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Vita di Don Chisciotte e Sancho Panza
Vita di Don Chisciotte e Sancho Panza
Vita di Don Chisciotte e Sancho Panza
E-book403 pagine5 ore

Vita di Don Chisciotte e Sancho Panza

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Edizione integrale

Il capolavoro di Miguel de Unamuno è un libro unico nel suo genere: all’esegesi della storia di Don Chisciotte e Sancho Panza, infatti, intreccia e associa interpretazione storica e filologia, critica e speculazione, rilanciando gli argomenti di Cervantes ed estremizzandoli in una continua sfida. Don Chisciotte rappresenta la suprema incarnazione dell’idealismo umano, la cui meta, perseguita con coraggio e abnegazione, è piuttosto un miraggio che un luogo concreto. L’approccio di Unamuno è lirico e a tratti mistico e spesso gli episodi che hanno per protagonista il Cavaliere dalla Triste Figura vengono paragonati ad altri simili della vita di Ignazio di Loyola. Una dimostrazione in più del fatto che Don Chisciotte è degno modello cui ispirarsi e che la sua “follia” è in realtà la più pura saggezza.
Miguel de Unamuno y Jugo
(1864-1936) fu poeta, filosofo, scrittore, drammaturgo e deputato. Personalità controversa del Novecento spagnolo, fu rettore all’Università di Salamanca, esiliato nel 1924 e poi, rientrato in Spagna, dopo un tiepido appoggio al regime franchista, fu tra le voci critiche dell’operato e del militarismo di Franco. Tra le sue opere ricordiamo i saggi Del sentimento tragico della vita negli uomini e nei popoli e L’agonia del Cristianesimo; i romanzi Nebbia, Pace nella guerra, San Manuel Bueno martire e le Tre novelle esemplari.
LinguaItaliano
Data di uscita4 ago 2016
ISBN9788854198418
Vita di Don Chisciotte e Sancho Panza
Autore

Miguel de Unamuno

Miguel De Unamuno (1864 - 1936) was a Spanish essayist, novelist, poet, playwright, philosopher, professor, and later rector at the University of Salamanca.

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    Anteprima del libro

    Vita di Don Chisciotte e Sancho Panza - Miguel de Unamuno

    568

    Titolo originale: Vida de Don Quijote y Sancho

    Traduzione di Clara Serretta

    Prima edizione ebook: settembre 2016

    © 2016 Newton Compton editori s.r.l. Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-9841-8

    Realizzazione a cura di The Bookmakers Studio editoriale, Roma

    www.newtoncompton.com

    Miguel de Unamuno

    Vita di Don Chisciotte e Sancho Panza

    Edizione integrale

    Newton Compton editori

    Il sepolcro di Don Chisciotte

    Mi domandi, mio buon amico, se so come scatenare un delirio, una vertigine, una qualsiasi pazzia su queste povere folle ordinate e tranquille che nascono, mangiano, dormono, si riproducono e muoiono. Non ci sarà un modo, mi chiedi, per riprodurre l’epidemia dei flagellanti o quella dei convulsionari? E mi parli del millennio.

    Come te, anche io sento spesso la nostalgia del Medioevo; come te, mi sarebbe piaciuto vivere tra gli spasmi del millennio. Se riuscissimo a far credere che in un dato giorno, per esempio il 2 maggio del 1908, il centenario del grido d’indipendenza, sparirà per sempre la Spagna, che in quel giorno saremmo divisi come agnelli, allora credo che il 3 maggio del 1908 diverrebbe il giorno più grande della nostra storia, l’alba di una nuova vita.

    Il presente è una miseria, una miseria totale. A nessuno importa niente di niente. E quando qualcuno cerca di sollevare isolatamente questo o quel problema, questa o quella questione, si crede che lo faccia o per interesse o per desiderio di notorietà e ansia di mettersi in mostra.

