Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Romeo e Giulietta
Romeo e Giulietta
Romeo e Giulietta
E-book439 pagine4 ore

Romeo e Giulietta

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Cura e traduzione di Guido Bulla

Testo inglese a fronte

Edizione integrale

«Ciò che è davvero potente nello stile di Luhrman è il modo in cui cerca di trasmettere le emozioni più profonde e drammatiche dell’animo umano, costringendoti a fare la stessa cosa. Ed è quello che ho fatto per il mio Romeo.»

Leonardo DiCaprio

Romeo e Giulietta è la più bella storia d’amore del mondo. In una Verona piagata dalla faida tra le loro famiglie, il giovane Romeo e la tredicenne Giulietta si innamorano perdutamente al primo sguardo. Prima che il peso del passato e un destino implacabile si abbattano sugli amanti, la loro passione adolescente ci regala versi di intensità straordinaria in cui si combinano spiritualità ed erotismo puro. Sullo stupefacente cast di caratteri svetta Mercuzio, creazione quasi ultraterrena, epitome della gioventù e della poesia. Innumerevoli, oltre ai continui allestimenti teatrali, le elaborazioni musicali ispirate a questo capolavoro (si pensi solo a Bellini, Berlioz, Gounod, Čajkovskij, Prokof’ev). Note versioni filmiche sono quelle di Castellani (1954), Zeffirelli (1968), Luhrmann (1996), Carlei (2013).

William Shakespeare

nacque a Stratford on Avon nel 1564. Nel 1592 era già conosciuto come autore di teatro e fra il 1594 e il 1595 vennero rappresentati almeno quattro suoi drammi. Ormai faceva parte dell’importante compagnia del Lord Ciambellano, che godrà di ininterrotto favore a Corte, prendendo sotto Giacomo I il nome di King’s Men. Ad essa Shakespeare dedicherà tutta la sua attività di drammaturgo. Morì il 23 aprile del 1616. La Newton Compton ha pubblicato: Amleto, Antonio e Cleopatra, La bisbetica domata, Come vi piace, Giulio Cesare, Il mercante di Venezia, Misura per misura, Molto rumore per nulla, Otello, Romeo e Giulietta, Sogno di una notte di mezza estate, Re Giovanni, Re Lear, Troilo e Cressida, Tutto è bene quel che finisce bene in volumi singoli; Tutto il teatro, Le grandi tragedie e Le commedie in volumi unici.
LinguaItaliano
Data di uscita17 gen 2011
ISBN9788854124110
Romeo e Giulietta
Autore

William Shakespeare

William Shakespeare is widely regarded as the greatest playwright the world has seen. He produced an astonishing amount of work; 37 plays, 154 sonnets, and 5 poems. He died on 23rd April 1616, aged 52, and was buried in the Holy Trinity Church, Stratford.

Correlato a Romeo e Giulietta

Titoli di questa serie (100)

Visualizza altri

Ebook correlati

Arti dello spettacolo per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su Romeo e Giulietta

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Romeo e Giulietta - William Shakespeare

    98

    Titolo originale: Romeo and Juliet

    Traduzione di Guido Bulla

    Prima edizione ebook: giugno 2014

    © 2013 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-2411-0

    www.newtoncompton.com

    Edizione elettronica realizzata da Gag srl

    William Shakespeare

    Romeo e Giulietta

    Cura e traduzione di Guido Bulla

    Nota biografica, bibliografia e cronologia delle opere

    di Agostino Lombardo

    Edizione integrale con testo inglese a fronte

    Newton Compton editori

    L’allodola e l’usignolo: Romeo e Giulietta dalla lirica alla tragedia degli equivoci

