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Nel nome di Cesare
Nel nome di Cesare
Nel nome di Cesare
E-book474 pagine6 ore

Nel nome di Cesare

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Info su questo ebook

Nella guerra civile che nel 49 a.C infiamma Roma, la città di Massilia, con il porto più importante del Mediterraneo settentrionale, assume un ruolo chiave. Per portarla dalla propria parte il Senato, schierato a favore di Pompeo, usa le armi della diplomazia e della corruzione. Cesare invece ricorre alle legioni e la cinge d’assedio. I centurioni Verre e Cinna, fedeli alla sua causa, dovranno affrontare temibili nemici, druidi assetati di sangue, ma anche spie astute e subdole insidie, di fronte alle quali si sentono disarmati: quelle dell’amore. Dopo il successo de “L’inviato di Cesare” l’autore torna a proporci l’affresco di un’epoca storica affascinante, con una galleria di personaggi al limite della leggenda e un susseguirsi di vicende mozzafiato.
LinguaItaliano
Data di uscita3 lug 2020
ISBN9788832144499
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    Anteprima del libro

    Nel nome di Cesare - Andrea Oliverio

    te.

    I

    Roma, marzo 49 a.C.

    Una smorfia di dolore deformò il viso del centurione mentre il dottore gli tastava il polpaccio. La memoria tornò alla feroce imboscata subita trenta giorni prima. Solo il tempestivo intervento di un drappello di cavalieri numidi era valso a scongiurargli conseguenze nefaste. Ripensare a quella vicenda ancora lo metteva di cattivo umore.

    «Mi sembra tutto a posto» gli disse il greco, «il mio collega ha fatto un buon lavoro.»

    I margini della ferita erano stati ben suturati dal medico da campo di Gaio Giulio Cesare, che lo aveva preso in consegna quando lo avevano trasportato ferito e ora, a parte la cicatrice, il muscolo poteva dirsi quasi guarito del tutto. Non poteva ancora percorrere lunghi tratti di strada, perché, dopo che camminava più del dovuto, la ferita iniziava a dargli fastidio.

    «Grazie, Hektor!»

    Prima di salutarlo, il medico si portò la mano al petto e fece un inchino con il capo. Il centurione Lucio Servilio Verre, raggiunta la soglia dell’ambulatorio, si girò con gli occhi lucidi: «Sono contento che tu ti sia salvato dall’incendio. Quando partirò per il fronte darò la bella notizia a quel brontolone di Cinna, sarà felice di sapere che sei vivo!»

    Il medico si massaggiò la barba curata con le dita prima di rispondere: «Per gli dei immortali, visto la bassa considerazione che ha di noi Greci, sono certo che avrebbe parole delicate nei miei confronti.»

    Scoppiarono entrambi a ridere, poi Verre si allontanò lungo la via affollata di mercanti per scomparire, inghiottito dalla frenetica vitalità dell’Aventino.

    Ritrovare Hektor era stata un’autentica sorpresa, lo aveva dato per morto tra le fiamme che avevano divorato la villa del suo padrone. Invece il greco gli aveva raccontato di essere riuscito a tuffarsi in mare fuggendo al proprio destino. Aveva nuotato per alcune miglia, per poi essere ritrovato, stremato e in balia delle onde, da un peschereccio che tornava dalla sua proficua battuta di pesca. Un paio di membri dell’equipaggio lo avevano afferrato e portato a bordo. Aveva poi raggiunto le coste della Sicilia da cui, una volta risalito lo stivale, aveva raggiunto Roma, dove aveva aperto un ambulatorio, mettendo la propria arte medica a disposizione dei bisognosi.