    Non si comprende qui nemmeno la pazzia. Persino del pazzo si crede e si dice che per esser tale avrà il suo tornaconto o le sue ragioni. Per questi miserabili la ragione dell’assenza di ragione è già di per sé un fatto. Se il nostro signor Don Chisciotte resuscitasse e tornasse in questa sua Spagna, ci si chiederebbe qual è la secondaria intenzione dei suoi nobili deliri. Se qualcuno denuncia un abuso, se persegue l’ingiustizia, se fustiga la villania, gli schiavi si domandano: «Che cosa andrà cercando? A che cosa mira?». Qualche volta si penserà che lo fa perché vuole che gli venga tappata la bocca riempiendola d’oro, qualche altra per meschinità e basse passioni di vendetta e invidia; altre ancora che lo fa solo per far parlare di sé, per vanagloria; altre ancora infine per divertimento, per passare il tempo, per sport. Che gran peccato che a sport simili si dedichino così in pochi!

    Guarda e osserva. A fronte di un qualsiasi atto di generosità, di eroismo, di pazzia, tutti questi stupidi baccellieri, curati e barbieri di oggi, non faranno altro che domandarsi: «Perché mai?». E quando crederanno di aver scoperto la ragione di quel gesto – sia o meno quel che loro supponevano – diranno: «Bah! L’ha fatto per questo o per quello». Dal momento che una cosa ha una sua ragion d’essere e loro la conoscono, quella stessa cosa perde ogni suo valore. A questo serve loro la logica, la sporca logica.

    Comprendere è perdonare, si è detto. E questi miserabili hanno bisogno di comprendere per perdonare colui che li umilia, colui che con le parole o con i fatti li pone faccia a faccia con la loro miseria, pur senza parlar di essa.

    Sono giunti a chiedersi stupidamente perché Dio ha creato il mondo e si sono risposti da soli: «Per la sua stessa gloria!». Con grande soddisfazione, tra l’altro, come se quegli stolti sapessero cos’è la gloria di Dio.

    Prima vennero fatte le cose, dopo se ne stabilì il perché. Datemi pure una idea nuova, una qualsiasi, a proposito di un qualsiasi argomento, e quella idea stessa mi dirà dopo a che serve.

    Qualche volta, quando espongo un progetto, qualcosa che credo si dovrebbe fare, qualcosa che, soprattutto, credo si dovrebbe dire, c’è sempre qualcuno che mi chiede: «E poi?». A domande del genere non si può rispondere in altro modo che con un’altra domanda. Al «e poi?» non si può che replicare con un «e prima?».

    Non c’è futuro: non c’è mai futuro. Quello che chiamano futuro è una delle più grandi mistificazioni. Il vero futuro è l’oggi. Che ne sarà di noi domani? Non c’è nessun domani. Che ne sarà di noi oggi, allora? Questa è l’unica domanda.

    E quanto a oggi, tutti quei miserabili sono soddisfatti perché esistono, e questo gli basta. L’esistenza, la pura e nuda esistenza, sazia le loro anime. Non sentono che c’è qualcosa di più dell’esistere.

    Ma esistono? Esistono davvero? Io credo di no; perché se esistessero, se esistessero davvero, soffrirebbero del fatto di esistere e non si accontenterebbero. Se esistessero davvero nel tempo e nello spazio, soffrirebbero di non esistere in eterno e nell’infinito. E questa sofferenza, questa passione, che non è altro che la passione di Dio in noi, Dio che in noi soffre nel sentirsi intrappolato nella nostra finitezza e nella nostra temporalità, questa sofferenza divina li indurrebbe a rompere tutti quei meschini vincoli logici con i quali cercano di collegare i loro meschini ricordi alle loro meschine speranze, l’illusione del loro passato all’illusione del loro futuro.

    «Perché lo fa?». Forse Sancho ha mai chiesto a Don Chisciotte perché faceva quel che faceva?

    Torna dunque alla tua domanda, alla tua preoccupazione: che pazzia collettiva potremmo inculcare in queste povere folle? Che delirio?

    Tu stesso ti sei avvicinato alla soluzione in una di quelle lettere in cui mi poni un fuoco di fila di questioni. In quella in particolare, mi dicevi: «Non credi che potremmo tentare una nuova crociata?».

    Ebbene, sì; credo che si possa tentare la santa crociata di andare a riscattare il sepolcro di Don Chisciotte dal dominio dei baccellieri, dei preti, dei barbieri, dei duchi e dei canonici che lo occupano. Credo che si possa tentare la santa crociata di andare a riscattare il sepolcro del Cavaliere della Follia e sottrarlo ai gentiluomini della Ragione.