    1. La tragedia lirica

    Romeo e Giulietta, una delle prime tragedie di Shakespeare (forse la sua prima tragedia vera e propria), appartiene alla fase cosiddetta di apprendistato dell’autore. A volte viene definita tragedia lirica, o poetica, non solo perché l’amore ne è il tema portante ma anche perché il verso occupa circa l’86% dello spazio testuale. Oltre al consueto predominio del blank verse, vi si registra un’anomala abbondanza di distici rimati e sestine. Più di un quinto dei versi sono disposti in forme chiuse e il copione prevede addirittura tre interi sonetti, il più importante dei quali è quello, celebrato e citatissimo, che i protagonisti compongono insieme al primo incontro. In Romeo e Giulietta, spesso anche in situazioni che parrebbero stridentemente inappropriate a esercizi poetici, compaiono modi, linguaggio, convenzioni codificate tipiche della poesia lirica più che della tragedia. Anche nei momenti in cui tutto precipita, i personaggi (non esclusi i due protagonisti) trovano il modo e il tempo di ricamare il proprio eloquio di concettismi, ossimori, metafore spesso ardite ai limiti della provocazione manierista. Per la critica è diventato quasi un luogo comune ripetere che una tale abbondanza di artifici può rendere difficoltoso un immediato apprezzamento di questa intensa tragedia.

    Ora, è vero che i quattro secoli che ci separano dall’opera possono trasmettere alla nostra mutata sensibilità una percezione di ridondanza retorica. Ma questo sarebbe un difetto se non fosse che il linguaggio è solo uno dei fattori confluenti in un complesso disegno d’insieme che non è disegno poetico ma drammaturgico: in altri termini, la grande versatilità linguistica rivelata qui da un apprendista di genio è funzionale alla globalità dello spettacolo¹. E in Romeo e Giulietta Shakespeare è già abile nel far sì che il linguaggio caratterizzi la psicologia di partenza dei singoli personaggi, la loro evoluzione o involuzione e, naturalmente, la dialettica dei loro rapporti in ogni momento del tempo scenico. Per inciso si può ricordare che la mancanza di scenografie e didascalie nel teatro elisabettiano amplia la funzione della parola e incorpora negli scambi verbali sciami di indicazioni per gli attori e per il pubblico. Ecco un esempio tipico, tratto dal momento in cui messer Capuleti, nei panni di vivace anfitrione, rampogna il nipote Tebaldo che dà in escandescenze per l’intrusione di Romeo alla festa mascherata. L’attore non ha bisogno di didascalie per sapere quando rivolgersi al bellicoso nipote, quando ai servi, quando agli invitati:

    CAPULETI: Ma lascia stare! / Sei proprio impertinente, eh, ragazzo? / Questo scherzetto può costarti caro, / Da’ retta a me. Vorresti contrariarmi? / Madonna santa, hai scelto bene il tempo! – / Sì, così, cari miei! – Sei uno sfacciato, via! / Se non ti calmi... – Oh, più luce, più luce! È una vergogna! – / Ci penso io a calmarti. – Allegria, amici cari! (I, 5, 82-88)

    Non è questo il luogo per un’analisi dettagliata delle molte variazioni di tono, ritmo, organizzazione retorica presenti in un’opera che naturalmente non è solo una sagra dell’artificio poetico². Qualche rapido cenno basterà però a mostrare quanto e come in Romeo e Giulietta anche la parola più lirica diventi teatro.

    Dopo la cruda prosa degli scambi verbali fra i servi, dopo le simmetrie linguistiche con cui il Principe tenta un rappel à l’ordre nelle strade di Verona sconvolte dal caos, la poesia entra in scena col ricco repertorio di metafore elaborato da Benvolio e Romeo. Il loro linguaggio, a metà fra lo sconsolato e il giocoso, trasforma fra l’altro la battaglia appena scongiurata in piuttosto convenzionali tenzoni erotiche. Nel loro dibattito sull’amor cortese Benvolio e Romeo, giovani veronesi che paiono infarciti di una cultura di corte tipicamente elisabettiana³, parlano una lingua colma di stereotipi della tradizione sonettistica.

