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Sfide a Lambrate
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E-book339 pagine5 ore

Sfide a Lambrate

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Info su questo ebook

Nella periferia est di Milano, alla fine dello scorso millennio, s'affrontano due ventenni per conquistare una ragazza. Un giovane pensatore contro un teppista dalle frequentazioni microdelinquenziali. L'opera è uno spaccato di vita cittadina in cui dei giovani cercano, ciascuno in maniera originale, d'affermarsi o perlomeno di far valere le proprie ragioni. Colui che riesce a conquistare la bella fanciulla è quello dei due che sa aspettare la corresponsione dei sentimenti.
LinguaItaliano
Data di uscita28 gen 2020
ISBN9788835363866
Sfide a Lambrate

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    Anteprima del libro

    Sfide a Lambrate - Andrea Zuccolin

    difficoltà

    Martedì - Incontri e scontro

    I

    Era un altro giorno. Davanti aveva all’incirca sessantacinque anni di vita considerando con ottimismo l’aspettativa della durata di vita media per un essere maschile. Quando pensava gli anni a venire immaginava una strada, meglio un boulevard di cui non distingueva altro che il punto di convergenza dei bordi della carreggiata. Punto che indicava l’infinito e c’era da vivere alla giornata.

    S’era alzato alle sette di mattina e già pensava come avrebbe passato il tempo fino alla sera. Da sei mesi era così, cioè da quando l’avevano lasciato a casa dal lavoro. Cosa che per lui era stata un sollievo. Una mansione d’archivista per una nota società d’assicurazioni. Roba da uscire alle diciannove, avendo spesso dieci ore di sgobbo, con la voglia di pigliare a calci la guardia dell’azienda sempre con gli avambracci incrociati dietro la schiena. Incasellava fogli su fogli, registrandoli anche sul database aziendale. Mandava dentro di sé accidenti a tutti.

    In casa sua era scoppiato un dramma quando non lo avevano riconfermato al lavoro. Sopportò per un paio di sere le sfuriate casalinghe; i sensi di colpa gli fecero indolenzire un po’ le ossa. Poi, lenta ma non troppo, arrivò l’abulia del disoccupato. Vi s’abituò e anzi la trasformò in uno spirito d’attesa. Aveva imparato ad attendere a scuola e in quel lavoro, in una stanza polverosa, rinchiuso con la compagnia di un computer dentro cui sbattere, digitando, numeri su numeri e nomi su nomi.

    L’istinto gli disse che doveva alzarsi. Anche per un dovere morale verso i genitori e la sorella che erano usciti di buon’ora per recarsi al lavoro.

    Così s’alzò con un balzo, come per dare a se stesso il contegno di persona attiva. Ma non poteva durare a lungo: cosa avrebbe fatto nella mattinata? Già, perché non era uno di quei sognatori a tutti i costi, i quali prendono la tangente delle fantasie che portano lontano la mente dal presente e si ritrovano in posti impensabili, anche sotto casa, a chiacchierare con altri solitari e disadattati.

    O meglio, avrebbe potuto prenderla questa tangente se fosse vissuto in un eremo o in un’epoca storica con poche distrazioni e i tempi rallentati. Si sarebbe potuto allora scardinare dal presente nel nome di un ideale in cui credere con corpo e anima ed eventualmente soccombere per esso.

    Mentre s’ispezionava allo specchio per cercare d’intendere con quale umore avrebbe affrontato la giornata gli venne da pensare che avrebbe voluto vivere in un altro secolo: nel Cinquecento, per esempio, quando era già stata inventata la stampa da una settantina d’anni e, nonostante il mondo cristiano fosse tremendamente bigotto e perciò con un -Embeh!?- detto davanti a un seminarista d’origine ispanica s’andasse a finire arrosto nella piazza principale del paese, si cominciava a ragionare seriamente in termini umani e concretamente di fede, non assolutistici, sulle virtù terrene e la caducità del creato la cui resurrezione a tutto tondo è di una difficoltà immane … Anche nel Settecento e nell’Ottocento bisognava stare attenti a come si parlava in giro, pure se le pire per i filosofi controcorrente erano passate di moda. In realtà lui era nato alla fine del Novecento: il secolo in cui avevano spopolato alla grande predicatori e dittatori , promettenti albe di benessere e felicità giornaliere consumistiche. Però era il secolo nel quale tanti singoli s’erano emancipati da forme di lavoro e private, a dir poco, frustranti.

