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La vita segreta dell'esercito romano
La vita segreta dell'esercito romano
La vita segreta dell'esercito romano
E-book757 pagine9 ore

La vita segreta dell'esercito romano

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Info su questo ebook

Che cosa succedeva davvero tra le file della più micidiale macchina da guerra della storia?

I legionari senza segreti: in azione, tra combattimenti, ribellioni e marce trionfali, e nella vita quotidiana, al fronte e per le strade delle città.
L’esercito romano è stato la più grande macchina da combattimento del mondo antico. L’impero dipendeva dai suoi soldati non solo per vincere le guerre, difendere le frontiere e controllare i mari, ma anche per far funzionare lo Stato. Legionari e ausiliari romani provenivano da tutto il mondo, anche dall’esterno dei confini. Furono utilizzati come esattori delle tasse, poliziotti, geometri, ingegneri civili e, da veterani, come valenti artigiani e politici. Alcuni riuscirono persino a diventare imperatori. Questo libro porta il lettore nel cuore di ciò che significava far parte dell’esercito romano, attraverso le parole degli storici e quelle degli stessi uomini, conosciute grazie alle loro dediche religiose, alle lapidi, e persino alle lettere private e ai graffi ti. Una preziosa finestra su come gli uomini d’arme, le loro mogli e i loro figli hanno vissuto, godendo di un posto in prima fila nella storia. Protagonisti di vicende che hanno condizionato l’antichità e, per riflesso, il mondo come lo conosciamo oggi.

I segreti della più grande macchina da combattimento del mondo antico

Tra gli argomenti trattati:

Che cosa significava entrare nell’esercito romano?
Requisiti e regole per l’arruolamento

Quanto guadagnavano i soldati?
Paghe, ricompense e bottini di guerra

Cosa significava vivere in una guarnigione in tempo di guerra?
Accampamenti, fortezze e combattimenti

Cosa significava vivere in una guarnigione in tempo di pace?
I legionari come costruttori, esattori e artigiani

Che impatto avevano le armate?
Le atrocità commesse in nome dell’imperatore

Cosa accadeva a chi si ribellava?
Roma non perdona chi tradisce

Com’era la vita coniugale dei soldati?
Mogli e figli a distanza e schiave-mogli

Esisteva una pensione per i legionari?
Veterani, eroi di guerra e sussidi imperiali
Guy de la Bédoyère
È nato e cresciuto a Wimbledon, in Inghilterra. Laureato alla Durham University, è membro della Society of Antiquaries. Ha scritto molti libri sull’impero romano, diventati bestseller. Per quindici anni ha partecipato a Time Team, un programma di archeologia del canale britannico Channel 4. Tiene conferenze in Gran Bretagna e all’estero, principalmente in Australia, e lezioni presso la Arts Society.
LinguaItaliano
Data di uscita20 gen 2021
ISBN9788822744753
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    Anteprima del libro

    La vita segreta dell'esercito romano - Guy de la Bédoyère

    Prefazione

    Il presente libro non è una storia dell’esercito romano, sebbene contenga al suo interno molta storia dell’esercito romano. Né è un manuale sull’organizzazione, l’equipaggiamento e i metodi di combattimento ¹. Piuttosto, La vita segreta dell’esercito romano utilizza testimonianze del mondo antico per cercare di spiegare cosa volesse dire far parte dell’esercito che diede a Roma il suo vasto Impero. Nel corso dei secoli, combatté guerre in luoghi molto distanti fra loro, dalla Britannia settentrionale alla Siria, dall’Africa del Nord alle regioni al di là del Danubio. Affrontò un’ampia varietà di nemici, come la cavalleria e gli arcieri parti a Oriente o i Caledoni che, nelle foreste e nelle paludi dell’attuale Scozia, utilizzavano la tattica della guerriglia. Subì alcune sconfitte, ma più spesso riusciva ad avere la meglio. I soldati romani provenivano da ogni parte dell’Impero, e presidiavano forti isolati sparsi un po’ ovunque, dal deserto arabico al Reno, in grandi fortezze legionarie come Lambaesis e Xanten (Castra Vetera), nei Castra Praetoria a Roma, o si avvicendavano in torri di guardia sperdute ai confini più remoti. Affilavano in vario modo le spade, venivano vessati dai centurioni, erigevano forti, costruivano acquedotti e ponti, realizzavano armi ed equipaggiamenti, sorvegliavano i civili, riscuotevano le tasse, cercavano promozioni, scrivevano lettere, avevano famiglie, si appellavano all’imperatore, marciavano nelle campagne, commettevano atti di grande coraggio, prendevano parte ad atrocità e veneravano i propri dei. Alcuni morivano in battaglia per mano dei nemici, altri a causa di malattie e incidenti. Altri ancora, invece, dopo il congedo si arruolavano di nuovo come veterani o si facevano una nuova vita da civili, raggiungendo in alcuni casi un’età avanzata. L’esercito era la forza maggiore, e forse per certi versi l’unica, di cui lo Stato romano disponeva per esercitare il potere e la sua influenza nell’Impero e oltre. I soldati e i veterani erano presenti in tutte le comunità del mondo romano.

    Il gladio – o gladius Hispaniensis, per citare il nome completo – era la spada d’ordinanza della fanteria. Il cosiddetto gladio ispanico comparve all’epoca della seconda guerra punica, e rimase in uso per secoli. Poche altre armi militari possono vantare una simile longevità. Anche se nel corso del tempo la forma della lama di acciaio affusolata e la lunghezza sono variate, tutti i gladi ispanici condividevano una lama simile e un’impugnatura ben sagomata di legno, ossa o a volte avorio, con un pomello di legno. Alcuni esemplari più elaborati presentavano foderi di legno con rivestimenti di metallo decorati. Anche se non tutti usavano il gladio – la cavalleria adoperava la spatha, una versione più lunga – da una lettera trovata a Carlisle sembra che in realtà i soldati utilizzassero gladius come termine generico per spada d’ordinanza ². Non esiste dunque un’arma che simboleggi altrettanto efficacemente l’esercito romano.

    Scrivere questo volume è stata un’esperienza avvincente. In realtà, le ricerche sarebbero potute proseguire all’infinito. Le storie sui soldati, le loro unità, le famiglie, le preoccupazioni, i fallimenti e i successi sembravano non finire mai. Inevitabilmente, affrontare un argomento tanto vasto in uno spazio limitato ha comportato una notevole scrematura, per quanto sia stato frustrante dover escludere così tanto materiale. Ne è conseguito un testo puramente – e sfacciatamente – aneddotico, in cui sono presenti testimonianze sotto forma di iscrizioni, lettere e altri documenti originali, nonché citazioni di opere di storici e commentatori romani che usarono anche fonti non più esistenti. Alcuni avvenimenti ed episodi non potevano non essere inclusi, come la cosiddetta disfatta di Varo nel 9 d.C. o le lettere e i registri militari rinvenuti a Vindolanda, un forte della Britannia settentrionale. In molti altri casi è stato necessario compiere una scelta, spesso sofferta.