    Ma, per stringere l’obiettivo su Romeo: oltre a darci indicazioni sulla sua immaturità sentimentale, il linguaggio e l’atteggiamento del protagonista sembrano soggetti da lui per primo a un certo distanziamento autoironico. È un po’ come se in questa fase, conscio della componente di cerebralità che anima il suo amore per Rosalina, Romeo si renda conto di star vivendo una posa, una moda culturale. L’uso di tropi poetici e immagini estenuate continuerà a caratterizzare le sue scelte espressive anche dopo l’inizio dell’amore con Giulietta; ma alla fine, pur non acquisendo mai l’innata concretezza che informa il pur poetico frasario della sua amata, Romeo perviene alla lingua del dolore. E allora le guerre e la morte per amore non saranno più stereotipi ma si rivestiranno di carne. Dietro una imagery classicamente petrarchesca, si avvertiranno accenti di tragica autenticità:

    ROMEO: Quanto spesso al momento della fine / Gli uomini sono allegri! Chi li assiste / Parla di un lampo che precede la morte: / Ma come posso, amore, moglie mia, / Chiamare questo un lampo? / Morte, che ti ha succhiato il miele del respiro, / Nulla ha potuto ancora sulla bellezza tua: / Tu non sei conquistata; lo stendardo / Roseo della bellezza splende ancora / Sulle tue labbra e sopra le tue guance, / E il pallido vessillo della morte / Non è avanzato fino a lì. (V, 3, 88-96)

    Anche Giulietta esordisce con uno stile formalizzato, romantico e a tratti sciocco come è giusto che sia il linguaggio dell’entusiasmo e dell’inesperienza. Inizialmente le espressioni dei due amanti sono pressoché intercambiabili anche perché la forma chiusa del sonetto che scelgono per il loro primo approccio (I, 5, 93-106) indica quasi una reciproca compenetrazione.

    Ma è bene fermarsi un po’ sullo shared sonnet cui Romeo e Giulietta danno congiuntamente vita, perché in questo snodo fondamentale della vicenda la poesia, come amava dire Giorgio Strehler, si «inteatra»: il sonetto, forma lirica per eccellenza, si drammatizza diventando dialogo teatrale. Siamo nel cuore dell’operazione che Shakespeare compie in questo dramma.

    C’è di più. Trattandosi, come il pubblico di Shakespeare ben sapeva, di una forma quintessenzialmente italiana, il sonetto è, con la sua sola presenza, un cenno sicuro lanciato alla platea: contribuisce alla localizzazione della vicenda in un Sud caratterizzato da intense, incontrollabili passioni. Adottando una delle forme più antiche e codificate della letteratura occidentale, una forma da sempre adibita alla trattazione dell’amore, lo shared sonnet, irreale area di quiete, sottolinea uno stato di grazia in cui la levità dello scherzo formale si accompagna alla subitanea nascita della passione. L’aspetto ludico dell’eleganza intellettuale (che forse, a livello del realismo della storia, contribuisce a caratterizzare Romeo e Giulietta come eredi di famiglie benestanti che possono acculturare i propri figli) si integra infatti con un amore che, pur giocando in maniera quasi dissacrante con immagini pertinenti alla sfera religiosa, è già impetuoso e carnale: unisce intelletto e senso, astrazione del sentimento amoroso e irrefrenabile bisogno di contatto fisico.

    È così che la poesia lirica diventa poesia drammatica; è così che la parola diventa azione. Non abbiamo più come unico protagonista l’amante avvilito dall’infruttuosa contemplazione della dama angelicata e glaciale: ora gli amanti sono due, e pongono mano insieme (giustamente Gayle Whittier parla di struttura antifonale)alla composizione di una forma che per convenzione sarebbe privata e quasi solipsistica. Ma, soprattutto, la dama scende dal suo piedistallo, e il distico rimato (esempio letterale di rima baciata?) vede il bacio fra i protagonisti.

