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Il cappotto e Il naso
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E-book125 pagine1 ora

Il cappotto e Il naso

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Edizioni integrali
Premessa di Filippo La Porta

Gioielli del realismo grottesco di Gogol’, questi racconti sono tra i più significativi esiti della sua fantasia figurativa smisurata e della sua visione surrealista del mondo.
Nel gelo di Pietroburgo, una città livida e ostile, è ambientato Il cappotto: è la triste vicenda di un impiegato mite e remissivo, deriso dai colleghi, eternamente sottomesso, che viene derubato del cappotto, comperato dopo spaventosi sacrifici. L’indifferenza e l’egoismo degli altri lo finiranno, ma imprevedibile sarà la vendetta studiata dall’autore. Ne Il naso, spesso ritenuto un puro divertissement, l’incredibile avventura dell’assessore collegiale Kovalëv, che si sveglia un bel mattino senza naso, offre all’autore l’opportunità di muoversi liberamente tra le infinite possibilità dell’immaginazione comica. Chiude il volume il racconto Il calesse, che prende l’avvio da una festa nella piccola cittadina di B.
Nikolaj Vasil’evič Gogol'
Nikolaj Vasil’evič Gogol’ nacque a Soročincy, nel governatorato di Poltava, in Ucraina, nel 1809. Nel 1828 si trasferì a Pietroburgo, entrando presto nell’ambiente letterario. Nominato nel 1834 professore di storia all’Università, si dimise dall’incarico l’anno successivo. Nel 1836 lasciò la Russia e cominciò a peregrinare per l’Europa; fu a Parigi e a Roma. Scrisse racconti, novelle, saggi critici e drammi teatrali. Morì a Mosca nel 1852.
LinguaItaliano
Data di uscita31 lug 2014
ISBN9788854173026
Il cappotto e Il naso

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Il cappotto e Il naso - Nikolaj Vasil'evič Gogol'

514

Titoli originali: Sinel’, Nos, Koljaska

Traduzioni di Leone Pacini Savoj

Prima edizione ebook: settembre 2014

© 2001 Newton & Compton editori s.r.l.

© 2008, 2012, 2014 Newton Compton editori s.r.l.

Roma, Casella postale 6214

ISBN 978-88-541-7302-6

www.newtoncompton.com

Edizione elettronica realizzata da Gag srl

Nikolaj V. Gogol’

Il cappotto e Il naso

e Il calesse

A cura di Leone Pacini Savoj

Premessa di Filippo La Porta

Edizioni integrali

Newton Compton editori

Premessa

Diciamolo subito: da Gogol’ discendono coerentemente Kafka e Paolo Villaggio (che ne è stato fedele lettore). La sua rappresentazione satirico-grottesca della burocrazia si proietta nelle pagine claustrofobiche del Castello, mentre i suoi impiegati – sfigatissimi, perdenti, frustrati – trapassano naturalmente in Fantozzi e Fracchia (oltre all’uso insistito dell’iperbole). E certamente nei suoi racconti si trattiene anche qualcosa della novella classica, della novella toscana che pur non cancellando la tragedia inclina al riso e alla beffa. Ma sopratutto l’opera di Gogol’ sembra fatta apposta per spiazzare le nostre categorie critiche. Da una parte il critico ottocentesco Belinskij, cui successivamente si ispirò il realismo socialista, lo considerava il «poeta della vita reale», un autore realista ante litteram che proprio per l’uso di una lingua spesso vernacolare, estranea a ogni squisitezza letteraria, scandalizzò i suoi contemporanei. Dall’altra lo scrittore russo può essere imparentato legittimamente con un successivo filone di realismo magico tutto novecentesco e impastato di psicanalisi, poiché ha dilatato il concetto di realtà fino a dissolverlo in una surrealtà che sconfina nel mentale e nell’onirico: basti pensare al naso che sparisce dal viso e se ne va a passeggiare per strada. Freud ci ha mostrato il carattere insondabile, insieme reale e fantasmatico, della realtà psichica, la quale non coincide necessariamente con la realtà fattuale. Ad esempio nella Introduzione alla psicoanalisi osserva che una scena infantile che non è mai avvenuta, che è stata solo immaginata può avere effetti patogeni al pari di un evento reale. Inoltre Gogol’ è stato anche oggetto di finissime analisi da parte della critica formalista. Ejchenbaum in un suo celebre commento al Cappotto, del 1919, ha sottolineato la secondarietà della trama rispetto al procedimento letterario (ruolo protagonista dell’autore stesso, prossimità di lessico e sintassi alla narrazione orale, etc.), osservando tra l’altro che «nella memoria, rimane più di tutto l’impressione d’un certo ordine fonico, che si conclude con quell’emorroidale rimbombante e quasi, dal punto di vista logico, insensato, ma per questo insolitamente forte, per la sua espressività». Pur non conoscendo la lingua russa e non potendo dunque apprezzare appieno il ritmo e i valori fonici della prosa di Gogol’, perfino nella traduzione italiana possiamo percepirne la vivacità ed iper-espressività.