    Prima di far ritorno alla sua modesta abitazione nei pressi del Viminale, Verre gironzolò in quel quartiere dell’Aventino in cerca di Letizia. Da quando la ferita gli aveva permesso di muoversi, trovare quella donna era diventata una vera ossessione, ma carpire informazioni su di lei, lo sapeva, non sarebbe stata impresa da poco: era come pretendere di trovare una fibula in un campo di grano. L’aveva incontrata a Leptis Magna, durante la sua missione in Africa, e i suoi occhi, verdi e magnetici, gli avevano rubato il cuore al primo sguardo: da quella sera trascorsa insieme nella casa del magistrato della città fenicia non li aveva più rivisti.

    Vagava senza successo da un po’, stanco e assetato, quando s’infilò nella prima taberna per berci sopra. Dietro al bancone di dimensioni modeste scorse la sagoma di un oste mingherlino, intento ad asciugare delle coppe. L’uomo vedendolo accennò a un saluto. Il centurione era un uomo sulla trentina, al servizio nelle Aquile da più di un decennio. Un militare di media statura, dai capelli corvini e dalla muscolatura ben proporzionata. Sotto il comando di Cesare aveva combattuto in Gallia e da poco era tornato da una missione in terra d’Africa. Dopo la convalescenza, sarebbe ripartito di nuovo.

    I suoi occhi color nocciola faticarono ad abituarsi all’oscurità. Ricambiò il saluto del gestore, notando quanto fosse sudicio lo straccio che aveva tra le mani. La taberna era spoglia e deserta. Rispetto alle bettole del suo quartiere, la Suburra, affollate di meretrici, lestofanti e avanzi di galera, questa gli parve fin troppo tranquilla.

    «Che ti servo?»

    «Il vino migliore» e allungò una mano per depositare sul banco una monetina di bronzo, mentre lo sguardo del taverniere gli contava le cicatrici sul braccio.

    «Sei fortunato: ho appena messo dentro un betico di prim’ordine, che mi è arrivato direttamente da Ostia.»

    Verre prese con delicatezza la coppa riempita fino all’orlo, gustandosela a piccoli sorsi. Era buono, bisognava ammetterlo. Dall’Hispania giungeva un nettare degli dei superiore a molti prodotti nostrani smerciati a Roma, segno che le conquiste oltre le Alpi e il mare non erano state solo sanguinose. L’espansione della Repubblica stava dando buoni frutti.

    «Non è il solito piscio di cavallo che puoi bere nelle taverne della Suburra.»

    «In effetti» constatò lusingando l’oste, «abito lì e confermo quanto dici.»

    L’uomo deglutì preoccupato, il suo volto si fece rosso di vergogna per la brutta figura appena fatta e si affrettò a correggere il tiro: «Intendevo dire che, in questo mare di truffatori, è facile trovare gente che ti spaccia per vino acqua sporca.»

    Verre lo interruppe con un gesto della mano.

    «Tieni pure il resto» aggiunse prima di trangugiare le ultime gocce.

    Asciugatosi la bocca col dorso della mano, tornò sulla via, respirando a pieni polmoni l’aria fresca. A pochi passi dall’ingresso della taberna udì il parlare animato di un paio di mercanti, intenti a giocare ai dadi, mentre seduti aspettavano uno spuntino. Tese l’orecchio per capire meglio l’oggetto della contesa.

    «Ovunque barbari! Galli che combattono sotto le nostre insegne, Germani per la guardia del corpo di Cesare, Numidi neri come tizzoni e pure puzzolenti... ma dove andremo a finire?»

    Incuriosito dalla discussione, Verre fece per chinarsi fingendo di sistemare i lacci a una delle calighe chiodate.

    «Mi pare chiaro, no? Tra breve Roma non sarà più nostra. Figurati che in Senato i tribuni della plebe hanno chiesto di votare una legge per estendere la cittadinanza persino a quei bifolchi della Gallia Cisalpina!»

    «Sì, ho sentito qualcosa in proposito. Il che conferma che Cesare è pazzo, quando spergiura di agire per la gloria di Roma! Pompeo, almeno, il mondo se l’è pappato senza chiedere aiuto a nessuno, con i soli Romani.»