    Teatralmente il sonetto è una bolla spazio-temporale che s’interpone fra due violenti blocchi di realtà, fra due volti di Verona che non ammettono l’idillio. La Verona iniziale, tutt’altro che fair (aggettivo che curiosamente, con tacita ironia, ricorre per cinquanta volte nel testo), ci ha presentato l’amore-stupro di cui fantasticano i servitori; ma anche la Verona che ci attende concederà poco alla tenerezza. Il sonetto diviene così una zona brevemente impermeabile al mondo, un oggetto d’arte fissato per sempre, per i tempi in cui gli eventi precipiteranno verso una retribuzione tragicamente assurda⁹.

    Subito dopo il loro primo incontro, le strade (linguistiche) dei due amanti cominciano a divergere, e Giulietta si segnala per una maggiore razionalità e concretezza. Già nella scena del balcone si può rilevare che, mentre Romeo stenta ad abbandonare i suoi preziosismi, Giulietta, superato il primo momento di sconcerto, manifesta sempre più nettamente una maturità che le fa proporre domande e obiezioni piuttosto precise:

    GIULIETTA: Non sei Romeo e non sei tu un Montecchi?

    ROMEO: No, nessuno dei due, bella fanciulla, / Se entrambi ti dispiacciono.

    GIULIETTA: Come sei giunto qui, dimmi, e perché? / I muri del giardino sono alti e ardui da scalare, / E questo luogo, sapendo chi sei, / Per te sarebbe morte se ti scopre / Uno dei miei parenti.

    ROMEO: Con le ali leggere dell’amore / Ho superato in volo questi muri; / Perché non può un confine di pietra / Tener fuori l’amore; e tutto ciò che amore / Può fare, osa tentarlo; i tuoi parenti / Non son quindi un ostacolo per me.

    GIULIETTA: Se ti vedono qui ti uccideranno. (II, 2, 60-70)

    Nessun discorso sul linguaggio shakespeariano può ignorare, naturalmente, l’assetto metrico, che in un teatro in versi è componente di primaria importanza. Un esempio interessante è offerto dal linguaggio della Balia alla sua prima e più loquace comparsa (I, 3, 17 e sgg.). È significativo che nei testi primari i suoi errabondi sproloqui siano presentati in prosa, mentre nelle edizioni moderne vengono trasformati in blank verse. In realtà la prosa si presterebbe meglio al turgore del popolaresco stream of consciousness della nutrice. Ma l’equivoco è interessante perché, quantunque le sue battute vengano divise in versi dagli editors, non possiamo non avvertire che i ritmi restano difettosi e zoppicanti. Insomma, l’invadenza del personaggio e il suo scarso controllo di una lingua di cui è fin troppo prodiga fanno comprendere sia la sua vicinanza sentimentale ai membri della famiglia (e particolarmente a Giulietta), sia il suo scarso livello culturale. La Balia, in altri termini, non merita il verso ma si situa in una posizione socialmente mediana da cui rivendica una situazione di privilegio rispetto agli altri inservienti della casa. Se poi il suo linguaggio non si evolve mai è anche perché Giulietta, una volta vistasi tradita da lei, la ridurrà via via al silenzio.

    Solo la stoccata di Tebaldo tronca invece l’eloquio di Mercuzio, personaggio che vive sempre, anche metaforicamente, su un palcoscenico. In quanto fool¹⁰, Mercuzio è il teatro: ha la leggerezza del guitto irresponsabile; canta, aggiunge al patrimonio folclorico la conturbante figura della regina Mab; tocca ogni corda espressiva della lingua con escursioni che vanno dall’oscenità più greve alla pura musicalità di una parola poetica che levita sulla realtà materiale¹¹, e subito dopo torna ad affondare criticamente il coltello nei vizi sociali. Nel dare l’addio al mondo, Mercuzio, con un’ultima acrobazia, tiene lo spettatore sulla corda prima di gettare la maschera e maledire una faida che in fin dei conti, estrema micidiale beffa, non lo riguarda. Dopo aver giocato con la morte, Mercuzio muore sul serio. E muore in prosa, dopo aver cantato la lingua in mille tonalità. Muore perché non si diverte più: o forse va a ricongiungersi alla tribù degli elfi alla quale appartiene o ai minuscoli atomi che trainano il carro di una scostumata regina. In questa prodigiosa creazione shakespeariana, retorica e presentazione del personaggio, invenzione linguistica e teatro, lirica e tragedia, si integrano in modo esemplare.