    Prendendo lo spazzolino da denti con la lentezza di colui che vuole dilatare il tempo il più possibile per un misto d’indolenza cedente nella fantasticheria e pura pigrizia casalinga, Ivan fece un rapido excursus fantastico nell’Ottocento: s’immaginava di vivere in Russia dove i cambiamenti sociali avevano impensierito zar e boiardi mentre rivoluzionari assetati di progresso e giustizia rischiavano la pelle per la loro propaganda antizarista e antinobiliare. Lui avrebbe fatto la sua parte per il progresso delle genti.

    Ma a fine millennio, l’unica rivoluzione in atto era quella tecnologica con lo scopo di comunicare più velocemente e dove l’errore umano stava vicino allo zero. Era una rivoluzione che gli interessava? Non la considerava una rivoluzione. Il mondo digitale era interessante solo per la praticità.

    Finì di pulirsi i denti e si guardò allo specchio cercando di mettersi in posa sorridente. La gioventù non può attendere, deve, ha l’obbligo d’agire per un mondo migliore disse a se stesso. Ma agire verso quale direzione? Più che dilemma era un mistero.

    Si vestì e uscì di casa. La madre all’ortomercato, il padre in cantiere e la sorella in ufficio erano già attivi nei rispettivi luoghi di lavoro. Prese l’ascensore invece di scendere le scale. Abitava al sesto piano e stette in attesa che l’attrezzo, grazie alle corde attaccate all’ argano e a qualche altro strumento elettromeccanico in una cabina sotto al tetto, salisse dal piano terra. Che grande invenzione l’ ascensore! Soprattutto se funzionante! Con un telefono o un frullatore guasti uno poteva scendere e telefonare da una cabina appunto telefonica o cambiare menù, ma con un ascensore rotto c’erano poche storie: si doveva fare le scale e finchè si trattava di scendere o il soggetto si trovava nel fiore della gioventù non c’erano sbuffi indolenti. Saliva inesorabile e Ivan ne cercò la sagoma avvicinarsi appoggiando la fronte e schiacciando il naso contro il vetro della porta d’accesso del piano dove abitava.

    Montò nella cabina, schiacciò il pulsante T e aspettò che il mezzo facesse la corsa al contrario, in discesa.

    Quanto era lento! Al secondo piano Ivan ebbe un moto d’impazienza. Caspita, le discese non potevano essere più veloci? Quella era una velocità costante così monotona. Al piano terra disse a se stesso che per un bel pezzo non avrebbe più preso l’ascensore per scendere.

    Erano due o tre negozianti quelli che avrebbe potuto incontrato nella mattinata: se non fosse entrato nei loro negozi la giornata loro sarebbe stata peggiore della sua: nei loro cassetti non sarebbero entrate le lire di una o più consumazione o di una spesa e costoro avevano dei costi vivi mica da ridere. Riflettè che aveva preso un abbrivio di pensieri poco incoraggianti, perciò s’incamminò verso il panificio per acquistare un cornetto alla crema.

    - Buongiorno Ivan, la solita brioche alla crema? -

    - Buongiorno Marco, la solita brioche. -

    - Dai, facciamo la solita abbondante farcitura. –

    - Se ti va… Non disdegno lo sai… La solita abbondante farcitura. –

    - Tutti bene a casa? –

    - Tutti bene come… ieri –

    - E come domani speriamo, no? –

    - Sì, esattamente –

    - Trovato niente di lavoro? –

    Ivan non rispose e fece vagare lo sguardo sugli scompartimenti del banco di vendita in vetro ciascuno colmo di caramelle di diverse consistenze, forme e colori. Il panettiere lo fissò per un paio di secondi perplesso e quindi se ne andò nel retrobottega a riempire la brioche del giovane che voltò le spalle e gettò lo sguardo attraverso la vetrina verso la strada.