    Questo libro è anche inevitabilmente sbilanciato, per via del materiale che abbiamo a disposizione. Il periodo d’oro delle guerre e delle conquiste corrisponde agli ultimi tre secoli a.C., nella tarda Repubblica; un’età amata da alcuni dei più grandi storici di Roma, come Tito Livio, Polibio e Appiano, che ci forniscono descrizioni dettagliate del periodo, e in particolare di generali, campagne e battaglie. Tuttavia, a quei tempi l’esercito non era ancora permanente, e in più sappiamo pochissimo dei singoli soldati. Nell’età imperiale la situazione cambia quasi radicalmente: si combatte meno, e le guerre di conquista non sono più così frequenti. C’è penuria di fonti, a eccezione di Tacito, il cui lavoro copre soltanto il

    I

    secolo d.C. (e nemmeno tutto), per cui abbiamo poco materiale da poter confrontare con ciò che sappiamo dell’epoca precedente. Paradossalmente è proprio in questo periodo che i soldati ordinari, i milites gregarii, emergono dall’ombra grazie a tutte le lapidi e ai documenti di età imperiale rinvenuti da ogni angolo dell’Impero e pieni di informazioni sulle loro vite.

    È stato preferito consultare costantemente gli autori antichi piuttosto che affidarsi alle fonti secondarie moderne. Oggigiorno, con tutto il materiale online disponibile, è molto più semplice, ad esempio, leggere un papiro rinvenuto in Egitto o un’iscrizione in una fortezza legionaria sul Reno. Tutte le fonti utilizzate sono citate nella bibliografia, così che il lettore possa rintracciarle, mettendo in atto un processo molto istruttivo. Spesso questi testi originali sono più ambigui di quanto una fonte secondaria possa far supporre, ma possono anche rivelare informazioni o sfumature aggiuntive omesse da una fonte moderna. I molti modi in cui veniva chiamata una spada è un ottimo esempio.

    L’esercito romano appartiene alla storia. Ma è possibile farlo rivivere leggendo una lettera di un soldato in Egitto o nella Britannia settentrionale, studiando la vita di un centurione e della sua famiglia sulla frontiera del Reno partendo dalla sua lapide, o scoprendo i successi e le disfatte di legionari e ausiliari nel corso dei secoli in un’infinità di luoghi, dalla Siria all’Hispania. Nessun’altra istituzione militare del mondo antico ci offre questo straordinario privilegio.

    È importante chiarire che la stesura di un libro come questo è stata possibile grazie al duro lavoro di innumerevoli studiosi nel corso degli ultimi due secoli. La bibliografia, per quanto insufficiente, andrebbe vista più che altro come una testimonianza dei loro sforzi.

    Una nota sullo stile

    Ancora oggi, sorprendentemente, non c’è accordo sui nomi delle unità militari romane, persino fra gli specialisti. Una legione può essere trovata scritta in molti modi diversi, ad esempio Legio

    III

    Augusta (il nome latino),

    III

    legione di Augusto, Terza legione di Augusto o Terza legione augusta. Con le unità ausiliarie la situazione è ancora più complessa: possiamo trovare la Cohors

    II

    Thracum come, ad esempio, Seconda coorte tracia, Seconda coorte dei traci o

    II

    coorte dei traci. In considerazione di tutto ciò, sin dall’inizio della preparazione della Vita segreta dell’esercito romano è stato deciso di usare, per quanto possibile, la forma latina, per evitare ambiguità. Inoltre, è interessante notare che di solito l’esercito romano non usava

    IV

    per quarto,

    IX

    per nono o

    XIV

    per quattordicesimo. Era invece più comune trovare

    IIII

    ,

    VIIII

    e

    XIIII

    rispettivamente*. Questo libro segue la pratica militare romana. Le date sono da intendersi d.C., a meno che non sia specificato a.C.. Normalmente i toponimi vengono riportati nella forma moderna, a meno che questa non esista, come per Vindolanda e Dura Europos.

    A volte le fonti antiche forniscono dettagli sulle distanze in miglia romane. Normalmente non mi sono preoccupato di includere complessi confronti con le miglia moderne; non è una precisazione così rilevante, giacché il miglio romano non era misurato con grande accuratezza o coerenza (un aspetto tipico della società romana in generale). In teoria, corrispondeva a circa 4850 piedi, o approssimativamente il novantadue per cento di un miglio moderno (1,47 chilometri). Se il lettore ricorderà questo dettaglio non verrà indotto in errore.

    Spero che chi leggerà il libro dall’inizio alla fine mi perdonerà se ho ripetuto alcune informazioni e date. L’ho fatto per aiutare chi, invece, sceglierà di immergersi nei singoli capitoli.

    Guy de la Bédoyère

    Welby, vicino a Ermine Street, una strada costruita

    dalla Legio

    VIIII

    Hispana a metà del

    I

    secolo d.C.

    Lincolnshire 2020

    * Tuttavia, nemmeno questo uso era costante. La Diciottesima legione è attestata, ad esempio, come Legio

    XIIX

    , ovvero dieci più dieci meno due.

    1

    Introduzione

    L’esercito degli imperatori

    I romani hanno conquistato il mondo intero esclusivamente per l’abilità nell’uso delle armi, per la rigida disciplina negli accampamenti, e per l’impiego dell’esercito.

    Vegezio ³

    Sin dall’antichità, l’esercito romano ha sempre rivestito un certo fascino. Nessun’altra forza militare è stata altrettanto longeva o ha ottenuto simili successi. La vita segreta dell’esercito romano si concentrerà sull’individualità del soldato, sulle esperienze di persone reali, arrivate fino a noi attraverso le strade più disparate. Le informazioni provengono dagli storici romani, dalle iscrizioni delle varie unità, dai documenti ufficiali, dai soldati stessi o dalle loro lapidi, fatte realizzare dalle rispettive famiglie, da dediche religiose e persino da lettere personali. Si va dai resoconti dei singoli soldati ai racconti delle grandi battaglie di Roma – vinte o perse – e ai resti fisici di forti e attrezzature militari. Questi reperti provengono da ogni angolo del mondo romano; comprendono le tavolette cerate conservate nelle paludi della Britannia settentrionale e le iscrizioni nell’Africa del Nord, i papiri in Egitto come i ruderi delle fortificazioni lungo i confini e i progetti di ingegneria civile sviluppati dall’esercito. Presi tutti insieme, formano uno straordinario ritratto della più grande organizzazione permanente del mondo antico occidentale, senza la quale l’Impero non sarebbe esistito, e non sarebbe nemmeno nato; degli uomini che lo facevano funzionare e delle donne e dei bambini che condividevano le loro vite.

    Immaginate l’intero esercito romano, che nel periodo di massimo splendore contava da 250.000 a poco meno di 500.000 uomini (si veda sotto per come si è arrivati a questo numero), riunito in una enorme piazza d’armi. Adesso moltiplicate quel numero in modo che arrivi a includere tutti i soldati che vi prestarono servizio nel corso dei secoli. Se ogni anno servivano 25.000 nuovi effettivi soltanto per sostituire i veterani e chi moriva di malattie o sul campo, risulta chiaro come nei tre secoli trascorsi dal regno di Augusto all’ascesa di Diocleziano si siano avvicendati milioni di soldati. Ovviamente è impossibile calcolare a quanto effettivamente ammontasse il totale. Adesso immaginate quella stessa piazza d’armi improvvisamente deserta. Non rimane altro che qualche spada rotta qua e là, frammenti di scudi, qualche elmo, oltre a qualche centinaio di documenti sparsi, strappati e rovinati e sospinti dal vento, alcune lapidi e dediche agli dei danneggiate. Se escludiamo le rovine abbandonate e spesso sepolte delle fortezze, è questo ciò che ci è rimasto a livello materiale del potente esercito romano. Ovviamente abbiamo gli aneddoti e i resoconti degli storici latini, quasi tutti ormai in copie di copie di copie, spesso incompleti e carenti di dettagli importanti, che sopravvissero fino al Medioevo nelle biblioteche monastiche.

