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Sulla cima dell'Everest
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E-book740 pagine10 ore

Sulla cima dell'Everest

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Info su questo ebook

In uscita il film Everest sul disastro del 1996 con Jake Gyllenhaal e Keira Knightley

Dal primo tentativo di ascensione al disastro del 2014 

Una selezione delle migliori storie vere che riguardano l’Everest, dai primi tentativi di scalarlo, alla scomparsa di Mallory mentre per la terza volta tentava l’ascesa alla vetta, al trionfo di Hillary e Tenzing, fino al disastro degli ultimi anni.
Racconti al cardiopalmo, che parlano di trionfo e di tragedia, dalla voce di chi meglio di ogni altro conosce la montagna più alta del mondo e la sua “Death Zone”: gli scalatori che hanno provato a sfidarla. Ma questa raccolta è molto più di una serie di testimonianze di prima mano: è una vera e propria storia della conquista dell’Everest, un ritratto evocativo della bellezza crudele di Chomolungma, “la madre dell’universo”. 

La cosa più pericolosa sull’Everest, sono le persone che tentano di scalarlo.

Tra i racconti presenti nel volume:

1922: Valanga di George Leigh Mallory
1924: Il posto più odioso del mondo di E. F. Norton
1933: La lunga marcia di Hugh Ruttledge
1938: La montagna si fece bianca di H.W. Tilman
1947: Everest non autorizzato di Earl Denman
1953: Il sogno si avvera di Tenzing Norgay
1963: L’ultima frontiera di Tom Hornbein
1978: Solo l’aria che respiriamo di Peter Habeler
1980: In solitaria di Reinhold Messner
1993: Sul tetto del mondo di Rebecca Stephens
1999: Avevamo trovato George Mallory di Conrad Anker
2014: Il giorno più nero di Jon Reiter
Jon E. Lewis
Scrittore e storico, ha curato molte antologie di avventure e racconti di viaggi, tra le quali Sul tetto del mondo, Alla fine del mondo e Sulla cima dell'Everest, pubblicati dalla Newton Compton. Vive in Inghilterra, nello Herefordshire.
LinguaItaliano
Data di uscita7 set 2015
ISBN9788854186422
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    Anteprima del libro

    Sulla cima dell'Everest - Jon E. Lewis (a cura di)

    334

    Titolo originale: The Mammoth Book of Everest

    Copyright © J. Lewis-Stempel 2003, 2015

    First published in Great Britain in 2003 as

    The Mammoth Book of How it Happened-Everest by Robinson,

    an imprint of Little, Brown Book Group. This edition published in 2015.

    Traduzione dall’inglese a cura di Corpotre e Librofficina

    Prima edizione ebook: settembre 2015

    © 2014 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-8642-2

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Librofficina

    Realizzazione: Sebastiano Barcaroli

    Foto: © Contrasto

    Jon E. Lewis

    Sulla cima dell’Everest

    Dal primo tentativo di ascensione al disastro del 2014

    Perché è lì

    George Leigh Mallory, 1923

    Premessa

    Fra le catene più grandi del mondo, quella dell’Himalaya è la più giovane nonché la più elevata (l’Everest raggiunge gli 8840 metri sul livello del mare), ed è ancora in crescita. Essa è il risultato di una sollevazione «alpina» dovuta alla collisione fra due continenti.

    La spiegazione va cercata nella teoria della tettonica a placche, secondo cui dopo la frattura di quello che era un continente unico, le diverse zolle o «placche» andarono alla deriva sul nucleo e al di sopra del mantello terrestre. Ottanta milioni di anni fa, l’India divenne un’isola con l’Oceano di Tetide a separarla dall’Asia, verso cui essa prese però a dirigersi. Nei successivi trenta milioni di anni, questo spazio marino si chiuse gradualmente. L’Oceano Tetide si riduceva mentre le placche rocciose sottostanti venivano schiacciate verso il mantello e i sedimenti del fondale marino si sollevavano in falde e falde rovesciate, come schiacciati nelle ganasce di una gigantesca morsa. La forza della massa terrestre indiana era tale che l’Asia venne spinta 1500 chilometri più a nord. Sotto questa pressione e questo calore le rocce sedimentarie si metamorfizzarono e quelle granitiche vi s’intromisero dal basso.

    Appena formatasi, questa grande catena montuosa cominciò a erodersi. Gli antichi fiumi continuarono a incidere le vette, producendo vallate sempre più profonde. L’Arun fende la cima superiore della catena himalayana, fra l’Everest e il Kangchenjunga. Qui, la differenza di altitudine è enorme, e di conseguenza è amplissimo il divario fra le temperature e i tipi di vegetazione: da subtropicale ad alpina/artica.

    Anche la pioggia, i venti e le glaciazioni dell’era glaciale hanno contribuito all’erosione di queste grandi falde, per cui si potrebbe raccontarne la storia grazie alle rocce e ai ritrovamenti fossili. Sui pendii delle quattro vette del massiccio Chomolungma (Changtse, Lhotse, Nuptse e lo stesso Everest) è rintracciabile la storia geologica dell’intera catena himalayana. Alla base di questi monti, le forze elementali produssero scisti composti soprattutto da gneiss e migmatiti che dal mantello terrestre erano stati spinti verso l’alto. Al di sopra degli scisti vi sono intrusioni di graniti conosciuti come formazioni Makalu. Queste rocce grigie si fratturano in blocchi e lastre caratteristici del Makalu, dieci chilometri a est dell’Everest e anche visibile dalle grandi fiancate meridionali del Nuptse e del Lhotse. Sopra i graniti si trovano le rocce sedimentarie metamorfiche provenienti dai fondali dell’Oceano Tetide, tra cui argilliti, calcari e arenarie.

    Un grande strato di argilloscisti taglia l’Everest in direzione settentrionale, dove va a formare le ardesie stranamente inclinate sotto i gradini rocciosi della cresta nord. Fu qui che nel 1999 Conrad Anker recuperò il corpo straziato di Mallory.

    Sulla parete sud-occidentale della montagna, il pendio degli argilloscisti appare come una banda rocciosa quasi verticale di 240 metri. Malgrado s’innesti bene nella montagna e dovrebbe facilitare la scalata, questa roccia è in realtà frantumata dalle escursioni termiche, il che rende difficoltosi l’arrampicata e gli ancoraggi, come ebbero modo di scoprire Nick Estcourt e Paul Braithwaite durante il loro primo tentativo, nel 1975. Le arenarie sopra la banda rocciosa, sebbene ripida, sono meno friabili e più facili da scalare, come ebbi modo di accorgermi alcuni giorni dopo con Dougal Haston. Sul lato nord, esse formano i celebri primo e secondo gradino che crearono non pochi problemi ai precoci tentativi dei britannici nel periodo fra le due guerre. La piramide alla sommità dell’Everest si compone di calcari grigi. È incredibile pensare che le rocce più alte del pianeta sono quelle che una volta si trovavano sui fondali dell’Oceano Tetide, e che esse continuano a salire dalle profondità, di alcuni centimetri ogni anno.

    Queste arcate rocciose sono tuttora sotto pressione, come attestano le scosse regolari e i terremoti saltuari che provocano enormi smottamenti, oltre alla distruzione di strade e villaggi. Vi è un versetto biblico nel Salmo 121 che recita: «Alzo gli occhi verso i monti: da dove mi verrà l’aiuto?». Me ne sono ricordato recentemente, mentre sorvolavo le pianure dell’India settentrionale verso Kathmandu, con i fiumi che serpeggiano lungo le alture e le foreste ai piedi dell’Himalaya e la dimora delle nevi che si estende per un totale di 2900 chilometri.