    Costoro difenderanno, è naturale, la loro usurpazione e cercheranno di dimostrare con molte e studiate motivazioni che la guardia e la custodia di quel sepolcro compete a loro. Lo controlleranno, affinché il Cavaliere non resusciti.

    A quelle motivazioni, bisogna rispondere con insulti e pietrate, con urla di passione e colpi di lancia. Con quella gente non si può ragionare. Se cerchi di replicare ai loro ragionamenti, sei spacciato.

    Se ti domandano, come sono soliti, con che diritto rivendichi il sepolcro, non rispondere nulla, poiché lo vedranno in seguito. In seguito… forse quando ormai né tu né loro sarete più di questo mondo, perlomeno di questo mondo dell’apparenza.

    E questa santa crociata porta un gran vantaggio a quelle altre sante crociate che hanno fatto albeggiare una nuova vita in questo vetusto mondo. Quegli ardenti crociati sapevano dove si trovava il sepolcro di Cristo, dove si diceva che fosse, mentre i nostri di crociati non hanno idea di dove sia il sepolcro di Don Chisciotte. Bisogna cercarlo e litigare per riscattarlo.

    La tua donchisciottesca follia ti ha spinto più di una volta a parlarmi del donchisciottismo nei termini di una nuova religione. E a questo proposito, devo dirti che qualora questa nuova religione che proponi e di cui mi parli dovesse prendere piede, avrà due singolari prerogative. Una, quella di avere un fondatore, un profeta, Don Chisciotte – non Cervantes, ovviamente – che non siamo sicuri che sia stato un uomo reale, in carne e ossa, anzi sospettiamo che sia pura finzione. L’altra sua prerogativa sarà quella di avere un profeta ridicolo, di cui la gente si fece beffe.

    È proprio questo valore che più ci manca: quello di affrontare il ridicolo. Il ridicolo è l’arma che maneggiano tutti i miserabili baccellieri, preti, canonici e duchi che tengono nascosto il sepolcro del Cavaliere della Follia. Il Cavaliere che fece ridere il mondo intero, pur senza far mai una battuta. Aveva l’anima troppo grande per partorire battute. Fece ridere con la sua serietà.

    Comincia, dunque, amico mio, a far Pietro l’Eremita e chiama a raccolta le genti, che si uniscano a te, a noi, e andiamo tutti insieme a riscattare questo sepolcro che non sappiamo dove sia. La crociata stessa ce ne rivelerà il sacro luogo.

    Vedrai: quando il sacro squadrone si metterà in marcia, apparirà in cielo una nuova stella, visibile solo dai crociati, una stella fulgida e sonora, che intonerà un canto nuovo in questa lunga notte che ci avvolge. Questa stella si metterà in marcia non appena lo farà lo squadrone dei crociati, e quando avranno vinto la loro crociata, oppure saranno periti tutti – che a volte è l’unico modo di vincere davvero – la stella cadrà dal cielo, e nel luogo in cui cadrà, lì sarà il sepolcro. Il sepolcro si trova laddove muore lo squadrone.

    E lì dove sta il sepolcro, lì c’è la culla, lì c’è il nido. E da lì ritornerà a sorgere la stella fulgida e sonora, sulla via del cielo.

    Non chiedermi altro, amico caro. Quando mi induci a parlare di queste cose, mi fai trarre dal fondo dell’anima, addolorata dalla volgarità che da ogni parte mi tormenta e mi incalza, addolorata per gli schizzi del fango della menzogna in cui sguazziamo, addolorata per i graffi della codardia che ci avvolge, mi fai trarre dal fondo dell’anima addolorata le visioni prive di senso, i concetti privi di logica, le cose che io stesso non so cosa vogliano dire, né tantomeno voglio sincerarmene.

    «Che vuoi dire con questo?», mi hai chiesto più di una volta. E io ti ho risposto: «Pensi che io lo sappia?».

    No, mio buon amico, no! Nemmeno io so cosa vogliono dire molte delle trovate del mio spirito che ti confido, o meglio, io per primo non lo so. C’è qualcuno dentro di me che me le detta, che me le dice. Io gli obbedisco e non mi avventuro a guardargli il volto, né a chiedergli come si chiama. So solo che se gli vedessi il viso e mi dicesse il suo nome, io morirei affinché lui sopravvivesse.