Nel Ritratto incontriamo a un certo punto una dichiarazione involontaria di poetica in bocca al padre dell’io narrante, quel pittore che dipinse senza saperlo il diavolo stesso: non vi è soggetto troppo umile in natura. Nelle piccole cose l’artista-creatore è grande come nelle cose grandi; nelle spregevoli in lui non c’è nulla di spregevole... «poiché sono passate attraverso il filtro di quell’anima». Nei suoi racconti Gogol’ ritrae gli aspetti più spregevoli, misteriosi, inquietanti del reale, ma non ne resta prigioniero perché li trasforma in conoscenza, li filtra attraverso uno stile personalissimo, dotato di una accesa visività. Al cinema il Cappotto venne realizzato, tra gli altri, da Lattuada nel 1952 con ambientazione pavese e un memorabile Rascel, e il risultato fu un originale equilibrio tra neorealismo ormai declinante e umori surreali alla Zavattini (uno degli sceneggiatori). Ma oggi chi potrebbe portare Gogol’ sullo schermo? Forse i fratelli Coen. Va bene, l’ucraino Gogol’ in Taras Bulba dipinge gli ebrei in modo non benevolo (vendono acquavite ai polacchi) alimentando uno stereotipo razzista e dunque sembrerebbe distante dal mondo yiddish caro ai Coen. Eppure un film come A serious man, mescolando i demoni del folklore con la vita ordinaria e una ostinata interrogazione sul mistero del male, mi sembra permeato di spirito gogoliano. A loro un remake del Cappotto!

Non sempre, naturalmente, Gogol’ è all’altezza di Gogol’. Condividendo il giudizio assai limitativo che Tommaso Landolfi, pur estimatore di Gogol’, ha dato del frammento Roma, interessante solo per certe parti saggistiche, mi piace però citarlo a proposito della irresistibile pagina satirica sui parigini (ci vuole un russo per smascherare la grandeur e vanità brillante dei francesi, come in seguito Tolstoj con Napoleone!). Sentite, sembra che stia parlando degli ultimi decenni di vita culturale parigina: «In quell’incessante ribollire di attività scorgeva una paurosa inazione, un pauroso regno di parole e non di fatti. Vedeva come ogni francese sembrava lavorare solo nella sua testa infiammata; come la lettura delle riviste e dei giornali consumasse la giornata e non lasciasse un’ora per la vita reale».