    L’uomo ha ovviamente venerato queste montagne innevate, poiché in fondo esse gli forniscono acqua, l’elemento fondamentale per la vita, dopo l’aria che respiriamo. Con l’incremento della popolazione nelle fertili pianure, i gruppi familiari allargati furono costretti a rifugiarsi nelle valli montuose. C’era chi si azzardava su quelle più elevate in cerca di riparo dalle distrazioni del mondo, o per contemplare la condizione umana e riflettere sullo scopo della vita: dapprima abitando in ripari naturali e successivamente in monasteri remoti. Le gole himalayane sono luoghi propizi per questi viaggi interiori, lo percepisce chiunque vi si rechi. Dopo l’ultimo villaggio, quando la vegetazione cede il passo alle rocce e ai ghiacci oltre i 3500 metri di altitudine, si prende una bella boccata d’aria fresca e ci si dice, soddisfatti: «sono tornato», con la consapevolezza che troppo facilmente ci si dimentica di quanto sia piacevole trovarsi nella pungente aria di montagna, dove il cielo limpido, l’ambiente circostante che vibra contro l’azzurro fanno elevare lo spirito e di notte le stelle brillano rischiarando ogni cosa.

    In tutto il mondo, compreso l’occidente, perlomeno fino al Rinascimento e all’era dei «lumi scientifici», la gente che viveva in sintonia con la natura riteneva che il paesaggio fosse abitato da forze o spiriti multiformi, capaci di soccorrere o danneggiare, e a cui si attribuivano vari nomi. Nel Tibet, il palese riconoscimento di tali esseri corrisponde alla vastità dell’altopiano, alla gigantesca altitudine dei monti e alle terrificanti forze che possono scatenarvisi. I visionari sciamani Bonpo, sacerdoti anteriori al buddhismo, interpretavano queste forze in quanto entità aliene e separate, da placare con sacrifici di animali, o addirittura umani.

    Nell’

    VIII

    secolo, guru Rinpoche, il maggiore degli yogin tantrici, viaggiò dall’India al Tibet attraverso il Nepal, superando la valle del Kyirong, su invito del re Trhisong Detsen. Il suo primo compito, anteriore all’incontro formale col sovrano, consisteva nel soggiogare e addomesticare le forze spirituali elementali. La chiarezza percettiva e la determinazione di Rinpoche erano tali che egli riuscì a vincolare le divinità del cielo, dei monti e della terra, così da stabilire un rapporto positivo e protettivo col Buddha Dharma e con le dottrine che avrebbero liberato sia il Tibet sia l’Himalaya. Da allora, queste forze si accontentano di offerte accompagnate da preghiere, dell’incenso dei legni profumati come il ginepro) e delle torte benedette (torma) fatte con farina d’orzo e burro di yak. All’epoca di questa trasformazione, le potenti divinità della montagna entrarono nell’iconografia ufficiale del buddhismo tantrico tibetano. Ognuna rappresentata con la sua virtù tipica e col simbolo del suo specifico potere. I maestri illuminati composero numerosi testi, e continuano a farlo, prescrivendo i mantra e le preghiere appropriate per invocare la protezione e il benessere interdipendente fra l’ambiente e gli abitanti locali. La natura non è distinta dalla mente umana: quando la gente è infelice, depressa e sofferente, la terra reagisce in modo analogo. Si riduce la fecondità, ne soffrono i raccolti, le piante, gli alberi e gli animali; un fatto riconosciuto in tutte le parti del mondo in cui prevale l’agricoltura, anche lungo le pendici dell’Everest, contaminate ormai dall’inquinamento e dalla deforestazione.

    Molte delle sette spedizioni britanniche fra le due guerre sul versante nord dell’Everest furono benedette dal Dalai Lama, Ngawang Tenzin Norbu, che risiedeva nel monastero Rongbuk, a 5030 metri di altezza, appena due ore sotto al campo base. Si tratta probabilmente del più alto monastero al mondo abitato in via permanente. Fondato nel 1902, un tempo ospitava più di 500 monaci e monache. In seguito, il Lama si recò nelle regioni nepalesi di Khumbu e Solu Khumbu per fondare altri monasteri a Tengboche, Thamo, Taksindu e Chilong, vicino Phaplu.

    Nel 1921, egli era stato in ritiro spirituale, e così i membri della spedizione dell’anno seguente, guidata dal generale Bruce, commentarono la sua santità con queste parole: «ricco di dignità, con un volto saggio e intelligente e un sorriso eccezionalmente accattivante». Chiunque giungesse nella vallata e nelle zone circostanti non poteva uccidere gli animali. Gli inglesi si attennero a questa norma e furono favorevolmente sorpresi nello scoprire la grande docilità degli uccelli e delle bestie della regione: essi mangiavano dalle loro mani e pascolavano tranquillamente attorno alle loro tende.

    Ai membri della spedizione del 1936 vennero elargite alcune copie di un libretto per i pellegrini in visita al monastero Rongbuk. Esso è di notevole interesse in quanto ci fa capire il mondo parallelo degli spiriti naturali, che solitamente non vediamo, oltre a offrirci altre preziose informazioni, fra cui il nome locale dell’Everest: Chomolungma. Nell’introduzione al libretto, gli autori affermano che la zona adiacente al monastero ha uno speciale significato religioso. Il seguente brano è tratto da una traduzione riportata in nota da Kempton nel suo Everest, the Unfinished Adventure (1936):

    La terra, occupata originariamente da esseri maligni, venne infine resa abitabile da Vajradhara (il Buddha primordiale) per gli abitanti del cielo, perlopiù demóni vaganti. Con lo sviluppo del buddhismo, arrivarono numerosi maestri, fra cui Padmasambhava, e furono benedetti molti laghi, colline e montagne… A Ron-phu-rdza (valle Rongbuk), Padmasambhava trascorse sette mesi e attinse il potere spirituale (Siddhi), ordinando che la regione fosse luogo di salvezza per tutti coloro che la contemplavano, ascoltavano, toccavano o pensavano a essa. Allora, in un sito della terra dove camminavano le Cinque Sorelle benauguranti lunga vita (Tashi Tsering Ched Nga), davanti all’alta montagna di ghiaccio autocreatasi, detta Chomolungma, egli esorcizzò Miyolansangma e gli altri con la sua spada e consacrò la scena come supremo Siddhi. In particolare, stabilì che Mikhan-pa-lun di Sbas-yul ne fosse il capo.

    È evidente il riferimento al monastero della valle Rongbuk, da cui si vede benissimo l’Everest che si staglia nella sua orgogliosa magnificenza su tutte le altre vette all’imboccatura della vallata. Non vi sono dubbi circa il fatto che Chomolungma (gli sherpa e i tibetani pronunciano «Ciomolangma») indichi proprio l’Everest in quanto rilievo montuoso, e non tutto il massiccio omonimo.

    Fioccano inoltre le divergenze sul senso di questo termine. È certo che «Jomo» sia un titolo adoperato per indicare una signora nobile o sacra e insieme a «Jobo» (signore) serva per denotare le divinità delle alture. Il «ma» alla fine della parola è la particella linguistica di nominalizzazione femminile. Il dibattito ha riguardato soprattutto l’infisso «lung», il cui unico significato accettabile è bue, o toro, sebbene alcuni ricercatori abbiano proposto il significato di «vento», che deriverebbe da «rlung», o di «luogo» da «ling». In tal caso, si potrebbe postulare dea del luogo o del vento, attribuibile forse alle folate che sempre soffiano su questa cima. Eppure, un altro nome rintracciabile nei dizionari di tibetano è Jomo-kang-chen-ma-ri, ovvero regina delle montagne innevate. Un’altra spiegazione, quella preferita da Edwin Bernbaum nel suo Sacred Mountains of the World, associa il nome all’effettiva dea della montagna. Delle Cinque Sorelle di lunga vita, la più importante, Tseringma, è associata al Gauri Sankar, un altro rilievo montuoso, e nei thanka¹ viene dipinta mentre cavalca un leone delle nevi. Una delle altre quattro sorelle, Miyo Lang Sangma, cavalca una tigre ed è la dea dell’Everest. La cosa innegabile è che gli sherpa nepalesi la adorano in modo speciale. Nell’

    XI

    secolo, il maestro Jetsun Milarepa, che visse e morì in Tibet (1040-1123), redarguì le Cinque Sorelle. Esse avevano infatti causato la moria del bestiame e procurato malattie gravi e contagiose agli abitanti, perché irritate dal fumo dei fuochi dei pastori. Milarepa si rivolse ai paesani dicendo: «Mi è stato indicato in sogno che la pestilenza che affligge ora questi villaggi è causata dalle divinità locali, offese e ferite dai fuochi che avevate attizzato. Per vendicarsi, esse hanno diffuso la pestilenza. Adesso dovete compiere rituali e offerte appropriati». Dopo l’offerta di enormi torma, preghiere e oblazioni ai Deva e agli spiriti, la popolazione guarì. Oggi, la gente che vive nei pressi del Chomolungma è molto cauta col fuoco e scoraggia le spedizioni dal bruciare i rifiuti, specie la plastica, che producono fumi neri e densi.