    Mi vergogno di aver talvolta inventato esseri fittizi, personaggi romanzeschi, per mettere loro in bocca ciò che non mi azzardavo a mettere nella mia e far loro dire per scherzo ciò che io penso sul serio.

    Tu mi conosci, tu, e sai bene quanto sia lungi da me ricercare apposta paradossi, stravaganze e singolarità, al di là di quel che pensano alcuni stupidi. Tu e io, mio buon amico, mio unico amico assoluto, abbiamo parlato molte volte, da soli, della follia e abbiamo commentato quella frase del Brand ibseniano, figlio di Kierkegaard, che dice che è pazzo colui che è solo. E abbiamo concordato che una qualsiasi follia smette di essere tale non appena diventa collettiva, non appena diventa follia di un intero popolo, forse di tutto il genere umano. Non appena un’allucinazione diventa collettiva, diventa popolare, diventa sociale e smette di essere allucinazione per trasformarsi in realtà, in qualcosa che è al di là di tutti coloro che la condividono. E sia tu che io siamo d’accordo che bisogna dare alla folla, al popolo, al nostro popolo spagnolo, una follia qualsiasi, la follia di uno qualsiasi dei suoi membri che sia folle, ma folle davvero e non per finta. Folle, e non stupido.

    Tu e io, mio buon amico, ci siamo scandalizzati davanti a ciò che qui chiamano fanatismo e che, per nostra disgrazia, non lo è. No, non è fanatismo nulla che sia regolamentato e contenuto e indirizzato e diretto da baccellieri, preti, barbieri, canonici o duchi; non è fanatismo nulla che abbia uno stendardo di formule logiche, nulla che abbia un programma, nulla che si proponga per l’immediato futuro un proposito che un oratore può sviluppare in un discorso metodico.

    Una volta, te lo ricordi?, abbiamo visto una decina di giovani riunirsi e seguire uno che diceva loro: «Andiamo a compiere un atto barbaro!». E questo è proprio ciò che tu e io desideriamo: che il popolo si raccolga e, gridando: «Andiamo a compiere un atto barbaro!», si metta in marcia. E se qualche baccelliere, qualche barbiere, qualche prete, qualche canonico o qualche duca li fermasse per dir loro: «Figli miei! Va bene, vi vedo carichi di eroismo, di sacrosanta indignazione. Vengo anche io con voi; però prima di andare tutti insieme, e io con voi, a compiere quest’atto barbaro, non vi sembra che dovremmo metterci d’accordo su che genere di barbarità intendiamo compiere? Che barbarità sarà la nostra?», se qualcuno di quei malandrini che ho elencato li fermasse per dir loro una cosa del genere, dovrebbero abbatterlo e passargli tutti di sopra, calpestandolo: ecco che già sarebbe cominciata l’eroica barbarità.

    Non credi, amico mio, che ci siano in giro molte anime solitarie il cui cuore chiede di compiere un atto barbaro, qualcosa che le faccia scoppiare? Vedi, dunque, se riesci a raggrupparle e a formare con esse lo squadrone con il quale ci metteremo in marcia – perché io verrò con voi, dietro di te – per andare a riscattare il sepolcro di Don Chisciotte, che, grazie a Dio, non sappiamo dove si trova. Ce lo dirà la stella fulgida e sonora.

    E non sarà – mi dici nei tuoi momenti di sconforto, quando ti allontani da te stesso – non sarà che credendo di esserci messi in marcia e di aver attraversato campi e terre, stiamo invece girando intorno allo stesso posto? Allora la stella resterà fissa, ferma sopra le nostre teste e il sepolcro si troverà dentro di noi. E allora la stella cadrà, ma per venire a seppellirsi nelle nostre anime. E le nostre anime si trasformeranno in luce e si fonderanno tutte nella stella fulgida e sonora, che risorgerà, ancor più fulgida di prima, un sole di eterna melodia che illuminerà il cielo della patria redenta.

    In marcia, dunque. E sta attento che non entrino nel sacro squadrone dei crociati baccellieri, barbieri, preti, canonici i duchi travestiti da Sancho. Non importa che ti chiedano isole: ciò che devi fare è espellerli non appena ti chiedono l’itinerario del percorso, non appena ti parlano del programma, non appena ti domandano all’orecchio, maliziosamente, di dir loro dove si trova il sepolcro. Segui la stella. E fai come il Cavaliere: raddrizza la stortura che ti si pone davanti. Momento per momento, e punto per punto.