    Ciononostante, l’esercito romano è sopravvissuto fino a oggi come una delle più vivide istituzioni dell’antichità, anche perché disponiamo di testimonianze più concrete rispetto a qualsiasi altro aspetto del mondo romano. Grazie anche al cinema e alla televisione (nonostante la scarsa accuratezza storica), ai libri, alle rievocazioni e all’istruzione, oggi il soldato è spesso considerato il simbolo del mondo romano. Un’impressione tutt’altro che sbagliata: i romani «circondano l’Impero con grandi armate, e presidiano l’intera distesa di terra e mare come un’unica fortezza», scrive infatti Appiano ⁴. Persino la parola Roma potrebbe derivare dal greco ρωμη (romē), ovvero forza.

    All’inizio del

    II

    secolo d.C., lo storico Floro sottolineò che Roma, fino al regno di Augusto, era quasi sempre stata in guerra; fino al 29 a.C. le porte del tempio di Giano erano state simbolicamente chiuse solo due volte per segnalare i periodi di pace. Valore e Fortuna (Virtus et Fortuna) avevano gareggiato per creare l’Impero romano, «tanto si sono spinte le loro forze armate in tutto il mondo», nonostante grandi fatiche e pericoli. Floro qui denigra quella che chiamava l’«inerzia dei Cesari», in contrasto con le interminabili guerre della Repubblica, ma era felice che ai suoi tempi l’imperatore soldato Traiano avesse rinvigorito Roma con la guerra ⁵. Alla fine del

    IV

    secolo, anche un poeta rimasto anonimo ripensava con nostalgia alla Repubblica, ed era certo che l’avversità e la guerra avessero portato il popolo di Roma al successo, concludendo che «perciò una pace oppressiva e prolungata è la rovina del popolo di Romolo» ⁶. Era questo il retroterra culturale della vita di qualsiasi soldato.

    I soldati romani non soltanto costruivano e presidiavano le fortezze e partecipavano alle campagne militari, ma esercitavano anche innumerevoli funzioni nella vita quotidiana per conto dello Stato. Questo fu vero soprattutto in età imperiale, quando l’esercito diventò un’istituzione permanente e Roma godette di lunghi periodi di pace interna. I soldati erano fra i membri più colti del popolo, tant’è che disponiamo di più materiale proveniente dall’esercito che da qualsiasi altro settore della società. La maggior parte delle iscrizioni e dei documenti dei soldati sono in latino nell’Impero occidentale e in greco in quello orientale (anche se saltuariamente il latino compare a Oriente e il greco in Occidente). Questo dimostra che, indipendentemente dal luogo di origine, erano abituati a usare le lingue ufficiali del mondo romano, anche se in privato continuavano a usare quelle del posto in cui erano nati. I soldati scrivevano in continuazione, che fosse per esporre una rimostranza, chiedere la paga o indennizzi per le spese sostenute, registrare prestiti, chiedere un permesso, scrivere lettere, preparare il testamento o rivolgersi agli dei.

    L’esercito era l’apparato burocratico più imponente del mondo romano. Nonostante la maggior parte dei documenti sia andata perduta o sia irrimediabilmente rovinata, è stato rinvenuto del materiale straordinario, soprattutto in Egitto e in Gran Bretagna, che dimostra quanto gli amministratori militari tendessero a registrare e catalogare tutto. I soldati celebravano le proprie conquiste e attività in iscrizioni, e avevano molte più probabilità dei civili, soprattutto nelle province di confine, di registrare il proprio nome in dediche religiose o sulle pietre tombali.

    L’esercito romano è la forza militare più documentata del mondo antico. Ma ciò non vuol dire che il materiale sia stato redatto in maniera accurata o costante. Per esempio, lo storico Appiano spiega che veniva stilato un rapporto individuale sul carattere di ogni soldato. Quando Marco Antonio chiese ai tribuni di portare al suo cospetto tutti i facinorosi del suo esercito per punirli, i tribuni consultarono questi documenti ⁷. Oggi simili registri sono praticamente inesistenti in qualsiasi forma per qualunque parte dell’esercito romano.

    Com’è inevitabile, le testimonianze variano enormemente nel tempo e nello spazio, non da ultimo perché i dettagli stessi della storia militare romana variavano enormemente. Dalla seconda guerra punica fino al termine della Repubblica, Roma portò avanti le più prolungate e vaste campagne di conquista, ma di questo periodo ci sono rimaste poche testimonianze sui singoli soldati. In età imperiale, invece, assistiamo in gran parte a guerre civili e alla difesa e al consolidamento dei confini. Le campagne per conquistare la Britannia, la Dacia e la Partia possono essere considerate eccezioni. Tuttavia, il periodo dal

    I

    all’inizio del

    III

    secolo d.C. è proprio fra i più documentati, sebbene in maniera irregolare, e comprende le testimonianze più esaurienti sulla vita dei singoli soldati sotto forma di iscrizioni, lettere e altri documenti.

    Pertanto dobbiamo sfruttare al massimo ciò che abbiamo. Anche se le opere dello storico romano Tacito, per esempio, sono inestimabili, non abbiamo tutti i suoi Annali, che coprivano dal 14 al 68 d.C. La sua descrizione dell’invasione della Britannia da parte di Claudio nel 43, ad esempio, è andata perduta. Delle sue Storie, che portavano avanti il racconto fino al termine del

    I

    secolo, non ci è rimasto che il periodo delle guerre civili del 68-69 e i primi mesi dell’anno successivo. Spesso i temi militari sono predominanti, ma Tacito aveva molti altri argomenti da trattare e non si preoccupava di raggiungere il livello di dettaglio a cui gli storici moderni, soprattutto quelli militari, ambiscono. Problemi simili riguardano gli scritti di altri storici antichi come Tito Livio, Appiano di Alessandria, Plutarco e Cassio Dione (noto anche come Dione Cassio).

    Questi autori spesso descrivevano eventi avvenuti generazioni o persino secoli prima, e dovevano usare come fonti documenti e resoconti che oggi non esistono più. D’altro canto abbiamo, per esempio, parte dell’epistolario di Plinio il Giovane, dell’inizio del

    II

    secolo d.C., in cui accenna a ufficiali e soldati che conosceva personalmente, soprattutto nelle sue lettere all’imperatore Traiano mentre era governatore di Bitinia. Da giovane, inoltre, prima di diventare senatore, aveva servito come tribuno equestre nella Legio

    III

    Gallica in Siria ⁸. Tuttavia, non esiste un epistolario paragonabile a questo tra un governatore e un imperatore. Alla corrispondenza tra Plinio e Traiano possiamo aggiungere aneddoti e digressioni presenti in una miriade di altri testi, come la raccolta di fatti e detti memorabili compilata, con commento, da Valerio Massimo durante il regno di Tiberio; o la Storia naturale di Plinio il Vecchio, in cui troviamo anche una descrizione del celebre Vinnio Valente, un pretoriano dotato di una forza immensa, fra gli altri riferimenti militari. Valerio Massimo e Plinio forniscono alcuni dettagli affascinanti, sebbene piuttosto casuali ⁹. Lo stesso si può dire di Aulo Gellio, la cui raccolta di aneddoti copre un’ampia varietà di argomenti, fra cui piccole informazioni sulla storia militare e l’esercito romano, a volte richiamando opere molto più lunghe che non esistono più.