    Il Dalai Lama di Rongbuk morì nel 1940, dieci anni prima che i cinesi invadessero il Tibet e molto tempo prima che il monastero fosse distrutto durante la «rivoluzione culturale» degli anni Sessanta. (In seguito esso è stato ricostruito e ai nostri giorni lo occupano monaci e monache sotto la supervisione cinese).

    Quando il versante settentrionale divenne inaccessibile per le scalate, raggiungere l’Everest divenne possibile solo da quello meridionale, situato in Nepal. Tutte le prime spedizioni, così come la maggior parte di quelle odierne, invocavano la benedizione dell’abate del monastero di Tengboche, il lama reincarnato Ngawang Tenzin Rinpoche, che distribuiva copie di xilografie della dea Miyo Lang Zang. La stessa raffigurata nei monasteri di Rongbuk e Tengboche e alla quale, durante la festa Mani Rimdu, che si tiene nel mese di novembre nel secondo di questi templi, i monaci recitano orazioni e dedicano uno yak sacro, che viene lasciato libero di vagare sulle pendici del monte. Tutto ciò serve per garantire benessere e prosperità alla gente del luogo. Il fatto che chi la venera beneficerà dei suoi doni è indicato dai dipinti murali dove la divinità appare come una dea dorata che regge nella mano sinistra una mangusta che sputa gioielli e nella destra un cesto di frutta magica. Solo i monaci e le monache del versante nord dell’Everest, oltre ai contadini locali, ritenevano importante questa montagna fino alla scoperta che si trattava della cima più alta della Terra. Dalle vallate meridionali si intravede soltanto la cima e, infatti, per l’etnia sherpa il Khumbila, circa 3000 metri più basso dell’Everest, assume un significato religioso molto più pregnante, poiché esso sorge al centro della loro patria, sopra Namche Bazar, Khunde e Khumjung. Mentre scalano spesso l’Everest, non potrebbero mai arrampicarsi sul Khumbila, profanandolo e turbando la divinità locale, Khumbu’i Yul-lha.

    Gli eventi che portarono all’individuazione dell’Everest come montagna più elevata al mondo ebbero inizio nel 1808 con la mappatura del subcontinente indiano eseguita dalla India Survey. Negli anni Trenta dell’Ottocento si completò la triangolazione dal sud dell’India fino alle pendici dell’Himalaya, ma i cartografi non poterono proseguire l’opera perché il Nepal, temendo per la sua indipendenza, chiuse i confini. Essi provarono ad aggirare il problema effettuando i calcoli da una distanza di 250 chilometri, spesso in condizioni estreme su colli malarici e fitti di giungla, dove perirono molti studiosi britannici. Nel 1849, erano state eseguite un numero sufficiente di osservazioni del Picco

    B

    per poter calcolare l’altezza indicativa sui 9200 metri. Andrew Waugh, l’ispettore generale, ci mise allora un paio d’anni per tener conto anche della rifrazione, che era una variabile dovuta alle differenze della pressione termica e barometrica prevalente. In seguito, alla Montagna

    B

    si diede il nome di

    XV

    e, nel marzo 1856, Waugh fu in grado di affermare che il Picco

    IX

    (Kangchenjunga) misurava 8580 metri, mentre il

    XV

    , salendo fino a 8839 metri, era «presumibilmente la montagna più alta del mondo». Due anni dopo, il Kangchenjunga, in precedenza ritenuto la vetta più elevata, retrocesse al terzo posto, poiché si scoprì che al secondo c’era il

    K2.

    Quest’ultimo continuò a essere designato col vecchio numero di prospezione, dove la

    K

    sta per Karakorum, però occorreva reperire un appellativo adatto per la vetta più alta. Per il Kangchenjunga, l’India Survey si era affidata a un nome locale, laddove nel caso del

    XV

    Waugh insistette per Everest, dal cognome di George Everest, colui che si era incaricato della Great Trigonometral Survey, diventando topografo generale nel 1830 e presiedendo il completamento del Grande arco meridiano, con cui fu possibile stabilire la vera forma terrestre.

    Malgrado si sapesse che il nome tibetano era Chomolungma, e nonostante l’avversione stessa di George Everest, prevalse l’idea di Waugh. Nel 1733, sulla mappa della Cina e del Tibet realizzata da D’Anville e pubblicata a Parigi compariva il nome Tschoumou-Lanckma per segnalare ciò che oggi chiamiamo Everest. Altrove si escogitarono nomi diversi, il che rafforzò ulteriormente il suggerimento di Waugh, il quale fondava la sua scelta sul fatto che non esisteva un’alternativa chiara, e di conseguenza la vetta doveva chiamarsi in onore del suo esimio predecessore. Nel 1865, un anno prima della morte di Everest, la Royal Geographic Society accettò ufficialmente la denominazione «Monte Everest». La disputa prosegue tuttavia, e Chomolungma resta ovviamente il concorrente più agguerrito come possibile variazione. Per intorbidare ancor più le acque, negli anni Cinquanta i nepalesi hanno scovato un nome di loro invenzione: Sagarmatha. Esso significa approssimativamente «Punta nel cielo» e risale al periodo in cui il nazionalismo nepalese era ai massimi livelli e l’interesse straniero era assai attirato dalle «loro» montagne. Gli eventi più importanti che condussero alla comprensione della geografia relativa al monte Everest erano iniziati col geografo francese D’Anville. Lui aveva accumulato le informazioni che riceveva dai gesuiti stanziati a Pechino, che a loro volta formavano gli indigeni tibetani, lama compresi, per raccogliere i fatti e le cifre più rilevanti, così come i topografi britannnici avrebbero poi insegnato ai pundit² indiani, mandandoli sugli altipiani del Tibet. I pundit resero un servizio di inestimabile valore per la mappatura del Tibet meridionale; viaggiavano sotto mentite spoglie, correvano enormi rischi personali e sopportavano grandi privazioni, ma seppero rivelare le sorgenti dei fiumi e identificare la posizione di montagne, paesi e villaggi. I primi due pundit selezionati iniziarono la loro formazione a Dehradun nel 1863. Il più famoso di loro era Nain Singh che, una volta apprese le tecniche clandestine di rilevazione topografica, penetrò in Nepal ed entrò in Tibet dalla frontiera di Kyirong. Raggiunse perfino Lhasa, rilevandone l’esatta ubicazione e stabilendo con una certa approssimazione la sua altezza sul livello del mare. In tutto, coprì 1930 chilometri, tornando a piedi lungo lo Tsangpo superiore fino alla sua sorgente, per poi dirigersi di nuovo a sud, nell’India britannica. Si susseguirono tante altre visite di questo genere che consentirono agli inglesi di cartografare in modo sufficiente le regioni al di là dell’Himalaya. Ulteriori dettagli furono integrati in seguito alla «missione» di Younghusband a Lhasa, nel 1903. I capitani Rawling e Ryder ebbero il permesso di guidare un gruppo di ricognizione nel Tibet occidentale. A un certo punto essi si ritrovarono a soli novanta chilometri dall’Everest. Rawling si entusiasmò per la possibilità di scalare il versante nord. Nel 1907, Natha Singh, un aiutante dell’India Survey, ebbe l’autorizzazione ufficiale per entrare in Nepal al fine di eseguire un’esplorazione della via per l’Everest. Avanzò fino al fiume Dudh Kosi, mettendo su mappa tutte le vette oltre il Lobuche, fino alla lingua del ghiacciaio Khumba. Solo la visita anglo-americana del 1950 raggiunse i piedi della vedretta, che venne scalata l’anno dopo, aprendo la strada alla conquista dell’Everest nel 1953. Negli anni Venti e Trenta, soltanto il Tibet aveva permesso l’accesso a questi monti, ed erano stati gli scalatori britannici a ottenerlo. Dopo la brillante spedizione di ricognizione del 1921, vi fu un deciso tentativo di raggiungere la vetta nel 1922, quando sette sherpa morirono al Colle Nord sotto una valanga. Finch e Bruce arrivarono a 8320 metri di altezza sul versante settentrionale usando l’ossigeno supplementare. Nel 1924 Norton si spinse fino agli 8580 metri senza ossigeno: gli mancavano appena 260 metri. Per quel tempo, era una vera impresa e, per molti anni a venire, la prestazione di Norton fu fonte di ispirazione. Si trattò di un grande passo verso l’ignoto, ma fino al 1950 nessun altro fu in grado di salire su una delle vette da 8000 metri, anche se bisogna dire che la parete nord dell’Everest presenta pochi problemi tecnici, almeno fino a una certa altezza. E le cime nepalesi da 8000 metri restarono inespugnabili fino al 1950, quando i francesi conquistarono per primi l’Annapurna.