    Mettetevi in marcia! Dove andate? Ve lo dirà la stella: al sepolcro! E che facciamo durante il percorso, mentre marciamo? Cosa? Lottare, lottare, e come?

    Come? Vi imbattete in un bugiardo? Gridategli in faccia: bugia! E proseguite. Vi imbattete in un ladro? Gridategli: furfante! E proseguite! Vi imbattete in uno stolto che la folla ascolta a bocca aperta? Gridate: stupidi! E proseguite! Proseguite sempre!

    «E così», mi chiede una persona che conosci e che desidera diventar crociato, «e così si eliminerà forse la bugia, il latrocinio o la stupidaggine?». Chi ha detto di no? La più miserabile di tutte le miserie, la più ripugnante e putrida arguzia della codardia è quella di sostenere che non serva a niente denunciare un ladro, perché gli altri continueranno a rubare, che non si ottiene nulla dando dello stupido a uno stupido, perché questo non significa che la stupidaggine diminuirà.

    Sì, bisogna ripeterlo mille e mille volte: se solo una volta, una singola volta, riuscissi ad annientare del tutto e per sempre un bugiardo, avrai annientato la bugia una volta e per sempre.

    In marcia, dunque! E allontana dal sacro squadrone tutti coloro che cominciano a studiare il passo che si dovrà mantenere durante il cammino, la sua cadenza e il suo ritmo. Soprattutto, alla larga coloro che pensano sempre a questa storia del ritmo! Trasformerebbero lo squadrone in una quadriglia di ballo, la marcia in danza. Alla larga! Che vadano altrove a cantare alla carne!

    Quelli che cercheranno di trasformare lo squadrone in una quadriglia di ballo si definiscono a vicenda poeti. Non lo sono. Anzi, sono tutt’altro. Vanno al sepolcro solo per curiosità, per vedere com’è, forse in cerca di una sensazione nuova, per divertirsi durante la marcia. Alla larga!

    Sono loro che con l’indulgenza dei bohémien contribuiscono a tener vive la viltà, la menzogna e le miserie che angustiano. Quando predicano la libertà non pensano che a una sua unica declinazione: quella di poter disporre della donna d’altri. Tutto in loro è sensualità, e persino delle idee, delle grandi idee, si innamorano sensualmente. Non sono capaci di sposarsi con una idea grande e pura, e di mettere su famiglia. Le trattano come innamorate, a volte anche peggio, come compagne di una notte. Alla larga!

    Se qualcuno, durante il cammino, vuole raccogliere un fiorellino che gli sorride sul ciglio della strada, che lo raccolga pure, ma senza fermarsi, e segua lo squadrone, il cui alfiere non dovrà distogliere lo sguardo dalla stella fulgida e sonora. E se si mette il fiorellino sul petto, sopra la corazza, non per vederlo da sé, ma perché lo vedano gli altri, alla larga! Che se ne vada, con il suo fiore all’occhiello, a ballare da qualche altra parte.

    Guarda, amico mio, se vuoi portare a termine la tua missione e servire la patria, è necessario che ti renda odioso ai giovanotti sensibili che vedono l’universo solo attraverso gli occhi delle loro innamorate. O magari ancora peggio. Che le tue parole siano stridule e acri alle loro orecchie.

    Lo squadrone non deve fermarsi se non di notte, vicino al bosco o al riparo delle montagne. Metterà lì le tende, lì i crociati si laveranno i piedi, mangeranno ciò che le loro mogli gli hanno preparato, genereranno in loro un figlio, daranno loro un bacio e si addormenteranno, per rimettersi in marcia il giorno successivo. E quando morirà qualcuno, lo lasceranno sul ciglio della strada, avvolto nella sua armatura, alla mercé dei corvi. Rimanga ai morti il compito di seppellire i loro morti.

    Se qualcuno cerca durante il cammino di suonare il piffero, la zampogna, lo zufolo, la viola o un qualsiasi altro strumento, rompilo e caccia lui via, poiché disturberebbe gli altri, impedendo loro di udire il canto della stella. E, oltretutto, non lo udirebbe nemmeno lui. E chi non sente il canto del cielo non deve andare alla ricerca del sepolcro del Cavaliere.