    Non tutte queste fonti scritte sono affidabili; anzi, per certi versi sono tutte inaffidabili. Tuttavia, un conto è affermarlo, un altro è decidere come comportarsi una volta che lo si è appurato. Valutare la relativa affidabilità delle fonti, soprattutto nei punti in cui si contraddicono a vicenda, è a dir poco complesso. Se tutte le fonti vengono trattate con assoluto scetticismo, allora allo storico moderno non rimane che sostituirvi la propria opinione, che difficilmente sarà più affidabile dei testi antichi. Tuttavia, ci sono alcuni princìpi da considerare, soprattutto riguardo agli argomenti militari. Tutti gli storici romani erano più o meno inclini a usare artifici retorici, come ad esempio rappresentazioni esemplari di cattiveria, atrocità, brutalità ed eroismo, o a inventare storie che venivano applicate retrospettivamente a racconti del passato. Inoltre, la grandezza degli eserciti e il numero delle vittime tendevano a essere palesemente arrotondati per eccesso o difetto, a seconda delle intenzioni dell’autore. Anche queste cifre dovrebbero essere considerate un artificio retorico, piuttosto che come una descrizione veritiera dei fatti. Esistono molti esempi di questa tendenza, presente fin dai tempi della Repubblica. Ad esempio, Silla scrisse che il suo esercito aveva ucciso 20.000 soldati sotto il comando di Gaio Mario il Giovane a Segni nell’83 a.C., perdendo appena ventitré uomini; o almeno così riporta Plutarco dopo aver letto l’autobiografia di Silla ¹⁰.

    Nel suo racconto della guerra civile del 68-69, Tacito descrive eventi complessi e in rapida successione avvenuti decenni prima, usando fonti quasi sconosciute e difficilmente basate su appunti presi nell’epoca e nei luoghi cui si riferiscono. Il più delle volte, per un determinato evento abbiamo soltanto una fonte; quando ne abbiamo due, come Erodiano e Cassio Dione per il periodo dei Severi, spesso divergono in dettagli cruciali.

    Alcune delle biografie di imperatori del

    II

    e

    III

    secolo raccolte nella Storia Augusta sono inaffidabili per certi aspetti importanti. Basate sulla Vita dei Cesari di Svetonio, che coprivano gli imperatori da Giulio Cesare a Domiziano, queste biografie erano attribuite a sei autori, tra cui Elio Sparziano e Flavio Vopisco, ma probabilmente si trattava di nomi inventati. Furono redatte tra la fine del

    III

    secolo e l’inizio del

    IV

    , a partire da documenti ufficiali e altre fonti non specificate, e ci descrivono imperatori come Adriano, Settimio Severo e Probo con uno stile aneddotico. Sebbene siano una lettura avvincente, contengono spesso citazioni palesemente false, tratte da lettere e discorsi inventati, oltre ad aggiunte da parte di contributori successivi. Il risultato è una serie di pastiche che rappresentano un guazzabuglio di verità, mezze verità e autentiche menzogne. Distinguere il vero dal falso è tutt’altro che semplice.

    Alcuni manuali militari romani, come quelli di Frontino, Onasandro e Vegezio, sono sopravvissuti fino oggi. E se è vero che possono fornirci informazioni molto utili, presentano anche alcuni problemi. Vegezio, ad esempio, scrisse il suo manuale militare alla fine del

    IV

    secolo o all’inizio del

    V

    , molto tempo dopo il periodo a cui si riferisce il testo. È probabile che non avesse a disposizione fonti affidabili, e in più tendeva a idealizzare il mondo di «Augusto e i suoi successori illuminati», come lo definiva ¹¹. Un tempo si pensava che un’opera sulla costruzione di un accampamento militare fosse stata scritta da un agrimensore di nome Igino, all’inizio del

    II

    secolo, ma oggi l’ipotesi più accreditata è che a realizzarla fu, almeno un secolo più tardi, un autore la cui identità è sconosciuta.

    Le sculture militari possono offrire un’eccezionale testimonianza visiva dell’esercito romano in guerra. Sulla Colonna Traiana e su quella di Marco Aurelio a Roma vi sono una serie di fregi continui che illustrano le campagne militari. Ne mostrano ogni aspetto, dalla ricerca del foraggio e dalla costruzione di accampamenti all’attraversamento dei fiumi, ai combattimenti e alle parate. Occasionalmente, sia i generali della Repubblica sia gli imperatori da Augusto in poi facevano costruire archi di trionfo per celebrare importanti vittorie. Come è lecito aspettarsi, al loro interno sono presenti sculture che raffigurano le campagne, il saccheggio del nemico sconfitto e altri simboli del successo militare. Oggi a Roma ne rimangono tre: l’arco di Tito, di Settimio Severo e di Costantino, ma un tempo ve ne erano decine, non solo a Roma ma in tutto l’Impero.

    Per quanto riguarda i singoli soldati, esistono pochi documenti e qualche lettera, ma nessun diario delle loro esperienze, come invece per le guerre napoleoniche, la guerra di secessione americana o i due conflitti mondiali. A meno che non venissero copiati in iscrizioni incise, i documenti scritti risalenti all’epoca romana di solito sono sopravvissute soltanto in ambienti saturi d’acqua o aridi. Le due province che ne hanno prodotto in maggior numero sono la Britannia e l’Egitto. Luoghi che difficilmente avrebbero potuto essere più distanti e diversi, e che inoltre non erano necessariamente rappresentativi del resto dell’Impero. I documenti sono perlopiù danneggiati, difficili da leggere e di natura completamente casuale, ma per la maggior parte costituiscono testimonianze affascinanti.

    Abbiamo poi una serie decisamente più numerosa di iscrizioni (che documentano editti imperiali, la costruzione di edifici, dediche religiose in nome di una unità o singoli soldati) e le lapidi. I testi sui monumenti commemorativi e sulle offerte personali agli dei, quasi sempre su pietra, forniscono gli scorci più emozionanti sulla vita nell’esercito. Rappresentano una minuscola percentuale dei soldati che un tempo servirono nelle legioni o nelle unità ausiliarie romane. Quasi tutti appartengono al periodo tra il

    I

    e il

    III

    secolo d.C., sebbene pochi contengano date precise. L’editto di Domiziano del 94, in cui si dichiara che i veterani erano esenti da alcune tasse (si veda il Capitolo 15), illustra alla perfezione quanto sia casuale la natura di queste testimonianze. Il testo è arrivato a noi soltanto perché un veterano lo copiò su una tavoletta ritrovata in Egitto.

    Le iscrizioni funerarie sono di gran lunga la testimonianza più importanti sulla vita dei singoli soldati, sia in qualità di defunti sia di coloro che commemoravano i propri compagni, amici, figli, mogli o genitori. I soldati avevano il diritto di redigere un testamento e lasciare istruzioni su come dovevano essere ricordati, che fosse dai genitori, dalla famiglia o dai compagni (si veda l’Epilogo). Lapidi di soldati sono state trovate in prossimità di siti militari sparsi per tutto l’Impero, e anche in comunità civili dove alcuni erano stati distaccati o dove da veterani cercavano di costruirsi una seconda carriera, anche se inevitabilmente sono arrivate a noi perlopiù per caso. Contengono informazioni di valore inestimabile tra cui il luogo di provenienza del soldato, le unità in cui aveva prestato servizio, l’età al momento della morte e dettagli relativi alla moglie e ai figli, ai liberti e agli amici.