    Negli anni Trenta si fecero altri quattro tentativi, tutti falliti a causa delle pessime condizioni climatiche, della cattiva salute dei protagonisti o della carente organizzazione. Il primo sforzo serio di scalare l’Everest da sud venne eseguito nella primavera del 1952 dagli svizzeri, che per poco non ci riuscirono: Lambert e Tenzing Norgay arrivarono quasi al vertice della cresta sud-orientale (8595 metri). Fu un’impresa eccezionale per questi neofiti dell’Everest, che per di più seguirono un percorso mai testato. Tenzing, però, che aveva già tentato quattro volte la parete nord. In autunno ci provarono ancora, ma le brutte condizioni del tempo gli impedirono di superare il Colle Sud. Nel 1953 Tenzing e Hillary si arrampicarono sull’Everest lungo il percorso già seguito dagli svizzeri. Fu un grande lavoro di gruppo guidato da Hunt. Essi sfruttarono i miglioramenti nelle attrezzature e nell’abbigliamento e poterono rifocillarsi durante la scalata, avendo a disposizione i fornelletti. Si comprendeva inoltre meglio il funzionamento fisiologico in alta quota, e il medico della spedizione, Griffith Pugh, convinse tutti gli scalatori della necessità di ingerire liquidi. Se non fosse stato per la rottura dell’apparecchio per l’ossigeno sulla vetta meridionale, Charles Evans e Tom Bourdillon sarebbero arrivati in cima il 26 maggio e avrebbero guadagnato la fama che era destinata a Ed Hillary e allo sherpa Tenzing. La fortuna svolge un ruolo determinante nello stabilire quale spedizione scala per prima una montagna fino in cima…

    Da allora ci sono state tante altre arrampicate sul percorso originario e sono state aperte altre tredici vie su tutti i versanti della montagna, alcune delle quali tecnicamente ardue, come la parete sud-occidentale, specie lungo il pilastro sud-ovest, ma nessuna altrettanto impegnativa di quella imboccata da Willi Unsoeld e Tom Hornbein: nel 1963, questi mossero dalla spalla occidentale in stile alpino per salire sulla sconosciuta e impervia cresta ovest e ridiscendere dall’altra parte.

    Altri hanno offerto prestazioni straordinarie seguendo i percorsi già noti: nel 1978, per esempio, Messner e Habeler sono stati i primi a scalare l’Everest dalla parete nord senza ricorrere alle bombole di ossigeno. Due anni dopo, Messner scalò in solitaria la stessa parete seguendo fino in fondo la via aperta da Norton. L’unico supporto lo ebbe lungo il braccio orientale del ghiacciaio Rongbuk dalla fidanzata, peraltro incinta. Queste due arrampicate hanno contribuito enormemente all’uso dello stile alpino con equipaggiamento leggero. Nel febbraio dello stesso anno i polacchi guidati da Zawarda realizzarono la prima ascensione invernale dell’Everest. Molti altri furono i primi per vari aspetti, alcuni dei quali geograficamente poco rilevanti, quantunque importanti dal punto di vista del coraggio e della soddisfazione personale. Ci sono stati la prima coppia di coniugi a salire sulla vetta, il primo padre col figlio, la salita più rapida, il maggior numero di ascese in una sola stagione e il maggior numero in assoluto. Sono stati stabiliti i primati del più giovane e più anziano, poi regolarmente battuti: attualmente il più giovane ha 13 anni e l’altro ottanta. Ci sono stati vari scalatori portatori di handicap che hanno lottato per arrivare in cima: un cieco, un altro senza un piede. Alcuni sono scesi dalla vetta in parapendio, con gli sci o con lo snowboard, giungendo al ghiacciaio Rongbuk in due ore e mezza! Una statistica amara è quella che ci informa che il 1996 e il 2014 sono stati gli anni in cui si è avuto il maggior numero di morti sull’Everest: rispettivamente, 15 e 17 scalatori. Molti di questi sono periti durante missioni commerciali, che per la loro stessa natura inducono gli arrampicatori meno esperti a esporsi ai capricci meteorologici, agli effetti debilitanti dell’altitudine e alle ambizioni sconfinate di clienti, aziende e anche personali. Un cliente, seguendo un solco nella neve e assicurato a un breve tratto di corda fra le guide, si vantò che l’Everest era la prima montagna che avesse mai affrontato. Ma la scalò davvero? Lo scalatore è chi sale prendendosi la responsabilità per la propria vita e quella dei suoi compagni, dovendo sempre valutare la situazione e il ritmo di arrampicata, giudicare quali saranno le prevalenti condizioni della neve e del tempo, e quando rientrare o spingersi fino in fondo. Ciò implica aver fatto un apprendistato su altre vette, di modo che la scalata diventi una seconda natura, e sapere cosa fare intuitivamente, quasi per istinto, ad altezze in cui vi è nell’atmosfera solo un terzo di ossigeno, dove può infuriare improvvisamente una tempesta, con raffiche di vento che soffiano a 190 chilometri all’ora e le temperature crollano a -50 gradi, e la neve nell’aria non si distingue da quella a terra. Se il cliente corre un rischio, lo stesso dicasi per gli scalatori, almeno a giudicare dal numero di espertissimi alpinisti e sherpa che sono deceduti su questa montagna.

    In ogni caso, tutti quelli che approcciano l’Everest e ne raggiungono la vetta, o arrivano almeno allo stremo delle forze e della resistenza, fanno un’esperienza che li trasforma e attraverso la quale raggiungono un più alto grado di consapevolezza di sé e del mondo. Leggendo quest’antologia, vi renderete conto dei benefici effetti delle grandi scalate, ma anche che tali imprese non si compiono se non correndo enormi rischi fisici.

    Doug Scott

    ¹ Icone tibetane (n.d.t.).

    ² In sanscrito possessore di conoscenza (n.d.t.).

    Introduzione

    Circa cinquanta milioni di anni fa i movimenti della crosta terrestre provocarono la collisione dell’India con l’Asia. Nel cataclisma di calore e pressione che ne scaturì, il margine nord del subcontinente indiano venne spinto verso l’alto, con una gigantesca falda rocciosa lunga 2400 chilometri. A subire l’urto più forte della collisione che fece nascere l’Himalaya fu la parte orientale, dove le vette raggiunsero le altezze maggiori. Uno di questi pinnacoli divenne la montagna più elevata al mondo.