    Quei ballerini ti parleranno di poesia. Non far caso a loro. Colui che si mette a suonare il suo flauto¹ sotto la volta del cielo, senza udire la musica delle sfere celesti, non merita che gli si presti ascolto. Non conosce l’abissale poesia del fanatismo; non conosce l’immensa poesia dei templi vuoti, senza luce, senza dorature, senza immagini, senza pompa, senza aromi, senza niente di tutto ciò che chiamano arte. Quattro pareti logore e un tetto di legno: una qualunque capanna.

    Caccia dallo squadrone tutti i ballerini di flauto. Cacciali, prima che ti lascino per un piatto di fagioli. Sono filosofi cinici, indulgenti, bravi ragazzi, di quelli che tutto comprendono e tutto perdonano. E colui che tutto comprende, non comprende nulla, e colui che tutto perdona non perdona nulla. Non hanno alcuno scrupolo a vendersi. Dal momento che vivono in due mondi diversi, possono conservare la propria libertà in uno e lasciarsi schiavizzare nell’altro. Possono essere al contempo esteti e seguaci di un Pérez, di un López, di un Rodríguez qualunque.

    Molto tempo fa si disse che la fame e l’amore sono le due molle della vita umana. Dell’umile vita umana, della vita terrena. I ballerini non danzano se non per fame o per amore; fame di carne e amore di carne, anche. Cacciali dal tuo squadrone, che se ne stiano lì, in un prato, a ballare come matti, mentre uno suona il flauto, l’altro tiene il tempo con le mani e un altro ancora canta di un piatto di fagioli o delle cosce della sua innamorata del momento. E che inventino pure nuove piroette, nuovi intrecci di piedi, nuove figure di contraddanza.

    E se qualcuno viene a dirti che sa costruire ponti e che forse arriverà il giorno in cui saranno necessarie le sue conoscenze per oltrepassare un fiume, caccialo via. Alla larga l’ingegnere! I fiumi si attraversano guadandoli, o nuotando, anche a costo di far affogare la metà dei crociati. Che l’ingegnere se ne vada a far ponti da un’altra parte, dove ce n’è bisogno. Per andare alla ricerca del sepolcro basta il ponte della fede.

    Mio buon amico, se vuoi realizzare pienamente la tua vocazione, non fidarti dell’arte, non fidarti della scienza, perlomeno non di ciò che definiscono arte e scienza e che invece non ne sono altro che meschini surrogati. Ti basterà la fede. La fede sarà la tua arte, la fede sarà la tua scienza.

    Più di una volta, notando la cura che impieghi nello scrivermi le lettere, ho dubitato del fatto che potessi portare a termine la tua missione. Nelle tue missive infatti ci sono non poche cancellature, correzioni, emendamenti. Non è un flusso che sgorga violento, come da una bottiglia a cui sia stato tolto il tappo. Spesso la tua scrittura degenera in letteratura, in quella lurida letteratura, naturale alleata di tutte le schiavitù e di tutte le miserie. Gli schiavisti lo sanno bene che lo schiavo che inneggia alla libertà si consola della sua propria condizione e non pensa a spezzare le catene che lo tengono prigioniero.

    Ma talvolta recupero fede e speranza in te, quando percepisco sotto le parole improvvisate, incalzanti e cacofoniche la tua voce che trema, dominata dalla febbre. In qualche caso si potrebbe dire che non appartengono nemmeno a una lingua precisa, come se ognuno le traducesse nella propria.

    Sforzati di vivere in una continua vertigine di passione, qualsiasi essa sia. Solo gli appassionati producono opere veramente durature e feconde. Quando senti qualcuno di impeccabile, in qualsiasi senso si intenda questo termine, fuggi, soprattutto se è un artista. Come l’uomo più stupido è colui che nella sua vita non ha mai detto una stupidaggine, così l’artista meno poeta, anzi il più antipoetico – e tra gli artisti abbondano le nature antipoetiche – è l’artista impeccabile, quello a cui i danzatori al suono della siringa conferiscono una corona, di alloro o di cartone, di impeccabilità.