    Nonostante tutti i loro limiti, le iscrizioni e i documenti dell’esercito romano degli imperatori sono un universo a parte rispetto alle testimonianze di altre guerre dell’antichità o del Medioevo, delle quali niente di paragonabile è sopravvissuto o forse mai esistito. Prendiamo la guerra delle due rose, combattuta in Inghilterra fra il 1455 e il 1485: non esiste un solo esempio analogo di testimonianza personale delle migliaia di soldati che parteciparono al conflitto.

    Anche lo standard delle pubblicazioni moderne varia enormemente: la Britannia, l’Egitto e la Germania sono stati approfonditi molto di più rispetto ad altre province dell’Impero romano. Com’è inevitabile, il materiale presente in questo volume copre un lungo periodo di tempo (circa cinque secoli), e riguarda un ventaglio ampio di individui, dalle umili reclute ai generali più importanti, e alcune battaglie, campagne e ribellioni specifiche, sempre con un’attenzione particolare alla vita nell’esercito romano. Alla fine del libro il lettore troverà una lista degli imperatori e delle guerre di Roma, insieme ad altre appendici, tabelle e un glossario, che renderanno più semplice collocare ogni parte del testo principale nel contesto storico e comprendere i termini riguardanti l’organizzazione dell’esercito.

    Le prove di cui disponiamo potranno non sembrare particolarmente consistenti, ma in realtà l’esercito romano è un argomento così studiato che oggi molti aspetti sono ormai ben noti, anche se spesso questa conoscenza si basa su informazioni raccolte da epoche e luoghi diversi, in una maniera che può apparire casuale. Ciò è inevitabile, ma vi è sempre il rischio che, in assenza di altro materiale con cui confrontarle, certe testimonianze specifiche – le lettere di Vindolanda sono un buon esempio – vengano prese come rappresentative di ogni epoca e luogo. Di solito è impossibile saperlo. Tuttavia, le prove mostrano una discreta coerenza, e ciò suggerisce che la maggior parte degli elementi dell’esercito romano funzionasse in maniera piuttosto simile. Il fatto che tutte le fortezze conosciute a oggi dagli scavi e dai resti ancora esistenti si assomiglino è una base plausibile per sostenere una simile tesi. D’altra parte, l’aspetto forse più ragguardevole dell’esercito romano – e che col tempo è diventato sempre più evidente – è l’alta varietà locale quasi a ogni livello, dall’equipaggiamento di base all’organizzazione delle unità.

    Gli imperatori e il comando militare

    Gli imperatori avevano un controllo assoluto sull’esercito, ma – com’era tipico del mondo romano – il loro potere militare era legato in maniera nebulosa e quasi nascosta all’età repubblicana. Quando Augusto salì al potere finse di aver restaurato la Repubblica per evitare di ammettere pubblicamente di regnare in qualità di monarca. Per i romani, qualsiasi traccia di monarchia era inaccettabile, ma tutti erano pronti a stare al gioco di Augusto per amore della pace e della stabilità ¹². Durante l’età repubblicana, un generale particolarmente valoroso poteva essere acclamato imperator (comandante) dal suo esercito. Tale onore poteva essere conferito a più di un generale alla volta e, aspetto fondamentale, non comportava alcuna supremazia dell’uno sull’altro.

    La parola imperator era legata a imperium, il potere del comando militare. In età repubblicana, nel corso di una guerra il Senato poteva concedere temporaneamente l’imperium ai consoli, ma tale ruolo non poteva essere esercitato all’interno del confine sacro (pomerium) di Roma. In circostanze eccezionali poteva essere conferito anche a un giovane di rango senatoriale. Per esempio, nel 212 a.C. fu concesso a Scipione quando aveva soli ventiquattro anni, poiché le sue abilità militari erano diventate una questione di vita o di morte nella seconda guerra punica ¹³. Tutto ciò cambiò con Augusto nel 23 a.C., quando il Senato sancì che non solo non poteva detenere l’imperium a Roma, ma anche che non aveva bisogno che gli venisse rinnovato. Si pensava infatti che il suo imperium – noto come imperium proconsulare maius – implicasse un’autorità superiore rispetto a quello di qualsiasi console o ex console. Inoltre, ogni anno il Senato accordava a lui e ai successori i privilegi e i poteri del tribuno della plebe, che gli consentivano di mostrarsi come protettore della gente comune ¹⁴. Sebbene in latino non esista una parola per designare l’imperatore, il fatto che l’imperium speciale di Augusto fosse diventato una componente legale integrante del suo potere assoluto ha fatto sì che, col tempo, il titolo imperator diventasse sinonimo di quello stesso potere supremo, e dunque all’origine della parola imperatore.

    In età imperiale un generale poteva essere temporaneamente acclamato imperator dalle sue legioni come favore speciale, così come avveniva in passato. Augusto lo permise diverse volte prima del 27 a.C., Tiberio solo una volta nel 22 d.C ¹⁵. In séguito solo gli imperatori furono investiti di quel titolo, spesso menzionato sulle loro monete, ma le legioni erano comunque in grado di acclamare unilateralmente il proprio generale imperator. In quei casi, lo stavano effettivamente dichiarando governante supremo al posto dell’imperatore in carica. È ciò che accadde nel 68, quando le legioni di Galba si ribellarono contro di lui acclamando un nuovo imperatore, dando così inizio alla guerra civile del 68-69, e di nuovo con la guerra civile del 193 in seguito all’assassinio di Commodo, e di tanto in tanto nel corso del

    III

    secolo.

    Legioni, fanteria e cavalleria ausiliarie e irregolari

    Sullo stato del mondo romano alla morte di Augusto nel 14 d.C., Tacito scrive: «l’Impero aveva avuto per confini l’Oceano e fiumi lontani; legioni, province, flotte, composta insieme ogni cosa» ¹⁶. Ciononostante, in età imperiale l’esercito era costituito da un’ampia varietà di reparti, che andavano dalle legioni alle unità irregolari di fanteria o cavalleria arruolate fra le tribù ai confini dell’Impero. L’esercito romano raggiunse il livello di organizzazione più coerente e costante con gli imperatori, in particolare da Augusto fino a metà del

    III

    secolo d.C. Tuttavia, non operò mai come un’istituzione singola, e le sue dimensioni e la disposizione delle unità cambiavano in continuazione.

    I racconti sulla nascita dell’esercito in età repubblicana ci forniscono numerose prove sull’origine dei suoi vari elementi. Grandi generali della Repubblica, come Scipione Africano e Scipione Emiliano, furono enormemente venerati nei secoli successivi ¹⁷. Il poeta augusteo Virgilio decide persino di far mostrare a Enea i due Scipioni durante la sua visita negli inferi, dove gli vengono descritti come «due fulmini di guerra» ¹⁸. Aneddoti e menzioni ammirate dei due Scipioni sono presenti in ogni genere di opere successive, come la raccolta di fatti e detti memorabili di Valerio Massimo. Venivano ricordate anche battaglie disastrose dell’età repubblicana, come quella di Canne nel 216 a.C., ma come avvertimento.

    Vi erano differenze importanti fra l’esercito dell’età repubblicana e quello dell’età imperiale. Durante la Repubblica, gli eserciti venivano formati nei momenti di necessità, ed erano costituiti prevalentemente da cittadini di Roma e dell’area circostante, supportati in seguito da alleati italiani. Questo rafforzava l’idea che lo scopo fosse difendere la madrepatria, soprattutto durante la prima e seconda guerra punica, anche se nel

    II

    secolo a.C. ormai l’esercito tendeva a essere usato nelle guerre di conquista. In età imperiale, invece, non solo era permanente, ma era anche stanziato perlopiù nelle province di confine. A partire dalla fine della Repubblica, i soldati arruolati provenivano principalmente da territori più lontani dalla capitale, come i legionari della Gallia e della Hispania, o gli ausiliari traci, batavi e sarmati. Questi uomini erano più fedeli alle proprie unità e ai propri comandanti, o ai territori di origine, piuttosto che a Roma, che probabilmente in pochi ebbero mai occasione di vedere.