    Non che ciò fosse ignoto nel 1856, quando il topografo generale dell’India Survey emerse dalle complesse misurazioni con il teodolite per annunciare che il Picco

    XV

    toccava gli 8840 metri di altitudine. (Le osservazioni di quei topografi britannici, realizzate da una distanza di più di 160 chilometri dalla vetta, erano impressionanti: i calcoli più moderni, eseguiti nel 1999 col

    GPS

    , rendono 8850 metri). Avendo la sensazione che una tale mole meritasse un nome più degno rispetto all’asettico Picco

    XV

    , il topografo generale propose che la montagna prendesse il nome del suo predecessore, George Everest. In realtà, esistevano già diversi appellativi locali: i tibetani la chiamavano Chomolungma, ovvero dea madre del mondo, mentre per i nepalesi essa era Sagarmatha. I topografi britannici in India preferivano solitamente mantenere la nomenclatura originale, onde eludere le accuse di arroganza imperiale, eppure nel caso del Picco

    XV

    si attennero alla denominazione Everest, che venne fissata su mappa nel 1865 e vale ancora oggi per gli occidentali.

    Anche se la designazione ufficiale di vetta più alta del mondo le conferiva un grande onore, non fu subito possibile saperne di più sul suo conto. Appollaiato sul confine tibetano-nepalese, l’Everest era inaccessibile per motivi sia geografici sia politici, poiché entrambi i Paesi avevano chiuso le frontiere agli stranieri. Nel 1913, quando penetrò clandestinamente in Tibet, l’esploratore britannico J.B.L. Noel fu il primo occidentale ad arrivare a una sessantina di chilometri dalla montagna.

    Nel 1921, gli ostacoli politici vennero fortunatamente rimossi, per cui il governo tibetano consentì una missione inglese di ricognizione in loco. Dopo 640 chilometri sugli altipiani del Tibet, la spedizione del tenente colonnello Howard-Bury raggiunse la parete nord. Nel frattempo, erano stati scoperti il braccio orientale del ghiacciaio Rongbuk e il Colle Nord, che parevano offrire una via promettente per la cresta nord-orientale, da cui proseguire verso la cima. Gran parte del lavoro di ricognizione venne svolto da un insegnante delle scuole pubbliche inglesi, George Leigh Mallory, il cui nome sarà per sempre associato a questa montagna.

    Tutte le successive spedizioni britanniche si scontrarono con le difficoltà del percorso lungo la cresta settentrionale. Nel 1922 Geoffrey Bruce e George Finch avevano raggiunto gli 8230 metri allorché la fatica li obbligò a fare marcia indietro. La primavera del 1924 vide di nuovo gli inglesi lottare contro il Colle Nord. Durante il primo assalto alla vetta, Norton e Somervell giunsero a un buon punto della facciata nord, e il primo proseguì da solo fino a 8573 metri di altezza, appena sotto al grande canalone che conduce proprio alla vetta.

    Seguii il margine superiore della banda, che portava dentro e attraverso il grande canalone, anche se per arrivare fin lì dovevo aggirare due speroni abbastanza pronunciati. Essi scendevano lungo la facciata della montagna, e uno era il prolungamento della cresta orizzontale che chiamavamo secondo gradino, un ostacolo apparentemente formidabile, specie dove attraversava la cresta, così che scegliemmo la via inferiore, anziché cercare di aggirarlo da sopra. Più o meno da dove incontrai quegli speroni, l’ascesa peggiorò sensibilmente; il pendio era molto ripido sotto i miei piedi, le sporgenze d’appoggio si restringevano a pochi centimetri e, mentre mi avvicinavo al riparo del grande canalone, una gran quantità di neve farinosa mi occultava i precari appigli per i piedi. L’intera facciata della montagna era composta da lastre come le tegole dei tetti, quasi tutte angolate verso il basso. Dovetti per due volte tornare sui miei passi e seguire una diversa banda delle falde; lo stesso canalone era pieno di neve farinosa, dove sprofondai fino al ginocchio, talora fino alla cintola, sebbene essa non fosse ancora di una consistenza tale da sostenermi qualora fossi scivolato. Oltre il canalone l’avanzata si fece gradualmente più difficoltosa; mi ritrovai a passare da tegola a tegola, per così dire. Mi sembrava di dipendere sempre più dalla frizione dei chiodi degli stivali sui lastroni. Non che fosse propriamente arduo procedere, ma si trattava di un posto assai pericoloso per uno scalatore solitario non legato a una corda: una semplice scivolata mi avrebbe probabilmente scaraventato in fondo alla montagna. La fatica cominciava a farsi sentire, ero praticamente esausto. Inoltre, il mio problema all’occhio stava peggiorando, ormai per me era un vero e proprio handicap. Mi restavano forse sessanta metri per terminare quella penosa scalata prima di riemergere sulla facciata nord della piramide finale, dove ritenevo di trovare una via facile e sicura per la vetta. Era l’una di pomeriggio e un rapido calcolo mi fece arrivare alla conclusione che non avevo l’opportunità di arrampicarmi per i rimanenti 240 o 270 metri, se volevo rientrare sano e salvo.

    Fino a quel momento, si trattava del punto più alto raggiunto da un uomo. Nella sua terza spedizione, Mallory si era proposto di superarlo. Lo accompagnava Andrew Irvine. L’ultima volta che li videro fu l’8 giugno 1924, a mezzogiorno, sul secondo gradino roccioso del versante nord-est. Quando non li videro tornare, Odell, un loro compagno di scalata, fece mostra di straordinaria fedeltà e abnegazione percorrendo l’intera via dal Colle Nord fino a 8230 di altitudine.

    Mallory e Irvine divennero il grande enigma dell’Everest: riuscirono ad arrivare in cima? A quale destino andarono incontro prima di scomparire nel nulla? La piccozza di Irvine venne recuperata nel 1933 e il corpo di Mallory nel 1999, ma mancano le risposte, ci sono solo altre domande… Perché Mallory decise di prendere con sé l’inesperto Irvine? Forse voleva compiere una missione disperata, della serie farcela o morire? Certo, lui era ambizioso. Ecco cosa diceva Younghusband di Mallory:

    Conosceva i pericoli davanti a sé ed era pronto a sfidarli. Era un uomo intelligente e fantasioso, oltre che audace. Capiva ciò che avrebbe voluto dire avere successo. L’Everest era l’incarnazione delle forze fisiche del mondo. A questo, lui doveva contrapporre lo spirito umano. Già immaginava la gioia sul volto dei suoi compagni se ci fosse riuscito. Prefigurava l’eccitazione che il suo successo avrebbe suscitato in tutti gli scalatori, l’onore che sarebbe spettato all’Inghilterra, l’interesse di tutto il mondo, la fama che avrebbe raggiunto il suo nome e la soddisfazione perpetua per se stesso, per aver reso degna la sua vita. Tutto questo gli passava per la testa, non ci sono dubbi. Mallory aveva conosciuto l’euforia della lotta nelle arrampicate sulle vette delle Alpi, per quanto inferiori a quelle asiatiche. Sull’Everest, l’euforia si sarebbe trasformata in vera esaltazione, forse non subito, ma di sicuro col passare del tempo. Magari egli non fu in grado di formularlo a parole, ma nella sua mente era presente l’idea del tutto o niente. Delle due alternative, tornare di nuovo o morire, quest’ultima era presumibilmente la più facile per lui. L’angoscia della prima ipotesi gli sarebbe stata intollerabile, sia come uomo sia come alpinista o artista.

    Dopo la scomparsa di Irvine e Mallory, trascorsero nove anni prima che i britannici, i quali avevano una sorta di monopolio imperialistico sulle spedizioni per l’Everest, ci riprovassero ancora. Harris, Wager e Smythe eguagliarono il record stabilito da Norton nel 1924, ma non riuscirono a spingersi oltre. La spedizione del 1936, una delle più formidabili mai inviate sull’Himalaya, venne ricacciata indietro da tempeste e valanghe dovute a un monsone disgraziatamente precoce. Si può sostenere che il suo momento più propizio fu allorché Frank Smythe permise allo sherpa Rinzing di assumere il comando della scalata. Fino ad allora, gli sherpa, una popolazione tibetana, erano stati usati solo come portatori, ossia dei coolies, o facchini di montagna.