Ma Gogol’, che riproduce perfettamente il ritmo peculiare del racconto, ha pure una attitudine all’affresco, alla sintesi di un’epoca, e in particolare troviamo in lui, qualche decennio prima di Baudelaire, una vocazione a cogliere l’essenza della metropoli moderna, il brulichio della folla solitaria e lo scintillio delle sue strade illuminate. E, se consideriamo che i suoi primi racconti – Le veglie ad una fattoria presso Dikan’ka – sono invece ambientati nei villaggi e nelle campagne, tra contadini e leggende popolari (sembrano le storie di viaggiatori incantati alla Leskov, mercanti, nomadi, cosacchi...), abbiamo una idea anche della estrema varietà tematica nell’opera gogoliana. A proposito di metropoli vorrei segnalare l’inizio del Diario di un pazzo, lì dove vediamo gli impiegati che sotto una pioggerella fitta al posto di andare al ministero si mettono a seguire le donne con il cappellino. O sul Corso Neva, nel racconto omonimo, all’ora del tramonto si incontrano «nella luce irreale e fascinosa» dei fanali una infinità di scapoli con i pastrani pesanti: «a quell’ora avverti nell’aria un certo scopo, o meglio, qualcosa che somiglia a uno scopo... i giovani archivisti ministeriali passeggiano a lungo ma i vecchi archivisti ministeriali restano a casa perché è gente ammogliata...» (chissà che la descrizione di Antonio Pascale dello struscio a Caserta, nel reportage Una città distratta, non sia stata ispirata da questa pagina?). O, come esempio di grandiosa pittura collettiva, l’arrivo di seminaristi e scolari al seminario del Monastero della Confraternita (in Mirgorod) con i quaderni sotto l’ascella al mattino presto: i grammatici che si urtano tra loro, con le tasche piene di porcherie e pasticcini morsicati, i retori più contegnosi ma con anomalie del viso («al posto della labbra un’intera vescica...»), i filosofi intonati nella voce «un’ottava sotto» e con un fortissimo sentore di pipa... Ma è la descrizione di Pietroburgo nel Cappotto a contenere una spettacolare epopea del ceto impiegatizio: quando si fa sera «tutto il mondo degli impiegati ha ormai pranzato, e ciascuno come può, secondo il proprio stipendio e le proprie voglie, si è nutrito» e così «gli impiegati si affrettano a consacrare al piacere il tempo che ancor resta – chi, più in gamba, se ne va a teatro, chi a passeggio, dedicando quel tempo a sbirciar cappellini... chi, a una serata, a perderlo in complimenti rivolti a qualche ragazza appetitosa...», etc. etc.

Si potrebbe osservare che i due grandi maestri del racconto moderno, Maupassant e Cechov, devono entrambi qualcosa a Gogol’, alla sua penetrazione psicologica, allo sguardo anti-convenzionale e sempre spiazzante sulle cose, allo smascheramento delle più sottili dinamiche nelle relazioni interpersonali e di potere. Ma vorrei fare una considerazione più generale – diciamo così teorica – che riguarda il genere del racconto,la sua specificità rispetto al romanzo. Credo che più di ogni altro scrittore Gogol’ ci mostri la natura perversa e trasgressiva di questo genere (assai più antico: discende direttamente dalla novella araba e indiana) rispetto al genere del romanzo (nato con la borghesia, nella modernità). In che senso? Secondo una critica di ispirazione freudiana la letteratura è formazione di compromesso: essa implica cioè il ritorno del rimosso (e del represso), in cui però il rimosso viene come addomesticato, imbrigliato dalla forma. Ora, la mia convinzione è che nel racconto, data la sua brevità, risulta molto più arduo addomesticare il rimosso. Non se ne ha il tempo! Mentre nella misura del romanzo, nel suo ritmo rallentato (che si dilata a contenere perfino la noia) alla fine la quotidianità tende ad assorbire i conflitti e a normalizzarli. Prendete il racconto Il ritratto. Tutto avviene in poche pagine, lasciando il lettore in uno stato di inquietudine. Il pittore alla moda Čartkov di fronte a un’opera venuta dall’Italia scoppia a piangere e comincia a dubitare del suo stesso talento, cade preda di una paranoia distruttiva e muore di febbre dopo aver fatto a pezzi tutte le migliori opere d’arte comprate nelle aste (la pazzia incombe su quasi tutti i personaggi gogoliani). E il ritratto demoniaco continua anche nella seconda parte, seminando scompiglio. Il tragico resta lì, sanguinante e senza soluzione. La forma-racconto è più disturbante, non ci consola come la forma rotonda e compiuta del romanzo. Non sarà un caso che l’unico romanzo gogoliano, Le anime morte, sia incompiuto, incapace di afferrare davvero la totalità, sempre sfuggente, della vita.

E forse anche per questo la non temeraria editoria italiana attuale stenta a pubblicare racconti: ritiene che non si vendano, o che si vendano molto meno. Ma potrebbe trattarsi di un calcolo parziale, incapace di immaginarsi lettori più maturi e più disposti a correre dei rischi.

FILIPPO LA PORTA

Nota biobibliografica

CRONOLOGIA DELLA VITA E DELLE OPERE

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