    Ti consuma, mio povero amico, una febbre incessante, una sete di oceani insondabili e senza rive, una fame di universi e la nostalgia dell’eternità. Soffri della ragione. E non sai quello che vuoi. E ora, ora vuoi andare al sepolcro del Cavaliere della Follia e disfarti in lacrime, lasciarti consumare dalla febbre, morire di sete di oceani, di fame di universi, di nostalgia d’eternità.

    Mettiti in marcia, da solo. Tutti gli altri, solitari, ti cammineranno al fianco, anche se non li vedi. Ognuno crederà di essere da solo, però formerete un sacro battaglione, il battaglione della santa e interminabile crociata.

    Tu ancora non sai, mio buon amico, in che modo tutti i solitari, senza conoscersi, senza guardarsi in faccia, senza sapere l’uno il nome dell’altro, camminano insieme, prestandosi reciproco aiuto. E parlano l’uno dell’altro, si danno la mano, si congratulano a vicenda, si esaltano e si denigrano, mormorano tra sé e ognuno procede per conto proprio. E si allontanano dal sepolcro.

    Tu non appartieni al volgo, ma al battaglione dei liberi crociati. Perché ti avvicini al muro di cinta del cortile a spiare quel che si chioccia? No, amico mio, no! Quando passi vicino a un cortile tappati le orecchie, lancia la tua parola e vai avanti, verso il sepolcro. E che in quella parola vibri tutta la sua sete, tutta la tua fame, tutta la tua nostalgia, tutto il tuo amore.

    Se vuoi vivere di questo, vivi per questo. Ma, mio povero amico, sappi che sarai morto.

    Mi ricordo di quella dolorosa lettera che mi hai scritto quando stavi per soccombere, per arrenderti, per entrare nella confraternita. Vidi allora quanto ti pesava la solitudine, quella solitudine che deve essere il tuo conforto e la tua forza.

    Sei arrivato al punto più terribile, più desolante; sei arrivato sul ciglio del precipizio della tua perdizione: sei arrivato a dubitare della tua solitudine, sei arrivato a crederti in compagnia. «Non sarà» – mi hai detto – «un semplice cavillo, un frutto della superbia, della petulanza, forse della follia, questo fatto di credermi solo? Perché io, quando mi rassereno, mi vedo in compagnia, e ricevo cordiali strette di mano, parole di incoraggiamento, di simpatia, manifestazioni di ogni tipo di non trovarmi da solo, nient’affatto». E poi proseguivi. Ti ho visto ingannato e perso, ho visto che ti stavi allontanando dal sepolcro.

    No, non ti ingannare negli accessi della tua febbre, nelle agonie della tua sete, nelle angosce della tua fame; sei solo, del tutto solo. Non sono solo morsi quelli che come tali avverti, lo sono anche quelli che sembrano baci. Ti fischiano coloro che ti applaudono, ti vogliono trattenere nel tuo percorso verso il sepolcro coloro che ti incitano ad andare avanti. Tappati le orecchie. E soprattutto curati da una malattia terribile che, nonostante te ne liberi, ritorna con l’ostinazione di una mosca: curati dalla preoccupazione di come appari agli altri. Preoccupati solo di come appari davanti a Dio, preoccupati dell’idea che Dio ha di te.

    Sei solo, molto più solo di quel che credi, sulla via della più assoluta, completa e vera solitudine. La assoluta, completa e vera solitudine consiste nel non stare nemmeno con sé stessi. E quindi non sarai davvero completamente e assolutamente solo finché non ti spoglierai di te stesso, accanto al sepolcro. Santa solitudine!

    Tutto questo dissi al mio amico, e lui mi rispose con una lunga lettera, piena di furioso avvilimento. Le sue parole furono queste: «Ciò che mi dici va benissimo, va bene, nient’affatto male; ma non ti sembra che invece di andare alla ricerca del sepolcro di Don Chisciotte e riscattarlo da baccellieri, preti, barbieri, canonici e duchi, dovremmo andare a cercare il sepolcro di Dio e riscattarlo da credenti e increduli, da atei e deisti, che lo occupano, che aspettano lì, disperandosi e sciogliendosi in lacrime, affinché Dio resusciti e ci salvi dal nulla?».