    Oggi le unità più conosciute dell’esercito romano sono le legioni. Quelle di fanteria erano dominate da uomini provenienti da Italia, Gallia e Hispania, ma supportate da unità ausiliarie provinciali (auxilia), che andavano da ali di cavalleria di prim’ordine (alae) a semplici coorti di fanteria. La Guardia pretoriana (Cohortes Praetoriae), che si occupava della sicurezza dell’imperatore, era il reparto d’élite e il più privilegiato di tutto l’esercito. Era di stanza a Roma, su cui vigilava insieme alla cavalleria personale dell’imperatore (equites singulares Augusti). Era comandata da uno dei prefetti equestri di più alto grado, il prefetto del pretorio (praefectus praetorio), ed era supportata dalle coorti urbane (cohortes urbanae), una vera e propria polizia cittadina istituita da Augusto intorno al 13 a.C. e comandata dal prefetto di Roma (praefectus urbi). Esisteva anche un corpo di vigilanza notturna e di protezione dagli incendi (cohortes vigilum, o vigiles urbani) sotto il comando del prefetto dei vigili (praefectus vigilum), istituito da Augusto nel 6 a.C. Sebbene in età imperiale, da Tiberio in poi, la Guardia pretoriana e le coorti urbane fossero ospitati ufficialmente nei Castra Praetoria a Roma, in realtà venivano spesso inviati in tutto l’Impero, o in qualità di reparto (ad esempio le coorti urbane dislocate a Lione e Cartagine) o come singoli soldati in missione per conto dell’imperatore. Sparse in tutto l’Impero si trovavano infine varie flotte, come la classis britannica e la classis germanica, sotto il comando di prefetti equestri.

    Il numero di legioni, unità ausiliarie, pretoriani, coorti urbane, vigili e flotte variava in continuazione, e possiamo soltanto provare a stimare gli effettivi di un reparto in un dato periodo. Solo in rari casi abbiamo dati riguardo a un’epoca specifica, soprattutto in età repubblicana. Quando Tito Livio indagò sulla grandezza dell’esercito, alla fine del 217 a.C., scoprì che le sue fonti anonime non concordavano sul numero e sul tipo delle reclute supplementari. «A stento mi induco ad affermare qualche cosa di certo», scrive, prima di spiegare come variassero drasticamente i numeri delle legioni e gli uomini coinvolti ¹⁹. Non provò in alcun modo a decidere quale potesse essere la fonte più affidabile. (Questo spiega anche perché il numero dei caduti in battaglia dato dagli storici antichi è praticamente privo di valore, se non come metafora dell’estensione delle perdite).

    In età imperiale la situazione non migliora molto. Tacito fornisce una descrizione ragionevolmente dettagliata della disposizione dell’esercito nel 23, sotto Tiberio. Tuttavia, lo storico latino scriveva solo settant’anni più tardi, usando registri che doveva aver trovato negli archivi imperiali. Secondo quanto ci dice, vi erano otto legioni sul Reno, tre in Hispania, due in Africa del Nord e altre due in Egitto, quattro in Siria e in Medio Oriente, e quattro sul Danubio (con altre due come riserva), per un totale di venticinque legioni. Roma aveva un suo esercito, composto di nove coorti pretoriane (Tacito non ne specifica le dimensioni) e tre coorti urbane, e l’intera Italia era difesa da una flotta sulla costa occidentale a Miseno e una su quella orientale a Ravenna. Aggiunge che gli uomini delle unità ausiliarie di cavalleria e fanteria raggiungevano un totale non molto inferiore a quello delle legioni, ma sottolinea che il loro numero oscillava a seconda delle necessità ²⁰. Da ciò possiamo dedurre che le legioni contassero circa 125.000 effettivi, e se Tacito aveva ragione gli ausiliari arrivavano a una cifra simile. Nel 23, dunque, l’esercito romano era composto approssimativamente da 250.000 soldati di vario tipo, sparsi in un Impero vasto ma in particolar modo ai confini, stanziati nelle province in cui vi era più bisogno. Tale distribuzione variava col tempo, poiché le legioni venivano formate e perse, o trasferite, e lo stesso valeva per gli ausiliari. Un’affascinante iscrizione trovata a Roma elenca tutte le legioni e le province in cui erano di stanza, ma può essere datata soltanto approssimativamente al

    II

    secolo, con aggiunte fatte dopo il 160 ²¹.

    Un rapporto sulle unità ausiliare attestate, sia di cavalleria sia di fanteria, che sappiamo essere esistite sotto Adriano intorno al 130, ha fornito una stima di poco meno di 218.000 ausiliari in servizio all’epoca, con un rapporto di circa due a uno a favore della fanteria. In un altro rapporto viene riportato un numero appena inferiore ai 181.000 effettivi. Le cifre sono indicative, soggette a una serie di precisazioni (si veda il Capitolo 5 per i rapporti ancora esistenti riferiti alle forze disponibili delle singole unità), e la differenza tra i due dati mostra quanto le testimonianze si prestino a varie interpretazioni. Tuttavia, entrambe le stime suggeriscono che sotto Tiberio il numero degli ausiliari fosse aumentato considerevolmente ²².

    All’inizio del

    III

    secolo, Cassio Dione ripensò ai numeri dell’esercito nel 5 d.C. per fare un paragone con la sua epoca. Secondo quanto riporta, sotto Augusto esistevano ventitré o venticinque legioni, anche se – come Tito Livio – specifica che le fonti non concordano. Di queste, diciannove esistevano ancora, ma aggiunge che dall’epoca di Nerone ne erano state formate altre tredici, per un totale di trentadue, o approssimativamente 160.000 uomini (si veda la Tabella 1 per un riassunto). Non era sicuro riguardo agli ausiliari: «Non posso dare una cifra esatta», scrive. Ma se le stime degli ausiliari sotto Adriano sono almeno in parte corrette, è probabile che all’epoca del regno di Settimio Severo (193-211) l’esercito contasse fra i 340.000 e i 380.000 uomini. Potrebbe essere stato persino notevolmente più grande: alcune stime moderne portano il totale a circa 450.000 effettivi, più altri 30.000 uomini circa nelle flotte ²³.

    Cassio Dione aggiunge che la Guarda pretoriana era composta da 10.000 uomini divisi in dieci coorti, oltre a un numero non specificato di veterani che nel 5 d.C. si erano arruolati di nuovo nell’esercito di Augusto ²⁴. Tuttavia, non è chiaro se abbia riportato i numeri sulla Guardia pretoriana della sua epoca, poiché è evidente che le cifre non concordano con le nove coorti menzionate da Tacito per il 23. Da altri documenti emerge che la Guardia pretoriana era di dimensioni variabili, pertanto non possiamo essere sicuri della sua ampiezza e organizzazione in nessun periodo. Lo stesso vale per le cohortes urbanae, per le quali Cassio Dione non dà alcuna cifra. Né Cassio Dione né Tacito (i cui testi si trovano nelle Appendici) accennano ad altri reparti dell’esercito che sappiamo invece essere esistiti, come gli equites singulares Augusti, i trecento speculatores che servivano da cavalleria personale dell’imperatore, o le unità speciali di guardie del corpo germaniche, i Germani corporis custodes, reclutate da alcuni imperatori.