    Il panettiere avrebbe impiegato dieci secondi circa a riempire il cornetto di crema tenuta in frigorifero. Aspettò pazientemente: era meno noioso aspettare in un negozio piuttosto che al piano l’ascensore. Sul marciapiede passava una donna sulla cinquantina dalla camminata bersagliera. Aveva l’aspetto e l’andatura della massaia che ci stava dando dentro con le pulizie primaverili. Era un’energica donna che teneva nella mano sinistra due sporte di materiale plastico da riciclare. Camminava come una gareggiante di lotta libera con le braccia ondeggianti lungo il busto leggermente proteso in avanti, mentre dai motorini posteriori, cioè i polpacci, le provenivano spinte forzute a beneficio del resto del corpo.

    L’attesa del cornetto alla crema terminò con il sorriso da bottegaio navigato del panettiere. Ivan storse le labbra verso sinistra concependo il proprio sorriso come una smorfia di blando apprezzamento. Il negoziante, che era un buon psicologo degli atteggiamenti spiccioli dei suoi clienti quanto aveva un bovino disinteresse per le difficoltà dei suoi simili se dotati di borsellini vuoti di monete, fece allora un sorrisino di compassione in procinto di declinare nell’ irritazione.

    Fuori dalla bottega Ivan addentò subito il cornetto e s’incamminò verso il parco vicino alle scuole medie inferiori della zona.

    Primavera: che stupenda stagione! A marzo la natura s’era risvegliata, ad aprile s’era rinforzata e a maggio era esplosa. Fino a ieri, piogge e venti s’erano alternati con giornate soleggiate e gonfie di metano con temperature sostanzialmente sopportabili. Ma quella mattina si capiva che il caldo umido padano l’avrebbe fatta da padrone e allora le anime nervose si sarebbero agitate e quelle malinconiche si sarebbero infiacchite. Ivan era nervoso. Eppure quando l’impazienza dei vent’anni pareva prendere il soppravvento e allora la testa d’Ivan si scuoteva per un nonnulla , ecco che un fascio di luce tra le foglie colme di verde vita o il bordo dorato di una nube bianca lo rincuoravano e lui pigliava la sua situazione con pacatezza.

    Aveva inviato decine e decine di richieste d’assunzione: in tutte aveva scritto che la propria carriera scolastica era stata lineare e finalizzata all’ottenimento di un diploma economico linguistico; come descrivere gli anni turbolenti al liceo in contrasto con l’intero corpo docente?

    Faceva colloqui su colloqui per trovare un lavoro, ma non convinceva evidentemente. All’ultimo colloquio presieduto da un tizio dall’espressione militaresca e tendente al disprezzo del candidato, tra una risposta e l’altra gli affiorarono in gola delle maledizioni. Per frenarsi, le labbra gli erano diventate affilate e dure e la fronte gli s’aggrottò.

    -Lei non è appassionato di tecnologia digitale? – era la terza volta che glielo domandava questo esaminatore da caserma di paese in guerra.

    -Proprio così- seccamente e dissimulando più che poteva impazienza aveva risposto Ivan.

    -Cosa le piace fare nella vita?-

    -Occupo il mio tempo con letture di cui lì ho scritto e faccio footing al parco vicino a dove abito–

    - Esperienze all’estero?– Pareva un poliziotto che cercava notizie indagatrici per il rilascio di un passaporto. Soltanto che questo milite travestito da borghese non gli avrebbe dato un bel fico secco. Aveva già deciso che Ivan non andava bene; cosa gliene importava a quel tipo dei suoi viaggi internazionali? Doveva pedissequamente finire la lista di domande.

    - Come no? Uganda, che esperienza! … – Diamine, gli era uscita questa battuta! Il militare in giacca e cravatta lo guardò storto – In Uganda è stato!!? –

    -Sto scherzando – Ivan era così: buttava delle battute surreali o irreali in situazioni dialogiche senza sbocchi intelligenti per alcuno.

    - Ah. Lei ha spesso voglia di scherzare? – gli aveva chiesto schernendolo l’esaminatore.

    - Ogni tanto- simulò un atteggiamento dimesso Ivan, mentre avrebbe voluto mandare al diavolo quel tipo.

    - Bene, bene. Lei ha voglia di scherzare. – disse acre quel tizio ingessato il quale con tutta probabilità aveva altrettanta voglia di mandarlo al diavolo.