    Shakespeare ha profondità che una vita non basta a sondare, ma io credo che molto del nostro godimento estetico si basi, anche in questo dramma, sulle sfumature del linguaggio. Se, dopo aver consultato qualunque traduzione, torneremo al testo originale, alla fine del Romeo e Giulietta scopriremo che lentamente il nostro orecchio si sarà sintonizzato sulle varietà (e sulle variazioni) linguistiche dei personaggi. Avremo imparato a distinguere gli accenti della sincerità dalle metafore forzate e tutte di testa adoperate dai genitori di Giulietta (i libri rilegati di Donna Capuleti – I, 3, 80-95; le penose metafore naturali del marito – III, 5, 126-138). Forse sospetteremo che Paride sia destinato alla morte anche perché il suo linguaggio lo tiene ancorato alla stessa tradizione decorativa che Romeo è stato costretto a superare dalla crudeltà della vita, e magari la nostra pena nei suoi confronti aumenterà in proporzione alla tenera goffaggine della sestina enunciata con perfetto amore sulla tomba di Giulietta (V, 3, 12-17). Forse a fine lettura noteremo anche come l’incrinarsi del prestigio e della statura morale di Frate Lorenzo ci sia stato trasmesso già a livello acustico: basterà mettere a confronto i quadrati distici che il personaggio ha cesellato alla prima comparsa (quando l’ordine del suo eloquio, correlativo oggettivo di un dominio sui regni della natura, prometteva di sanare ogni squarcio) con i suoi balbettii all’atto di abbandonare precipitosamente la cripta, e poi con la piattezza della relazione tutta fattuale (V, 3, 229-269) con cui – distratto dalla priorità di salvarsi la vita – mette una lapide su un amore del quale nessuno meglio di lui ha potuto misurare la forza. Mentre risuona ancora l’eco delle ultime parole di Romeo e di Giulietta, nel tono burocratico delle guardie che prendono possesso dello spazio scenico trasformato in cimitero notturno leggeremo ancora tutta la differenza fra il mondo dei giovani e quello degli adulti. E non crederemo più, infine, alle tremende minacce dell’autorità terrena, a un Principe che, ennesima impotente figura paterna, restaura di nuovo (ma solo verbalmente) l’ordine, sigillando l’intera vicenda con una sestina neutra e scontata che conclude nel modo peggiore l’articolata parabola linguistica che ha contribuito a creare una trama dai ritmi progressivamente più ansiogeni.

    2. La comitragedia degli equivoci

    L’uso del linguaggio non è infatti che uno degli aspetti che fanno di Romeo e Giulietta un capolavoro. Con una maestria che è già quella della sua produzione maggiore, in questa tragedia Shakespeare fa interagire uno straordinario cast di caratteri entro una macchina teatrale perfetta. Perfetta come una trappola.

    Trappola è la ragnatela che si stringe intorno a Romeo e Giulietta ancor prima che il drammaturgo li porti in scena: gli amanti sono già condannati, sono già «avversati dalle stelle» nel sonetto in cui il Prologo anticipa freddamente la loro morte. Trappola perché, se vogliamo adottare per un attimo le consuete semplificazioni che tagliano da una sola angolatura opere infinitamente più complesse, potremmo affermare che – così come Otello è la tragedia della gelosia, Amleto è la tragedia del dubbio, Macbeth la tragedia dell’ambizione e via dicendo – Romeo e Giulietta è in ugual misura la tragedia dell’amore e la tragedia del caso. Caso da intendersi non come la Fortuna medievale con la sua carica di ammonitoria provvidenzialità, ma in un’accezione certamente più vicina al senso di aleatorietà che in tempi assai più vicini a noi domina le raffigurazioni della condizione umana.