    Due anni prima, una spedizione britannica molto più ridotta era partita con grandi speranze, ma era stata sconfitta dalle fitte nevicate di un altro monsone anticipato. Pareva che l’Everest si prendesse gioco degli inglesi che volevano conquistarlo. «Stiamo cominciando a essere ridicoli», si lamentò G.I. Finch, uno dei membri della spedizione.

    Il sipario sul primo atto delle spedizioni sull’Everest calò con l’avvento della Seconda guerra mondiale. Eppure, nonostante le delusioni e gli imbarazzi per i ripetuti fallimenti, gli inglesi avevano compiuto qualcosa di apprezzabile. Erano arrivati nei pressi della vetta in tre circostanze, e l’avevano fatto con un equipaggiamento ancora rudimentale. Nelle foto degli anni Venti e Trenta, gli alpinisti che assaltarono la montagna sembrano vestiti per una gita in collina, piuttosto che per un’ascesa in cui le temperature sarebbero crollate sotto lo zero. Ecco come Smythe descriveva la sua dotazione nel 1933:

    Il nostro aspetto, imbacuccati com’eravamo, assomigliava più a Tweedledee e Tweedledum di Alice in Attraverso lo specchio. Io indossavo una canottiera di lana, una camicia di flanella, un maglione in pelo di cammello, sei leggere maglie di lana, due paia di mutandoni di lana, pantaloni di flanella e, sopra tutto, una tuta Grenfell a prova di vento foderata di seta; la testa era protetta da un leggero passamontagna di lana sotto un copricapo di tessuto Grenfell. Ai piedi portavo quattro paia di calze e calzettoni in lana. La necessità imponeva scarponi larghi con chiodi piccoli, che però avevano una presa eccezionale sui lastroni. Ancora si devono disegnare i guanti ideali per il monte Everest, ma un paio di guanti di lana senza dita sotto un paio di guanti sudafricani in pelle d’agnello tenevano la mani abbastanza calde.

    Sebbene tutte le spedizioni britanniche anteriori alla guerra disponessero di ossigeno, e sebbene alcuni membri fossero contrari a usarlo perché lo si considerava un inganno etico, il relativo equipaggiamento era pesante e spesso difettoso. Quando si cominciò a riflettere su questo peso, ci si accorse che i benefici erano minori dei vantaggi, e in molto lo abbandonarono.

    Al termine del secondo conflitto mondiale, gli scalatori inglesi tornarono alla carica e ricominciarono a riflettere su come risolvere lo spinoso problema dell’Everest. Quando venne aperto il confine nepalese, la montagna divenne raggiungibile direttamente dall’India, sicché l’attenzione si spostò sul lato sud. Le ricognizioni del 1950 e 1951 stabilirono che l’unico percorso agibile doveva attraversare il ghiacciaio Khumbu fino al

    CWM

    occidentale, una valle ghiacciata condivisa da Everest, Lhotse e Nuptse. Con grande stizza dei britannici, i nepalesi concessero la prima autorizzazione per l’Everest agli svizzeri, che in effetti l’avevano richiesta in anticipo e si disposero a salire dalla parte del Colle Sud nel 1952. Così, Raymond Lambert e Tenzing Norgay raggiunsero gli 8600 metri della cresta sud-orientale. Quasi la cima, ma non proprio.

    Il 1953 fu l’anno della spedizione dell’inglese John Hunt, con tutto il peso della storia e delle esperienze precedenti. Essi seguirono la via che avevano già esplorato e aperto pionieristicamente gli svizzeri, dopodiché effettuarono il primo tentativo il 26 maggio, quando Evans e Bourdillon arrivarono alla vetta sud, potendo scorgere da vicino la cresta finale. Se non fosse stato per il cattivo funzionamento del respiratore a circuito chiuso di Evans, essi avrebbero tagliato per primi il traguardo della fama. La fortuna arrise invece al secondo gruppo che diede l’assalto: Edmund Hillary e Tenzing Norgay, che usarono respiratori a circuito aperto, raggiunsero la vetta alle 11:30 del 29 maggio 1953. Finalmente l’Everest era stato scalato. Ecco come Hillary descrisse il momento fatidico in cui l’uomo violò la cima del mondo:

    La mia prima sensazione fu di sollievo; sollievo per la fine della faticata, per aver toccato la vetta prima che le nostre riserve di ossigeno scendessero sotto il livello critico, e perché alla fine la montagna era stata gentile con noi, facendoci trovare in cima un cono piacevolmente arrotondato, anziché una cornice temibile e inavvicinabile. Tuttavia, vi era anche un vago stupore per aver avuto la fortuna di realizzare l’ambizione per cui avevano lottato tanti scalatori coraggiosi e determinati. All’inizio non riuscivo a rendermi conto di avercela fatta. Ero troppo stanco, e consapevole della lunga via da percorrere per ridiscendere verso la sicurezza, per provare una vera felicità. Ma quando l’idea del nostro successo invase con chiarezza la mia mente, avvertii un’ardente soddisfazione che mi si diffuse in tutto il corpo, una soddisfazione muta ma più potente di quanto avessi mai provato sulla cima di una qualsiasi altra montagna. Mi voltai per guardare Tenzing. Riuscivo a vedere il suo contagioso sorriso estasiato perfino sotto la maschera per l’ossigeno e i ghiaccioli che gli pendevano dai capelli. Allungai una mano e ce la stringemmo in silenzio, alla maniera anglosassone. Ma per lui non era abbastanza, e mi gettò impulsivamente le braccia al collo, dopodiché ci congratulammo a vicenda con vigorose pacche sulle spalle.

    La conquista del 1953 non è stata la fine della storia dell’Everest, ovviamente, solo il suo capitolo più importante. La montagna era ancora lì, invitante. I cinquant’anni seguenti hanno visto la lotta di migliaia di persone che volevano salire sulla cima del mondo, e la maggioranza di esse intraprese la stessa via di Hillary e Tenzing. Naturalmente, la fantasia degli scalatori è tale che sono state percorse tante altre vie per arrivare in vetta. Nel 1960 i cinesi ci provarono passando dalla cresta nord-orientale, il percorso ripetutamente fallito dagli inglesi negli anni Venti e Trenta, e nel 1963 gli americani Tom Hornbein e Willi Unsoeld giunsero alla sommità dal versante occidentale, ritenuto non scalabile. I primi britannici ad arrivare in cima (Hillary era un neozelandese in una spedizione inglese) sono stati Doug Scott e Dougal Haston, che nel 1975 scalarono la facciata sud-ovest, ancora vergine. Il versante est, o Kangshung, si sottomise agli americani Lou Reichardt, Kim Momb e Carlos Buhler nel 1983. Anche in queste pareti si scovarono variazioni di percorso. In totale, sono state aperte finora una quindicina di vie per la cima dell’Everest.

    Comunque, ciò che conta a volte non è la via che si percorre ma il modo in cui lo si fa. Nel 1975 l’alpinista giapponese Junko Tabei è stata la prima donna a salire sull’Everest. Reinhold Messner e Peter Habeler sono stati i primi, nel 1978, a farlo senza ossigeno, mettendo quindi fine a decenni di polemiche, poiché molti ritenevano che fosse impossibile. «Un solo polmone ansimante si libra sulle brume e sulle vette», così descrisse l’esperienza l’altoatesino Messner.

    Lo stesso scalatore ci tornò nel 1980 per un’impresa sans pareil. Scalò l’Everest in solitaria, di nuovo senza ausilio delle bombole a ossigeno.

    Negli anni Novanta, scalare l’Everest era già diventato qualcosa di commerciale. Agenzie di viaggi e avventure portavano i clienti fin sulla vetta in cambio di denaro sonante.