    - A volte! – e simulò ancora una generica dimissione. Ivan rideva tra sé e sé. Per fortuna il tizio era stato chiamato al cellulare da un suo superiore e la conversazione era terminata con un superveloce saluto. Quella chiamata li aveva salvati entrambi. Gli aveva dato l’impressione, quell’abile analizzatore della psiche, d’essere un provocatore stordito. Selezionatori come certi professori: carcerieri della disciplina praticata e insegnata.

    Cominciava ad alzarsi la temperatura mica male quel martedì: il calore scaldava senza renitenze tutto ciò che non era in ombra.

    Da Pasqua passava indolente la prima parte della mattinata seduto su una panchina qualsiasi del parco. Si sentiva studente ancora, ma senza scuola. Aveva addosso l’argento vivo, ma non sapeva da dove iniziare per cominciare a sfruttarlo.

    Ivan non era un introverso e nemmeno un estroverso. Nelle situazioni si doveva trovare a proprio agio e quando non era così preferiva togliersi di torno; ma solo lui poteva capire quando stava bene, non gli altri per i quali magari quel quando era tutto rose e fiori.

    Ivan si nutriva di fantasie, talora puerili, per colorare le giornate e d’altra parte faceva considerazioni filosofiche sul mondo che rivelavano una sete di conoscenza non comune. Tra un colloquio di lavoro e un altro divorava libri e ascoltava musica. Non poche volte era preda di smanie e per le strade cercava di capire i caratteri delle persone, conosciute o estranee non faceva differenza, scrutandole senza darlo a vedere.

    Dal parco s’incamminò verso l’oratorio della parrocchia. Distava non più di quattrocento metri. Ci andò automaticamente; le gambe andavano da sole. Ci andava perché in un recesso della propria memoria, neanche troppo nascosto, quel giorno l’oratorio era un luogo dove potevano avvenire incontri di qualche interesse se non di svago.

    Camminava ciondolando la testa; sicuramente non era un’andatura virile.

    In uno dei due bar antistanti l’oratorio parrocchiale erano seduti su tre moto di media cilindrata tre facce dalla socievolezza strafottente, cioè di gente abituata a convivere con la violenza e di ciò farsene un vanto. Erano giovani sui vent’anni come Ivan. Quello che poteva essere definito il capobanda, tale Pietro, era di complessione fisica poco più robusta d’Ivan, però il malanimo che portava dentro gli faceva scattare i muscoli e i nervi come se avesse avuto delle molle compresse alle articolazioni. Fin da bambino era noto per la particolare cattiveria che metteva nelle piccole risse infantili tanto, che più d’un genitore s’era trovato il proprio figlio con ematomi e o ecchimosi procurati dal piccolo gentiluomo. Ci mancava poco che una volta non pigliasse a botte un ragazzino dentro alla chiesa per una questione di priorità sull’uso di uno dei campetti da football della parrocchia. Soltanto l’avvedutezza di un educatore più grande di una decina d’anni di lui bloccò il pestaggio. Il ragazzo, Pietro di nome e Ratti di cognome, ebbe una predica di un buon quarto d’ora nell’ufficio del parroco e per sopraggiunta ebbe due sonori ceffoni dal padre, frequentatore della comunità parrocchiale non tanto per spirito di servizio cristiano quanto per volontà più o meno consapevole d’appartenenza appunto a una comunità. Se lì ci fosse stata la sede della bocciofila nazionale o la congregazione degli acquaioli leghisti della Pianura Padana il signor Ratti ci avrebbe messo lo stesso identico impegno. Quando Pietro vide Ivan sull’altro marciapiede camminare assorto e dinoccolato gli venne voglia d’andare a importunarlo. Così tanto per passare il tempo, altrimenti vuoto di propositi per non parlare delle idee.

    -Guardate quello scemo là! – disse a Paolino, altra teppa forse ancora più conosciuta di Pietro nella zona nonché ladruncolo impunito, e a Saverio, giovinastro con poco sale in zucca e sempre pronto a salire sul carro del delinquentello più esuberante.

    -Ma quello è quel cretino che faceva domande strane ai preti a scuola e nei pomeriggi estivi quando c’era troppo caldo per giocare a pallone! – precisò Saverio.

    -Io ricordo soltanto che da bambino era un cagaca … - brutalmente Pietro Ratti definì Ivan .

    -Chissà se ha addosso un cellulare?- ridacchiò Paolino pensando già all’estorsione.