    1 L’autore usa qui il termina jeringa, ovvero siringa, facendo esplicitamente riferimento in un inciso al mito della ninfa Siringa e di Pan. La leggenda vuole infatti che la prima, per sfuggire alle attenzioni del secondo, sia stata trasformata dalle Naiadi in una canna palustre, che insieme alle altre, con il soffiare del vento, produceva una dolce melodia. Fu così che il dio, per onorarla, proprio con quelle canne costruì uno strumento che riproducesse il suono, ovvero la siringa, anche detta flauto di Pan.

    Parte prima

    Capitolo i

    Che tratta della condizione sociale e delle abitudini del famoso e valoroso cavaliere Don Chisciotte della Mancha

    Non sappiamo nulla della nascita di Don Chisciotte, nulla della sua infanzia e della sua giovinezza, né di come si sia forgiato l’animo del Cavaliere della Fede, di colui che con la sua follia ci rende savi. Non sappiamo nulla dei suoi genitori, del suo lignaggio e dei suoi avi, né di come erano andate consolidandosi nel suo spirito le visioni della consolidata pianura della Mancha, nella quale era solito andare a caccia; non sappiamo nulla nemmeno del lavoro che fece sulla sua anima la contemplazione dei campi di grano tempestati di papaveri e violaciocche; non sappiano nulla delle sue imprese adolescenziali.

    Si è persa ogni memoria del suo lignaggio, della sua nascita, della sua infanzia e della sua adolescenza; non è stata conservata né dalla tradizione orale, né da qualche testimonianza scritta e se anche qualcuna ci fosse stata, si è perduta oppure giace sepolta sotto la polvere dei secoli. Non sappiamo se diede o meno mostra del suo spirito intrepido ed eroico sin da quando era solo un tenero fanciullino, come quei santi dalla nascita che già da neonati non poppano di venerdì o nei giorni di digiuno, per mortificarsi e dare il buon esempio.

    Rispetto alla sua stirpe dichiarò lui stesso a Sancho, rimettendosi in cammino con lui dopo la conquista dell’elmo del Mambrino, che anche se era gentiluomo di lignaggio conosciuto, possidente e con proprietà, in diritto di esigere cinquecento soldi di indennizzo, non discendeva da nessun re, anche se, nonostante ciò, il sapiente che si fosse messo a scrivere la sua storia avrebbe potuto studiare così a fondo i suoi antenati da scoprirlo quinto o sesto nipote di re. E di fatto non esiste nessuno che, per quanto alla lontana, non discenda da un sovrano, o da un sovrano detronizzato. Ma lui apparteneva a una di quelle stirpi che sono e non furono. La sua stirpe comincia con lui.

    È senza dubbio strano che i diligenti ricercatori che si sono dedicati con tanto impegno a esaminare la vita e i miracoli del nostro cavaliere ancora non siano giunti a trovare traccia di quella stirpe, ancor più ai giorni nostri in cui si attribuisce tanto peso agli antenati nel determinare il destino di un uomo. Non ci deve nemmeno sorprendere che non l’abbia fatto Cervantes, poiché credeva che ognuno è figlio delle proprie azioni e che si va costruendo secondo come vive e opera; ma che lo facciano questi inquisitori, che per trovare una spiegazione all’ingegno di un eroe fiutano nel suo passato, al fine di scoprire se suo padre era storpio, malato di gotta o di catarro, mi sorprende moltissimo e me lo spiego solo con la convinzione che costoro vivono nella tanto diffusa quanto nefanda credenza che Don Chisciotte sia solo un essere fittizio e fantastico; come se fosse possibile per l’umana fantasia partorire una figura tanto stupenda.

    Il gentiluomo ci si manifesta quando è sulla cinquantina, in un luogo della Mancha, mentre vive poveramente con un piatto con più carne di montone che di manzo, carne fredda piccante tutte le sere, lenticchie il venerdì, uova con pancetta il sabato e qualche piccioncino in più la domenica, che consumavano tre quarti della sua rendita. Il resto veniva utilizzato per il copriabito di fine panno nero, i calzoni di velluto per i giorni di festa e le soprascarpe dello stesso tessuto, mentre gli altri giorni della settimana si vestiva di lana grezza, ma della migliore. Per i suoi modici pasti venivano spesi i tre quarti della sua rendita, per i suoi modesti abiti il quarto rimanente. Era,

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