    Ma chiunque pensasse che l’Everest fosse stato domato ha dovuto ricredersi. La montagna si lasciava generosamente scalare da alcuni, facendone precipitare altri. Essa decise di mostrare la sua forza intatta anche nel 1996, quando una bufera improvvisa uccise in un solo giorno sei scalatori, che andarono a unirsi agli altri 150 uomini e donne periti su questo massiccio.

    Ma le statistiche negative non riescono a dissuadere gli arrampicatori. Esistono montagne più difficili su cui cimentarsi, ma l’Everest è il posto più alto del pianeta. Gran parte dell’atmosfera terrestre si trova al di sotto della sua vetta. Una volta, Mallory disse che voleva salire sull’Everest «perché è lì». Avrebbe potuto aggiungere che è lì per mettere alla prova il coraggio e la resistenza dell’uomo.

    L’Everest è un’avventura irresistibile. Corde fisse e abbigliamento migliore possono forse facilitarla rispetto alle condizioni del 1953, di certo rispetto a quelle del 1924, ma non la renderanno mai agevole. E per assicurarsi che gli uomini non la diano mai per scontata, la dea madre del mondo nasconde un asso nella sua manica ghiacciata.

    A causa dell’attrito incessante fra le placche tettoniche della terra e dell’accumulo di neve sulla sua vetta, lei diventa ogni anno più alta.

    Everest 1913

    Clandestino in Tibet

    J.B.L. Noel

    Fu Clinton Dent, l’eminente scalatore vittoriano, ad avanzare pubblicamente per primo l’idea di salire sull’Everest nel suo Above the Snowline, uscito nel 1885. Lui era convinto che fosse «umanamente possibile farlo» e che il problema dell’«aria sottile» sarebbe stato risolto con l’acclimatazione. In effetti, le prime imprese in questa regione non furono impedite da cose eteree come l’ossigeno, bensì da più prosaiche considerazioni di natura politica in Estremo oriente. I tibetani erano zelanti nell’escludere gli stranieri dalla loro patria, al pari dei nepalesi. Nel contempo, il governo imperiale britannico, che avrebbe potuto facilitare una spedizione inglese a partire dal Nepal o dal Tibet (Paesi con cui la Gran Bretagna intratteneva rapporti d’amicizia), era deciso per «alti motivi di opportunità politica» a non aiutare gli alpinisti che avevano in mente di cimentarvisi. Di conseguenza, si precludeva ogni approccio all’Everest. Prima delle grandi spedizioni degli anni Venti, ci fu un occidentale che si avvicinò più di tutti alla montagna: era il giovane fotografo e avventuriero inglese John Noel, che entrò illecitamente in Tibet nel 1913. Lui riuscì a intravedere di sfuggita l’Everest, anche se da una distanza di 65 chilometri.

    Avendo già viaggiato parecchio tra le montagne di India e Tibet, nel 1913 decisi di cercare i valichi che portavano all’Everest e se possibile giungere a stretto contatto della montagna. L’Everest! Finora inavvicinabile per gli uomini della mia razza; protetto, correvano le fantastiche voci, dai lama più sacri che dimoravano in mistica contemplazione dell’anima di questo picco gigantesco, in comunione spirituale coi demóni e gli dèi protettori! Era un traguardo allettante.

    Pensai che, se mi fossi mosso insieme ad alcuni montanari indiani e tibetani, avrei evitato l’attenzione che avrebbe attirato un gruppo di uomini bianchi. Avevo ragione, ma un drappello di soldati mi obbligò lo stesso a fare marcia indietro, a 65 chilometri dall’obiettivo.

    Per stornare la curiosità, intendevo eludere i villaggi e in genere le zone abitate, procedendo il più possibile lungo le distese desolate, in cui si avvistava di tanto in tanto un pastore solitario. I miei uomini non erano granché diversi dai tibetani e, se mi scurivo la pelle e i capelli, avrei potuto passare se non per un indigeno (il colore e la forma degli occhi me lo avrebbero impedito) almeno per un maomettano dell’India. Un musulmano sarebbe risultato uno straniero sospetto in Tibet, ma evidentemente non quanto un bianco.

    Non speravo di sfuggire del tutto alla curiosità, ma quel tanto che mi concedesse di raggiungere il mio scopo prima che una forza di sicurezza ci intercettasse. Progettai il percorso basandomi sugli scritti di Sarat Chandra Das.

    Avevo intenzione di attraversare i monti presso un valico non usato né controllato dai tibetani, che separava i distretti abitati del Tibet meridionale, verso Khamba Dzong e Tinki, aprendo, o almeno lo speravo, una via elevata dietro il Kangchenjunga fino alla gola dell’Arun, dopodiché ci sarebbero stati i ghiacciai orientali dell’Everest.

    Un’ambizione che covavo da anni, il risultato di studi e preparazioni accurate. Un traguardo impossibile se non avessi avuto l’ausilio degli uomini che avevano già viaggiato con me. Sapevo come impartire loro le mie direttive: si trattava di semplici uomini di montagna, parlavo la loro lingua e si fidavano di me come io di loro. Viaggiando con qualcuno, si diventa amici, oppure si finisce per litigare.

    Adhu era un bhutia con tutto il vigore della sua razza e dei suoi vent’anni. Il tipico volto largo si apriva sempre a un sorriso, qualsiasi cosa accadesse, e questo è il motivo principale per cui lo presi con me. Tebdoo era uno sherpa nepalese, un uomo rude ma dal cuore d’oro che sapeva tutto quel che c’è da sapere sulle montagne e sulle pecore selvatiche. Dopo quel viaggio, disse che sarebbe tornato a lavorare per me in India e non riusciva a credere che laggiù non vi fossero pecore selvatiche cui dare la caccia. Tuttavia, alla fine del viaggio dovetti staccarmi da lui e rispedirlo nel selvaggio Nepal. Onestamente, mi è dispiaciuto farlo.

    Badri, un ometto proveniente dal montuoso Garhwal, era sempre stato uno dei miei compagni preferiti per recarmi sull’Himalaya. Lo tenevo vicino a me, gli facevo portare il fucile e la macchina fotografica. Lui apprezzava in modo particolare gli scenari di montagna, forse non per la bellezza che vi avrebbe colto un artista, ma essendo nato e cresciuto fra i monti ne subiva il fascino intrinseco, quel non so che capace di attirare, rallegrare e dominare l’anima di un montanaro. Com’era impaziente e scontento nelle pianure indiane, prima che potessimo avviarci verso l’Himalaya! La sua piccola figura vigorosa e intrepida si sentiva sola fra gli indù delle pianure. Ma col trascorrere dei giorni e con l’approssimarsi di quello stabilito per la partenza, cominciò a divertirsi col bandobast³: allora, trascorse le giornate felice e spensierato.

    Era mia intenzione essere libero di vagare, senza ingombri, per cui preparai un bagaglio che sarebbe entrato in due piccoli bauli di stagno comprati nel bazar locale, con una scorta di coperte e due tende. Nei bauli nascosi due macchine fotografiche e gli strumenti per disegnare e cartografare; un termometro per il punto di ebollizione in altitudine; un buon modello di fucile americano smontabile, da riporre in qualsiasi coperta, con una scorta di munizioni; il mio revolver e le pistole automatiche per gli uomini.

    Traboccavo di entusiasmo per quest’avventura. Il luogo d’incontro con Adhu e Tebdoo era Darjeeling, dove avremmo comprato i pony. Poi ci saremmo addentrati nel cuore delle grandi foreste che ricoprono le colline alle pendici dell’Himalaya. Avremmo attraversato i boschetti della foresta tropicale, salendo nella regione dei pini, dei larici, dei ginepri e dei rododendri, e oltre il limite della vegetazione fino ai valichi bloccati dalla neve e al Tibet non ancora mappato.

    «Guarda, sahib⁴, ecco le montagne!».