    Le testimonianze mostrano che, quale che fosse la situazione in un dato periodo, era diversa in altri, e di solito in modi che oggi non possiamo determinare. È estremamente improbabile che i romani stessi abbiano mai conosciuto con precisione la vastità del loro esercito. Sarebbe stato impossibile redigere un censimento affidabile delle forze militari, che in ogni caso una volta completato non sarebbe stato già più aggiornato. Inoltre, ogni legione operava in gran parte in maniera indipendente rispetto alle altre. Poteva dichiarare lealtà al proprio comandante o al governatore provinciale se l’imperatore non si dimostrava all’altezza delle aspettative. Questo spiega il perché per gli aspiranti imperatori, spesso governatori di provincia, fosse relativamente semplice fomentare ribellioni che sfociavano in guerre civili, come accadde durante i disordini che seguirono i regni disastrosi di Nerone e Commodo.

    Inoltre, i romani usavano sistemi di numerazione non sempre coerenti per designare le legioni e le coorti, che fossero pretoriane o ausiliarie. Legioni o unità ausiliarie sciolte o annientate scomparivano dalla sequenza numerica, lasciando un vuoto (si veda sotto) ²⁵. Le legioni stesse furono organizzate con una certa coerenza solo a partire dal

    I

    secolo a.C., sebbene fossero una componente chiave dell’esercito da molto tempo. In età imperiale, la struttura di una legione ricordava ancora in parte quella dell’esercito descritto da Polibio a metà del

    II

    secolo a.C., nonostante nel frattempo fossero cambiate significativamente, con un’organizzazione che sarebbe durata almeno fino al

    III

    secolo d.C.

    Dal regno di Augusto alla fine del

    III

    secolo d.C., ogni legione contava in teoria circa 4800 uomini, divisi in dieci coorti da 480 uomini, più i centurioni, gli optiones, gli ufficiali e, almeno in alcuni casi, 120 cavalieri (non sappiamo se tutte le legioni ne avessero 120; si veda il Capitolo 6). Per la fine del

    I

    secolo, il numero di uomini della prima coorte era raddoppiato, ma non necessariamente in ogni legione, portando il totale a 5120 uomini, più gli extra ²⁶. Tuttavia, nelle fonti non esistono indicazioni precise sull’esatta grandezza di una legione. A livello generale si ritiene che, nella maggior parte dei casi, fosse composta da 5000-6000 soldati. Col tempo i numeri cambiarono. All’inizio del

    V

    secolo, Vegezio descrive quella che chiama «l’antica composizione della legione», ma specifica che consisteva di 6100 uomini di fanteria e 762 di cavalleria divisi in dieci coorti. Anche se lascia intendere che questi fossero i numeri di una legione in epoche precedenti, è chiaramente un misto di dettagli del passato e una disposizione delle legioni più vicina alla sua epoca, soprattutto per quanto riguarda il numero molto più alto di cavalieri ²⁷.

    Ogni coorte legionaria era composta di sei centurie di ottanta uomini, a eccezione della prima coorte che era formata da cinque doppie centurie da 160 uomini (ottocento in totale)*. La centuria indicava letteralmente cento uomini, sotto il comando di un centurione (centurio). Ma, com’era tipico del mondo romano, la parola fu mantenuta anche quando il suo significato originario era ormai diventato obsoleto. Una centuria di ottanta uomini era divisa in dieci unità (contubernia) di otto uomini. Ogni contubernium divideva una tenda durante le campagne, o una stanza nella caserma di un forte. Due baracche una di fronte all’altra nei forti potevano rappresentare la continuità per due centurie dell’antico termine manipulus. La parola significa una manciata, ma col tempo diventò un termine militare colloquiale per indicare un gruppo di uomini. Nel tardo Impero, fra i manipoli significava fra i soldati comuni ²⁸. C’era inoltre il contingente di cavalleria della legione, più vari ufficiali inferiori, i centurioni e gli optiones.

    Le legioni riflettevano la struttura sociale romana. Erano comandate da un senatore anziano, il legatus legionis. Di norma, le uniche eccezioni erano le legioni dislocate in Egitto. Ai senatori era proibito visitare la provincia, e mai un senatore fu nominato governatore d’Egitto: questo perché si temeva che potessero sfruttare le enormi risorse della provincia per arrivare a diventare imperatori. L’Egitto era governato dal praefectus Aegyptii, e non da un senatore, e ogni legione in Egitto da un praefectus equestre. Fino al

    III

    secolo, una delle poche eccezioni a questa regola generale si verificò nel 184, quando Commodo mise degli equestri al comando di alcune legioni come parte della sua vendetta nei confronti del Senato ²⁹. Nel

    III

    secolo, affidare il comando di una legione a un equestre diventò la norma.

    Il legatus legionis era il delegato personale dell’imperatore. Era un senatore sulla trentina che aveva raggiunto lo status di praetor, una magistratura di alto livello che gli conferiva il diritto di poter comandare un esercito. Era al culmine della carriera senatoria, che avrebbe potuto prevedere il passaggio a un governatorato di provincia, o a un consolato a Roma, la magistratura più alta, e in seguito ai governatorati provinciali più importanti in qualità di proconsole. Avrebbe potuto comandare la legione solo per alcuni anni. Il vice del legato era il tribunus laticlavius, ovvero il tribuno con una larga striscia di porpora. Questo alludeva al fatto che si trattava comunque di un senatore, anche se nelle fasi iniziali della carriera, e perciò aveva il diritto di indossare la toga dei senatori, riconoscibile appunto dall’ampia striscia di porpora. A tempo debito sarebbe stato promosso, ricoprendo una serie di posizioni tra cui anche il comando di una legione. Il legatus legionis e il tribunus laticlavius erano gli unici senatori all’interno dell’unità.

    Nella legione, sotto alle due cariche senatoriali troviamo il praefectus castrorum (prefetto dell’accampamento), un uomo che entrava a far parte così dell’ordine equestre. Era una posizione ricoperta da un soldato che aveva servito per tutta la sua vita, dopo aver scalato la gerarchia dei centurioni ed essere diventato primus pilus, il centurione più anziano della legione. Un esempio fu Marcus Pompeius Asper: dal suo elaborato monumento funerario sappiamo che servì come centurione nella Legio

    XV

    Apollinaris e nella Cohors

    III

    Praetoria, e come primus pilus della Legio

    XV

    Cyrenaica, prima della sua ultima promozione a praefectus castrorum della Legio

    XX

    tra la fine del

    I

    secolo e l’inizio del

    II

    ³⁰. Come accadeva spesso per uomini del suo rango, la prima parte della carriera fu considerata insignificante, e pertanto non degna di essere menzionata.

    Sotto al prefetto dell’accampamento vi erano cinque tribuni angusticlavii, tribuni con una stretta striscia di porpora, di rango equestre. Erano ufficiali a cui poteva essere affidato qualsiasi compito di comando e, in seguito, la guida di un’unità ausiliaria. Sotto ai tribuni troviamo i centurioni, i quali disponevano di un optio, un assistente.