    -Aspettiamolo. Uscirà al massimo tra un’ora il pollo. Vedrete – definì Pietro.

    Ivan entrò nel sagrato della chiesa senza aver notato i tre tipacci. C’era il parroco, Don Luigi Barra che parlava con un vecchio che muoveva la mano destra come per dare maggiore forza alle parole. Ivan avrebbe voluto ascoltare pure lui quel che aveva da dire l’anziano. Erano solo loro tre; uno più timido di lui avrebbe alzato i tacchi e sarebbe ripassato più tardi. Ma lui rimase lì, seppure interdetto sul da farsi.

    Don Luigi non potè non notarlo e gli fece un mezzo sorriso sia per salutarlo che per invitarlo a rimanere aspettando qualche minuto la fine di quella conversazione. Ivan assentì scuotendo la testa come per dire sì.

    Ecco i due accomiatarsi con sorrisi e reciproci colpetti sugli avambracci. Forse il prete aveva un sorriso stampato un po’ stereotipato, comunque fosse il vecchio fedele ne riceveva una sensazione d’allegra gioia. Nel piazzale senza alberi era desiderabile avere dell’ombra. Che resistenza avevano i preti a stare sotto il solleone vestiti tutti di nero! Ora, il parroco, Don Luigi Barra d’origini laziali e più precisamente dell’ex-Littoria da padre campano e madre veneta, dell’ Ordine dei Rosminiani, era un sacerdote profondamente convinto della convergenza tra cristianesimo e società civile, nel senso che oltre alle preghiere per dare un certo corso agli eventi bisognava agire, talora sbagliando empiricamente la misura, affinchè la società appunto tendesse alla perfezione in senso cristiano. Le sue prediche avevano, in certe domeniche, lo spirito di denuncia da diocesano prete di strada e di quartiere e il fervore di un agostiniano o francescano ortodosso.

    -Buongiorno padre- salutò per primo Ivan.

    -Buongiorno a te, Ivan. Come sta il contestatore della parrocchia?-

    - Non male direi, padre. Sì, ci saranno dubbi e incertezze, però alla fine della giornata sento d’essere in pace con me stesso. E non è poco a Milano, dove vige il detto, non lo chiamerei proverbio in quanto non trovo della saggezza, Chi si ferma è perduto.-

    - Bene, sono contento per te. Vuoi fare due chiacchiere con me per l’oratorio o sei passato solamente per un saluto veloce? –

    - Mi va bene di chiacchierare con lei, Don. Passeggiamo che è meglio. –

    Il prete non era propriamente entusiasta per la passeggiata; erano circa le undici della mattina e il sole scottava maledettamente. Era una dura prova mandata dal Padreterno e, diamine, chissà se il caldo avrebbe continuato così per tutta l’estate!? Ma il ragazzo aveva bisogno di comunicare e lui per che cosa soprattutto aveva accettato la missione altrimenti che per porgere l’udito al prossimo visto che miracoli non era capace di farne?

    - Allora giovanotto, cosa mi racconti? –

    -Cosa le posso raccontare, Don? –

    - Sei un giovane intelligente e uno o più argomenti interessanti li avrai nel tuo carniere, ne sono sicuro.-

    Intimamente il prete sperava che il dialogo non fosse troppo impegnativo e soprattutto lungo. Decise che da quel pomeriggio avrebbe indossato il clergy.

    -Non trovo lavoro, padre. Avrei voglia di mandare tutto e tutti a quel paese e filare via. –

    -Il lavoro, il lavoro… Io non ne ho da offrirti e ciò che posso fare per te è dirti due parole sulla tua persona. Accettale con beneficio d’inventario, perché anch’io posso dire inesattezze. Dovresti mostrarti più accondiscendente e meno dubbioso; in qualsiasi comunità che abbia degli utili d’impresa come fine c’è bisogno di accondiscendenti che ascoltino e operino e i dubbiosi che espongano rari dubbi pertinenti sul da farsi. –

    - Do l’immagine d’essere un dubbioso, vero padre? Le dico che ha ragione, ma è pure vero che oggi come oggi devi avere lo stile giusto per un posto di lavoro. -

