure al posto di operaio ti retrocedo ad apprendista, con lo stesso soldo degli altri. Ti sta bene?».

    In quel momento, ad Antonio non importava nulla. Neppure si soffermò a valutare le implicazioni della decisione del mastro tipografo.

    «E visto che ora sei un apprendista, lascia perdere quegli inchiostri e vai a svolgere un compito da apprendista», concluse l’uomo. «Qui c’è un preventivo che ci è stato chiesto da un professore del Collegio Romano per la pubblicazione di un suo libro. Vai da lui e consegnaglielo. E torna con la sua risposta, se possibile!».

    Antonio sospirò. La sola alternativa a una reazione inconsulta era l’acquiescenza totale. In fin dei conti, era una buona occasione per andarsene subito da lì senza sentir strepitare oltre quell’uomo insopportabile. Fece un cenno di assenso col capo, si alzò e andò dal principale, che gli consegnò il plico con il preventivo. Poi, tra gli sguardi turbati e perplessi dei colleghi, si avviò verso l’uscita, rassegnato.

    Adesso non aveva tempo di pensare al lavoro: il dolore iniziava a cedere il passo al desiderio di scoprire l’assassino.

    Athanasius si sentì percorrere dall’eccitazione come non gli capitava da tempo. Il motivo per cui il pontefice lo aveva chiamato a Roma, solo pochi mesi prima, era la necessità di avere a disposizione un esperto di lingue orientali per decifrare dei geroglifici incisi sugli obelischi presenti nell’Urbe. Era stato un suo amico e mentore, il principe francese Nicolas-Claude Fabri de Peiresc, a intercedere presso la corte papale perché fosse trasferito in un luogo in cui le sue non comuni doti potessero essere utilizzate con maggior profitto. Ma il metodo che il gesuita aveva ideato per interpretare i geroglifici era solo un’ipotesi, ed era ben lungi dall’essere pienamente affidabile. Era un’interpretazione, appunto, non una decifrazione. Athanasius si era appassionato alla scrittura degli antichi egizi solo da poco tempo e sapeva di essere appena all’inizio di un lungo percorso; tuttavia, il sorprendente annuncio di Urbano prometteva di fargli compiere un enorme balzo in avanti nelle sue ricerche.

    «Posso chiedervi, Santità, cosa dice esattamente questa lettera?», osò chiedere.

    «Non è ben chiara, in realtà. Leggete voi stesso…», rispose Urbano, offrendogli la missiva.

    Athanasius la afferrò con foga, quasi strappandogliela di mano. Subito si rese conto della propria irriverenza e chinò il capo in segno di umiltà.

    Ma il pontefice non sembrò farci troppo caso. Pareva anche lui avere fretta di soddisfare la propria curiosità.

    Il gesuita lesse avidamente le poche righe contenute nel messaggio, assai più laconico di quanto credesse.

    Santità,

    in questi tempi di profonda lacerazione della Cristianità, in cui la parola di Cristo viene più che mai vilipesa e storpiata dagli eretici e dai musulmani, sento il dovere di dare il mio contributo per aiutarvi a sconfiggere tutti i nemici di Nostro Signore. Da cristiano copto in terra islamica, ho svolto con coscienza il mio ruolo di custode della stele su cui la stirpe di Adamo incise la sapienza donatagli da Dio, condividendolo con i miei

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