    Spesso le legioni venivano divise in distaccamenti temporanei conosciuti come vexillationes (vessillazioni), che presidiavano e combattevano in luoghi diversi. Si chiamavano così perché ogni vessillazione aveva appunto un suo vessillo. A volte i veterani si riunivano in ali di supporto alle legioni. Alcuni rapporti sulle forze disponibili dimostrano che i soldati potevano essere distaccati o in gruppo o da soli per una varietà di compiti pressoché infinita, come servire da assistente del governatore, mantenere la pace in una città o supervisionare le miniere. Alla periferia di Londra, ai tempi detta Londinium, la capitale della Britannia, un forte ospitava la guardia del corpo del governatore. Come documentato da alcune iscrizioni trovate proprio a Londra, era formata da soldati provenienti da tutta la provincia, che venivano distaccati dalle legioni o dalle unità ausiliarie di appartenenza. Simili distaccamenti avvenivano in tutto il mondo romano, ad esempio per prendere parte a lavori di costruzione. Sembra che nel

    II

    secolo la realizzazione della fortezza della Legio

    XX

    a Chester, in Britannia, sia stata interrotta perché troppi uomini erano stati inviati a costruire il vallo di Adriano. Le assenze potevano essere dovute a malattie o a congedi per motivi personali. In poche parole, se potessimo viaggiare nel tempo e visitare una fortezza legionaria, le probabilità di trovarvi anche solo buona parte della legione sarebbero praticamente nulle, e lo stesso accadrebbe con un forte ausiliario.

    Sebbene legioni dalla

    I

    alla

    XXII

    – e, incongruamente, la

    XXX

    – siano state identificate dalle testimonianze dall’epoca di Augusto in avanti, i romani non seguivano una sequenza regolare. Dopo la sua vittoria ad Azio nel 31 a.C., Augusto aveva sia il suo esercito sia quello di Antonio, per un totale di sessanta legioni. Le ridusse a ventotto, ma la numerazione non riflette tale scelta. Sappiamo che a un certo punto sono esistite sei diverse Legio

    I

    ; si distinguevano soltanto per il loro epiteto, che poteva identificare il luogo di formazione o una qualità speciale, come ad esempio la Legio

    I

    Germanica o la Legio

    I

    Flavia Minerva. La vita di una legione poteva terminare prematuramente perché i soldati erano stati sconfitti, o persino annientati. Nel 9 d.C. tre legioni furono distrutte dalle tribù germaniche nell’umiliante disfatta di Varo. Di conseguenza i loro numeri,

    XVII

    ,

    XVIII/XIIX

    (diciotto) e

    XVIIII

    (diciannove) non furono mai più usati. Una delle legioni successive, la Legio

    XXX

    Ulpia Victrix, fu formata da Traiano all’inizio del

    II

    secolo. I numeri da

    XXIII

    a

    XXVIIII

    (ventinove) furono omessi. Probabilmente formare una Legio

    XXX

    aiutava a compensare i numeri duplicati, e perciò dava un’impressione generale più accurata delle dimensioni dell’esercito. Tuttavia, un’altra spiegazione è che la Legio

    XXX

    fosse la prima di una nuova serie di legioni, numerate a partire proprio da

    XXX

    ³¹.

    Quasi sicuramente, questa peculiare numerazione derivava da un sistema molto più coerente in vigore nell’età repubblicana. Lawrence Keppie ha ipotizzato che in origine

    I-IIII

    fossero i numeri destinati alle quattro legioni formate da due consoli, se le circostanze li costringevano a formare un esercito durante il loro anno di mandato. Numeri più alti venivano poi assegnati a ulteriori legioni create per compiti specifici durante le campagne ³². Le legioni inoltre erano soltanto numerate, senza ulteriori titoli ³³. Nel 58 a.C., in Gallia Cisalpina e Transalpina, la guarnigione era formata dalle legioni

    VII-X

    quando Cesare arrivò a prendere il comando. Un centurione di nome Numerius Granonius di Luceria, in Italia, stava prestando servizio nella Legio

    XIIX

    (diciottesima) in Oriente quando morì ad Atene a metà del

    I

    secolo a.C., il che suggerisce la presenza di un altro blocco di legioni con numero alto assegnate a quell’area. Aveva anche servito nella Legio

    II

    di Pompeo ³⁴. Tra l’altro l’iscrizione è incredibilmente rara per il periodo in questione, e perlopiù serve a dimostrare che non è mai stato trovato niente di paragonabile in qualsiasi altra regione che permettesse di chiarire dove fossero dislocate le legioni. Tutto ciò che possiamo dire è che alcune di queste legioni potrebbero essere sopravvissute alle guerre civili della tarda Repubblica, mantenendo il numero con cui erano designate e unendosi ad altre che si erano formate nel frattempo.

    È altrettanto possibile che i numeri fossero del tutto casuali. Qualsiasi significato geografico era ormai perso da tempo nel

    I

    secolo d.C., il che spiega perché la Britannia avesse quattro legioni numerate

    II

    ,

    VIIII

    (nona),

    XIIII

    (quattordicesima) e

    XX

    . Quando nel 70 la

    XIIII

    fu ritirata, venne temporaneamente sostituita da un’altra numerata

    II

    (Adiutrix, formata da uomini reclutati dalle flotte). Allo stesso modo, la Guardia pretoriana era conosciuta collettivamente come cohortes praetoriae. Il numero e la grandezza delle coorti pretoriane cambiarono nel corso del tempo, con vuoti misteriosi nella sequenza attestata. Lo stesso valeva per le coorti urbane ³⁵.

    Sotto la tarda Repubblica e gli imperatori, le legioni, o almeno quelle ancora esistenti, svilupparono forti identità, soprattutto se avevano ottenuto grandi successi ed erano particolarmente amate dai generali, un fattore importante per il morale dei soldati. Cesare, per esempio, era particolarmente affezionato alla sua Legio

    X

    ³⁶. Nella maggior parte dei casi i nomi riflettevano la loro storia o formazione: ad esempio, la Legio

    I

    Flavia Minervia fu formata da Domiziano, della dinastia Flavia, che nutriva uno speciale interesse nella dea Minerva. Agli inizi degli anni Trenta a.C., una delle legioni identificate come sesta diventò nota come Legio

    VI

    Ferrata, un soprannome legato alle sue prestazioni in guerra e alla parola ferrum, materiale usato a volte per le spade. In modo simile, la Legio

    VI

    Victrix era chiamata vittoriosa. La Legio

    XIIII

    (quattordicesima) Gemina Martia Victrix, invece, aveva uno dei nomi più lunghi. Gemina alludeva al fatto che, poco dopo la battaglia di Azio, fu riformata a partire da una delle legioni di Ottaviano, con l’aggiunta di soldati presi dall’esercito sciolto di Antonio; l’epiteto Martia Victrix (vincitrice marziale) derivava invece dalla vittoria su Boudicca, regina degli Iceni, in Britannia nel 60-61. Godette di quei titoli per il resto della sua esistenza. Una delle più insolite fu la Legio

    V

    Alaudae, che prendeva il nome da una parola gallica che significava allodole crestate ³⁷. La legione fu formata da Cesare nella Gallia, e forse l’unica spiegazione risiede nel fatto che gli elmi erano decorate con delle ali (ma si veda sotto per l’incoerenza di questo simbolo).

    Nella parte orientale e grecofona dell’Impero, nella corrispondenza privata era in uso la convenzione greca di sostituire i numeri con le lettere e di tradurre i nomi delle legioni. La Legio

    II

    Adiutrix (l’ausiliatrice) fu formata da Vespasiano nel 70 reclutando i soldati delle flotte, probabilmente come ricompensa per il supporto nella guerra civile. A volte i suoi stessi uomini la chiamavano λεγεών β βοηθός ("Legeōn

    II

    Boēthos"),

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