    A svegliarmi fu il piccolo Badri, che era salito sul mio vagone del Bengal Express notturno che collega Calcutta con Jalpaiguri e Siliguri. A Jalpaiguri, l’alba permette al viaggiatore di avvistare le foreste del Terai, con le loro paludi stagnanti, le radure delle risaie e le piantagioni di tè. Una distesa di colline di un colore verde smorto si alza bruscamente da queste pianure nebbiose. Qui e là, sui lontani pendii, risplendono sotto la luce del sole i bianchi tetti di stagno dei bungalow dei coltivatori di tè. Alcuni di essi occupano un piccolo spazio in mezzo al mantello della foresta che ammanta la collina.

    Se la mattina è limpida, più a nord, sopra le verdi pendici avvolte nella foschia, si può vedere la grande catena dell’Himalaya: essa si staglia a un’altezza incredibile, con la sua linea dentellata di picchi di un bianco abbagliante che si stende lungo l’orizzonte, da est a ovest.

    Da Siliguri parte un trenino che sembra un giocattolo. Si dice che percorra la linea ferroviaria di montagna più tortuosa e piccola al mondo. Eppure, svolge un’opera gigantesca. In 65 chilometri, si arrampica per 2400 metri fino a Darjeeling, in cima alle alture. Viaggia dalle pianure afose delle foreste tropicali e attraversa il Terai, dove stanno in agguato le tigri e dove i coltivatori di tè curano le loro piantagioni. Tra curve e svolte tortuose, sale sempre più in alto, facendo la spola avanti e indietro. Per una decina di volte traccia percorsi a 8, zigzaga, si avvita su se stesso, la motrice doppia la coda del convoglio e il conduttore si sporge per parlare coi passeggeri dell’ultima vettura.

    I binari corrono di fianco alla carrozzabile e il macchinista fischia per avvisare i carri e far spostare galline e bambini. Di notte, un uomo si mette davanti alla motrice con una grande torcia per illuminare i binari e assicurarsi che nessun elefante o tigre provochi una collisione!

    A Ghoom si vede la prima neve. Un panorama che ripaga delle ore di attesa, quando il treno ondeggiando svolta improvvisamente. L’altezza del Kangchenjunga, la terza montagna più alta al mondo, coi suoi 8535 metri, è talmente inattesa che la gente spesso scambia la sua punta argentea per una formazione nebulosa.

    Ricordo le osservazioni dei passeggeri del mio scompartimento, più che altro residenti del luogo: disabili e uomini d’affari che non smetterebbero mai di leggere il loro giornale per ammirare una montagna. Tutti concordavano sul fatto che il Kangchenjunga, una guglia di ghiaccio che perfora i cieli, è davvero una visione potente, anche se la loro attenzione si focalizzava più sul recupero dei pacchi e sul dubbio se il tal dei tali sarebbe stato alla stazione per accoglierli. Stavamo entrando a Darjeeling.

    Come tutte le stazioni indiane di alta collina, Darjeeling si situa proprio in cima. Ci sono costruzioni graziose come le sedi dei circoli; per esempio il Gymkhana Club, dove un quartetto musicale londinese intrattiene le danze, apparentemente giorno e notte. Vi sono una missione scozzese, le caserme, un ospedale e un punto di osservazione verso cui i turisti si recano in risciò, per sporgersi da una balaustra di ferro da cui ammirare, a 1800 metri di altezza, la fumante vallata sottostante. Da lì si gode un panorama che va dalle foreste tropicali alle nevi perenni.

    Alle due del mattino, il portiere d’albergo passa a suonare un grande campanello d’ottone che sta fuori a ogni stanza, tornando ogni dieci minuti per sincerarsi che nessuno dimentichi che i pony e i risciò aspettano per condurci a Tiger Hill, dove la gente va ad ammirare il sorgere del sole sul Kangchenjunga e sull’Everest. In effetti, è uno spettacolo indimenticabile. Il Kangchenjunga attira l’attenzione perché è così vicino, enorme e torreggiante. Più lontano, a ovest, svetta un massiccio di picchi giganteschi. Fra questi, la guida indica la piramide che fa capolino dietro le altre e sembra più piccola; quella montagna è l’Everest.

    Altrettanto interessante del primo avvistamento delle montagne è l’approccio iniziale con gli abitanti locali. Di domenica mattina, si trova sulla piazza del mercato una folla del tutto diversa dalla gente delle pianure indiane. Sono persone felici e cordiali, e non si vedono donne col velo che nasconde il viso. Sono ragazze bhutia gioviali, alcune molto carine, ma ti conquistano soprattutto per il sorriso e il buonumore. Sono tutte maliziose, e fumano continuamente sigarette. Svolgono la maggior parte dei lavori più duri, mentre i loro uomini si radunano in gruppetti per giocare a dadi agli angoli delle strade, oppure bighellonano lungo i muri, ridendo sguaiati e scappellandosi davanti a chiunque ritengano possa dargli un’elemosina. Anche gli uomini sono comunque allegri e di bell’aspetto; indossano vestiti sgargianti, hanno voci roche e capelli lunghi con acconciature diverse. Trainando i risciò o portando i bagagli all’Everest Hotel, guadagnano quel che basta per ubriacarsi. Sia gli uomini che le donne sono davvero forzuti. Si racconta di una portatrice bhutia che trascinò da sola un enorme pianoforte per 150 metri dalla stazione al citato albergo.

    È con questi individui che si convive quando si perlustrano le foreste e le montagne attigue a Darjeeling. Sono compagni di viaggio squisiti, però il viaggiatore deve saperli capire e gestire. Hanno infatti l’abitudine di fermarsi nei locali dei villaggi limitrofi a bere, dopodiché si ubriacano e lasciano i clienti senza giaciglio né viveri nella prima notte all’aperto.

    Io scelsi con gran cura i miei pony. Un uomo può affidare tranquillamente la sua vita a un cavallino senza doversi mai preoccupare di tenere le redini sugli stretti sentieri, fra gole e precipizi: essi sono infatti molto saldi sulle zampe.

    Avendo incontrato Adhu e Tebdoo come previsto, tutto era pronto per la partenza. Il fresco di Darjeeling e la brezza che spirava sulla cima delle alture mutarono rapidamente quando scendemmo nella valle del Tista, circa 2300 metri più in basso. Stavamo entrando nella foresta umida, con la vegetazione fitta tanto che gli alberi e le piante rampicanti che vi si attorcigliano vanno a formare, intrecciandosi, una verde galleria di fronde che occulta il cielo.

    Un chilometro dopo l’altro, scendevamo più in basso. Il sole rovente faceva ribollire la giungla e si spandevano vapori dall’odore nauseante. Sciami di insetti riempivano l’aria con un ronzio incessante. Poi vennero le sanguisughe di terra ad attaccarci le gambe, fissandosi sugli stivali; altre saltavano dagli alberi, guidate da un istinto indefinibile (meraviglioso, sebbene orribile, dal momento che sono cieche), oscillando mentre ci avvicinavamo e piombando su di noi con tempismo perfetto. Non c’è modo di sfuggire alle sanguisughe. Bisogna arrendersi all’idea di perdere un sacco di sangue. Un piccolo dono erano le splendide farfalle lungo la strada: enormi, misuravano fino a sei centimetri da un’ala all’altra, e la varietà dei colori era stupefacente.

    Nei seguenti giorni di marcia, a ogni curva della strada, che era tortuosa perché seguiva i meandri del Tista attraverso la foresta, si apriva uno scorcio sul fiume, che qui è ampio e spumeggiante per i grandi massi al centro della corrente, e fiancheggiato da ripide pareti montuose la cui fitta vegetazione s’inoltra nell’acqua. Attraversammo un ponte sospeso in metallo, una debole struttura traballante e ondeggiante a ogni passo, sotto la quale il torrente aveva scavato una gola larga appena nove metri ma profonda almeno novanta.

    Giorno dopo giorno, il sentiero saliva sempre più e lo scenario cambiava quasi per magia. La giungla intricata spariva, ed entravamo in una ridente

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