    - Ivan, questo è un giudizio approssimativo che ho su di te come su altri giovani a cui voglio un bene dell’anima. Cerca ancora e troverai. Bussate e vi sarà aperto. -

    - Lei è confortante padre. Però, e parlo per esperienza diretta, se sei un giovane che non ha fatto un percorso più che eccellente godi di poca considerazione. Ma sì, alla fine m’adatterò a fare un lavoro come tanti, senza infamia e senza lode. -

    - Non buttarti giù, Ivan. Togliti dalla testa lo stile e il percorso. Hai vent’anni mica cinquanta. Ma non voglio essere per te uno che banalmente sprona. Raccontami su quali fondamenta presumi che tu possa godere di ben diversa considerazione da quella che hanno i tuoi coetanei, che hanno altri stili -

    - Mi ha messo nell’angolo, padre – Ivan abbassò lo sguardo sui propri passi. Era anche il sole che faceva tenere chine le teste con la sua vampa sempre più bruciante. Da Don Luigi provenne un suono di chiamata di cellulare. Il prete diede una scorsa al piccolo schermo dell’aggeggio e pigiò un tasto rosso. La suoneria smise. Quindi mise una mano sulla spalla a Ivan e gli diede una scrollata. Ivan alzò lo sguardo meditabondo. Si stavano dirigendo verso il confine con il terrapieno della ferrovia sul quale stava transitando lentamente un treno merci. C’erano tre panchine all’ombra di alcune viti americane che formavano un pergolato su dei fili di ferro tesi tra dei bastoni piantati in alcune aiuole e appunto il terrapieno della ferrovia.

    A Ivan sembrava che a ogni passo verso l’ombra di guadagnare una meta importante. Il prete lo guardava di sottecchi.

    - S’annuncia una giornata afosa. – interruppe il silenzio Don Luigi - So che mi racconterai qualcosa su cui ci sarà da discutere argutamente e a me piacciono le arguzie – disse Don Luigi con un tono di voce il più convinto possibile.

    -Mi sembra di doverle raccontare per forza qualcosa d’originale. – ribattè Ivan senza voltarsi verso l’altro.

    -Ma no! Raccontami quello che vuoi! Gli originali a tutti i costi fanno dei grandi buchi … nell’acqua! –

    Sorrise Ivan e non sapeva bene il perché. Più tardi arrivò alla conclusione che tanti voli pindarici giovanili e o presunti originali erano esternazioni che volevano stupire e che spesso non avevano alcuna energia per volare per lungo tempo.

    Sedettero su di una panca di marmo. Don Luigi aspettava che Ivan attaccasse a parlare.

    - Chissà quanto durerà la Chiesa cattolica romana?- disse Ivan tutto d’un fiato contraendo le mascelle, consapevole d’aver posto un quesito potenzialmente offensivo.

    -Un millennio ancora? Tre millenni? - disse serafico Don Luigi mettendosi sullo stesso piano del giovane con la sua domanda provocatoria. Ivan rimase spiazzato dalla controdomanda. Questa volta guardò lui di sottecchi l’altro e il prete sorrise. Aspettava costui la continuazione o meglio un’altra bordata del giovane. Arrivò l’avviso d’un messaggio al cellulare del sacerdote. – Vediamo chi è e cosa vuole. – disse costui in tono neutro. Che callo doveva avere alla cosiddetta coscienza a causa dei malanni altrui! Digitò un breve sms di risposta e poi – Hai qualche altra domanda? Non ce l’hai e allora raccontami il tuo stile di cui parlavi prima, dai. –

    Il Vangelo gli aveva impartito la lezione d’ascoltare attentamente innanzitutto e poi dare consigli. Agire al contrario di questa prassi era da pretonzolo con meningi poco oliate. Non lo dichiarò a Ivan, ma ancora una volta pensò che la gioventù di fine millennio la sapeva lunga o perlomeno aveva gli strumenti per essere consapevole di tantissime cose, ma andava incoraggiata.

    - Mi viene da pigliare in giro le persone quando mi trovo in cattive acque. Non riesco a starmene zitto. E così mi frego nei colloqui per avere un lavoro. –

    -E’ un bel problema. Semplicemente ti dico di frenare la lingua. Scusa Ivan, ti dispiacerebbe venire là in fondo verso quel muro? Devo controllare il funzionamento d’un rubinetto. -

    Aveva Ivan un passo scostante : a volte camminava svelto come se stesse marciando, altre volte un piede avanzava lentissimamente dopo l’altro. S’adeguò al regolare passo costante di Don Luigi.