    A provocare la morte della sventurata coppia shakespeariana è infatti un micidiale incastro di coincidenze avverse. In termini oggettivi, il matrimonio clandestino è, certo, un colpevole atto di disobbedienza nei confronti dei genitori. Ma la tragica fine di Giulietta e Romeo non è mai presentata come una nemesi divina o sociale determinata da una loro infrazione, e in nessun punto del testo emerge la minima censura morale nei loro confronti. Il fatto salta all’occhio perché, se pensiamo alla lunga linea evolutiva in cui i due personaggi si inseriscono¹², la versione di Shakespeare è la prima a non proporre giudizi di condanna nei loro confronti: il cuore dello spettatore palpita all’unisono con quello dei protagonisti.

    Consideriamo rapidamente alcune delle circostanze che determinano il tragico scioglimento finale. Innanzitutto si può osservare come l’assunto di base, la faida, che senza ombra di dubbio pone una pesante ipoteca negativa sulla vicenda, non sia un fenomeno che coinvolge in ugual misura tutti i personaggi, neanche tutti quelli principali. L’adolescente Romeo sembra disposto a combattere, prima con l’evanescente Rosalina poi con la ben più concreta e carnale Giulietta, battaglie che hanno molto poco a che fare con la cappa e la spada. Giulietta, tredicenne reclusa nel perimetro domestico, non comprende, anzi probabilmente ignora, i motivi dell’atavico dissidio fra Capuleti e Montecchi. Lo scontro iniziale fra i servi delle casate rivali stabilirebbe più facilmente un quadro di insidiosa e generalizzata conflittualità se non fosse per il tocco comico che traspare da una caratterizzazione dei contendenti come i due Zanni della Commedia dell’Arte¹³ (Gregorio nella parte del furbo, Sansone in quella del tonto). Né appaiono devastanti le figure dei vecchi titolari della faida: gli ardori di messer Montecchi sono facilmente repressi dall’ironia della consorte, mentre papà Capuleti fa il primo ingresso in scena in una poco guerresca vestaglia. In effetti, quando chiede il suo spadone, Capuleti appare come un vecchio Pantalone da commedia, e persino molto più tardi, durante la festa (IV, 4, 9-13), i suoi tratti da maschera trovano conferma quando lo sentiamo accennare ai propri trascorsi di tombeur de femmes (il Pantalone originale è un vecchio mercante che spesso si rende ridicolo perché entra in competizione coi giovani per la conquista di qualche giovinetta).

    Quanto alla nuova generazione, Benvolio, nipote di Montecchi, è – nomen omen ¹⁴ un conciliatore nato. La spesso riproposta opposizione binaria per cui in questa tragedia è l’odio dei vecchi a determinare la morte dei giovani innocenti parrebbe smentita solo da Tebaldo, focoso sostenitore della faida. Anche Tebaldo, però, rischia di essere immediatamente ridimensionato a plautino miles gloriosus quando al ballo viene vivacemente rampognato dall’autoritario ma sostanzialmente pacioso zio Capuleti (del quale tra l’altro ricordiamo le parole poco dopo il primo scontro fra i servi: «Non credo sia difficile / Per noi gente d’età mantenere la pace». – I, 2, 2-3).