    Arrivati al muro che divideva i campi sportivi dell’oratorio dal cortile del condominio confinante i due sedettero su un’altra panchina all’ombra. Ivan avrebbe voluto continuare a camminare. Avrebbe voluto fare una lunga camminata discorrendo con il sacerdote. Ma sapeva di non avere alcun diritto di coinvolgere il sacerdote nel suo vagabondaggio fisico e spirituale. L’avrebbe magari distolto da cose impellenti di ben altra gravità.

    Questa panchina stava all’ombra sotto a un tetto di campanule viola intenso. Erano tenute a due metri e mezzo d’altezza da una rete di legno lunga quasi quanto il muro di cinta, perpendicolare a quello divisorio dalla massicciata ferroviaria, e profonda tanto da mettere in ombra provvidamente gambe e piedi distesi in avanti di un uomo di media statura, seduto comodamente sulla panca.

    Ivan non guardava il sacerdote, ma la punta delle proprie scarpe. C’era un silenzio d’attesa tra i due. L’aria era sempre più afosa – La cosa più logica sarebbe che io le chieda se conosce qualcuno che mi trova un posto di lavoro. –

    -Devo essere sincero, Ivan, non mi viene in mente nessuno. Dovrei fare delle indagini e capire se c’è qualche parrocchiano che ti può dare una mano. –

    -Ma no Don, che dare una mano! –

    -Scusami, hai ragione Ivan. Il lavoro non è un aiuto e nemmeno un rendersi utili. E’ una serie di prestazioni determinate per ricavare dei frutti per sé e per gli altri. –

    -Dicono che il lavoro nobiliti l’uomo e addirittura qualcuno ha scritto che rende liberi – a Ivan venne da ridere, ma ridivenne subito serio – Io dico soltanto che consente di vivere. La nobiltà e la libertà sono chiacchiere interessate. Vive bene chi lavora bene e vive male chi lavora male. Il punto di complicata interpretazione sta nello stabilire se vivono bene o male coloro che non lavorano o che possono permettersi di non lavorare. –

    Don Luigi rimase senza parole. Riflettè che avrebbe riflettuto sulle asserzioni d’Ivan. Mica semplice tirare fuori argomenti asseverativi sul lavoro in quattro e quattr’otto. Al prete venne solo da precisare – Beh, chi cerca lavoro e non lo trova non credo che viva bene … Cosa ne dici, Ivan ? –

    -Sì, sì, lo so – Ivan alzò impetuosamente il dorso dallo schienale della panchina in un moto di stizza. Dirottò impulsivamente il discorso su di un altro argomento - Don, perché la chiesa non cambia?

    Don Luigi rimase sconcertato – Come, come!? Cosa c’entra adesso la chiesa con il lavoro!? Che salto stiamo facendo, giovane!? – Era allibito il Don.

    -Lasciamo stare, Don, lasciamo stare. Sarà il primo caldo. –

    Ma Don Luigi aveva ormai sentito e ascoltato quanto detto da Ivan. Il giovane aveva visioni del mondo negative.

    -E’ vero, è come dici tu Ivan. Delle cose potrebbero essere cambiate. La Chiesa ha sbagliato parecchio in passato e qualche disgraziato canonico o prelato ha mercanteggiato sul perdono, sui divorzi e su appoggi a losche organizzazioni- rispose serafico don Luigi. Ed ecco l’avviso di un altro sms sul cellulare del prete. Era qualcuno che chiedeva perdono? Per tutti e due era meglio non affondare in altri colpi verbali.

    Ivan lo guardò e sorrise un po’ incredulo – Sul serio mi da ragione, Don? –

    -Sì, ti do ragione se penso a quante iniquità sono successe nel passato a causa delle tante pecore nere. Ma ci sono altrettante pecore che hanno mantenuto la propria integrità. –

    -E se ne sono state zitte quando vedevano o udivano delle iniquità.-

    - Non sempre.-

    No, il colloquio stava prendendo una china erta e piena di insidie. Se ne accorsero entrambi. Era meglio tornarsene a

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