    Si aggiunga inoltre che assai presto (rispettivamente alla terza e quarta scena del primo atto) facciamo la conoscenza della Balia e di Mercuzio, personaggi armati più di lingua che di spada e anch’essi dotati di caratteristiche da Commedia dell’Arte. Angelo Righetti osserva che la Balia parte dal ruolo/maschera di serva per mescolare poi i tratti della confidente/aiutante/messaggera e quelli della mezzana. La sua logorrea e il suo dosare le informazioni a Giulietta in occasione del programmato matrimonio con Romeo suggeriscono inoltre un repertorio di situazioni e una bravura tipici dell’arte improvvisativa. Mercuzio è l’anti-Innamorato che lancia bordate ironiche a Romeo, cui tocca naturalmente il ruolo dell’Innamorato. E, pur essendo, come si è detto, una chiara anticipazione del fool shakespeariano, lo stesso Mercuzio si riallaccia a sua volta alla cosiddetta commedia italiana quando, nei frammenti sociali disseminati nel lunare discorso su Queen Mab, ci fa sfilare davanti figure come l’Innamorato, il Soldato/Spaccone, l’Avvocato/Dottore, eccetera¹⁵.

    A prescindere però dagli spunti comici, pure utili ad attutire la nostra percezione del pericolo, fino alla prima scena del terzo atto anche la sorte sembra giocare a favore di un possibile happy ending. Intercettando per caso il servo analfabeta, Romeo viene a conoscenza della festa a casa Capuleti, nel corso della quale il fantasma di Rosalina si eclissa per far entrare in scena la figura di Giulietta. Incidentalmente, anche se in genere tendiamo a dimenticarlo, Rosalina è nipote del padrone di casa: Romeo, cioè, è già infatuato di una donna del clan rivale. Il destino comunque ha ormai unito i due veri protagonisti, dimostrando che la chimica fra le due famiglie può funzionare. Anche il saggio Frate Lorenzo intravede nel fulmineo amore nato fra gli eredi delle casate nemiche una possibilità di ricomporre vecchie fratture, sanando – riarmonizzando, come nel musicale sonetto che i due amanti hanno congiuntamente improvvisato – una faida che oltretutto, come s’è visto, fin qui non ci ha seriamente impressionato.

    Il drammaturgo, insomma, ci svia a lungo, e, a quanto sembra, non siamo i primi a cadere nella sua trappola. Harry Levin definisce Romeo e Giulietta una tragedia innovativa perché, in un contesto culturale in cui l’amore era solitamente oggetto della commedia, Shakespeare fa dell’Eros materia tragica, dando luogo a un esperimento che deve aver stupito i suoi contemporanei¹⁶.

    E poiché il nostro orizzonte di attesa è stato in questo modo limitato, quando già ci illudiamo – essendo oltretutto arrivati alla metà del dramma – che ogni problema possa risolversi con una riconciliazione, amara è la sorpresa per la morte di Mercuzio; e lo è tanto più in quanto lui non è un membro delle famiglie in lotta ma un congiunto del Principe. La morte accidentale di Mercuzio, trafitto da sotto il braccio del benintenzionato Romeo nel corso di un duello iniziato in modo quasi giocoso, è lo spartiacque che imprime all’opera una violenta torsione. È una cesura netta, segnalata anche dal fatto che dopo la scena in cui viene ucciso, Mercuzio è come rimosso dal tessuto dell’opera. Verrà nominato un’unica volta da Romeo nel momento in cui, subito dopo averlo assassinato per caso, definirà Paride «parente di Mercuzio». (V, 3, 74-75)

    Naturalmente il gioco scenico e psicologico non finisce qui: anche dopo la morte dell’ispirato cantore di Queen Mab, la tragedia continua a proporre espedienti da commedia¹⁷ che dispongono il lettore a negoziare al ribasso con l’autore un finale almeno consolatorio (una fuga degli sposi, un perdono del Principe, un chiarimento tra le famiglie, un illuminato intervento dell’autorevole e saggio frate?). Ma, scomparso Mercuzio, l’opera diviene soprattutto una tragedia degli equivoci sceneggiata da un’infallibile antiprovvidenza. Non sembri un ossimoro parlare di una matematica concatenazione di casualità.

    Il matrimonio fra Giulietta e Paride, che in un primo tempo il padre della sposa sta per fissare al mercoledì, viene subito posticipato al giovedì (III, 4, 17-20): questa la data che Giulietta conosce e che Paride, recandosi da Frate Lorenzo il martedì, comunica al religioso (IV, 1, 1); questi i tempi su cui si calibra lo stregonesco piano che prevede il ricorso a un narcotico che imita tanto bene la morte. Gli sviluppi sono noti: sentendosi ormai padrona della propria vita perché pronta anche a gestire la propria morte, Giulietta simula troppo bene un’arrendevolezza che induce l’autoritario padre (forse timoroso di perdere una formidabile occasione di avanzamento sociale) a tornare sui propri passi rianticipando le nozze al mercoledì (IV, 2, 14). Il conto alla rovescia delle quarantadue ore di paralisi vitale assicurate dal farmaco deve insomma partire con un giorno d’anticipo. Come sappiamo, l’esule Romeo, in teoria informato per lettera delle trame registiche di Frate Lorenzo, dovrebbe presentarsi in tempo per assistere al risveglio della sua sposa segreta. Ma, contrariamente alla lettera d’invito al ballo, intercettata per caso da Romeo e prima origine del suo felice incontro con Giulietta, la missiva affidata a frate Giovanni non viene mai recapitata, e Romeo, appreso da altre fonti che Giulietta è morta, corre disperato alla cripta per suicidarsi col veleno. È un uomo sicuro di aver perso tutto, quello che uccide un altro sventurato giovane: il mancato sposo Paride (a sua volta convinto della morte della sua promessa sposa, della quale peraltro – al pari di chiunque tranne il frate e la balia – ignora il precedente matrimonio).

    Tra i più beffati dalla sorte è proprio Paride, il pretendente di cui Shakespeare, al fine di stringere prima i lacci intorno alla protagonista, anticipa la comparsa rispetto a tutte le fonti narrative del dramma. Nei termini in cui Shakespeare ce lo presenta (e contrariamente all’uso invalso in diversi allestimenti teatrali e trasposizioni cinematografiche), Paride non è figura che susciti scherno: oltre a essere obiettivamente un ottimo partito, è un giovane autenticamente innamorato di Giulietta, e muore solo perché ignaro di essere arrivato fuori tempo. Paride non sa che la sua parte in commedia lo ha preventivamente escluso da ogni felicità. Anche la sua fine, non meno tragica di quella degli altri giovani che muoiono a Verona nel concentrato spazio di cinque giorni in cui Shakespeare sceglie di comprimere la vicenda, nasce sostanzialmente da un errore: solo dopo averlo ucciso nell’oscurità del cimitero, Romeo scopre chi sia la sua vittima, e gli paga un postumo tributo di affetto, ravvisando in lui un fratello spirituale – o forse un’immagine del se stesso di prima, del vecchio Romeo perso in ingenui sogni d’amore da troubadour.

    Equivoci e imprevisti producono sfasamenti temporali che recidono ogni speranza: così Frate Lorenzo, appreso tardi che Romeo è all’oscuro di tutto, si precipita da solo nella cripta; così Romeo, ignorando l’esistenza della messinscena, sfida le stelle e butta via senza esitazioni la propria vita per raggiungere nella morte una Giulietta ancora viva; così infine la resuscitata Giulietta, sola come è quasi sempre stata, concede, piccola Cleopatra tredicenne¹⁸, una replica ora tremendamente vera della recita della propria morte. I rampolli delle migliori casate cittadine si suicidano o si massacrano tra loro per ignoranza, perché un caso maligno ha allestito uno spettacolo falso rimescolando davanti ai loro occhi i connotati della realtà. E alla fine la morte immaginaria di Giulietta riempie la scena di cadaveri reali¹⁹.

    Quest’opera lascia in bocca un senso di generale futilità. Dubbia e ormai sostanzialmente inutile appare la riconciliazione delle famiglie: nella bella Verona, su cui splende una luce livida, i giovani sono morti, mentre una vecchiaia eccessiva, irreale sembra essersi di colpo abbattuta sugli adulti²⁰.

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1