    Una irrefrenabile voglia di dar loro una lezione gli fece serrare i pugni, ma si trattenne. Persino dei barbari avrebbero servito la Repubblica meglio di quei due.

    «Se solo si fosse dato retta a Cicerone o a Catone, che esortavano a stare in guarda dalle reali intenzioni di Cesare... Il voto che in questi anni ha dato ai cittadini delle province da lui governate, ben gli tornerà a favore, stanne certo.»

    «Vedrai che la prossima mossa porterà in Senato gli zotici in brache a scacchi. Chissà che fine faranno i costumi dei nostri padri!»

    Quando l’arrivo dell’oste con una brocca e un paio di coppe interruppe la conversazione tra i due, il centurione riprese il suo cammino, sebbene con il malcontento dipinto in viso. Si aspettava la reazione negativa dei patrizi avversi alle azioni del proconsole, ma non che persino il popolo nutrisse tanto astio contro Cesare.

    Sconfortato per il fallimento della sua sortita, si avviò verso casa. Abitava nella sporca e malfamata Suburra, la zona dell’Urbe che ogni romano di buona famiglia avrebbe dovuto evitare con cura. Tutti lo conoscevano come il figlio del macellatore di verri, da cui il cognome: un’eredità che solo anni dopo, forse, sarebbe riuscito a scrollarsi di dosso.

    Le insulae, edifici alti e affollatissimi, toglievano luce e aria alle vie strette e brulicanti della Suburra, dove le persone comuni, povere per lo più, vivevano in una condizione inenarrabile di miseria e sporcizia. Verre non ci si era ancora abituato: all’avvicinarsi al vicolo della sua abitazione, il tanfo gli chiudeva ogni volta il naso. E forse per questo non si accorse del liquido nauseabondo che dai piani alti era stato riversato nella via, formando una pozzanghera. Ci finì dentro con il piede della gamba dolente, macchiandosi la tunica e schizzando poco più in là il liquame puzzolente.

    Una voce femminile lo destò dall’imbarazzo: «E sta’ attento, per Giove! Guarda che cosa hai fatto.»

    In un primo momento, Verre notò solo una veste insozzata e dei calzari macchiati, ma quando alzò gli occhi, a stento controllò la propria reazione. Sorpreso, senza parole, fissò la donna che aveva di fronte, squadrandola di nuovo da capo a piedi. Indossava una tunica di finissimo color azzurro, con una larga fascia alla vita, sulla quale spiccava una fibula d’argento. Sopra la veste portava un mantello bianco e i capelli, intrecciati in modo elaborato e raccolti dietro la nuca, le ricadevano sulle spalle. Il viso ovale le metteva ancor più in risalto gli occhi verdi da cerbiatta. Le labbra, di un rosso intenso sulla sua carnagione chiara, lo colpirono smuovendolo dentro come la prima volta: quella bocca carnosa era irresistibile. Settimane a cercarla in ogni angolo dell’Urbe e poi, eccola lì, a pochi isolati da casa sua: Fortuna aveva deciso di farli incontrare di nuovo. Si ripromise di omaggiare la dea con un sacrificio per ringraziarla prima di partire per il fronte.

    «Letizia!»

    «Lucio! Ti ho trovato, anche se mi avevi dato indicazioni alquanto approssimative, devo dire.»

    Verre rispose al sorriso di lei pur ricordando bene di non averle mai rivelato dove abitasse. In quel momento però la faccenda di chi avesse trovato chi era secondaria. Era teso, emozionato, poco incline alla logica: troppo preso da quell’incontro inatteso, ma a lungo cercato.

    «Pensi che ci si debba fermare qui ancora per molto?» gli chiese destando il centurione dallo stupore.

    «Scusami, sono proprio un maleducato» e ridendo si portò la mano destra alla nuca. «Seguimi, è qui vicino.»

    Letizia gli andò dietro, soddisfatta per averlo trovato con facilità, dopo aver reso del tutto casuale un incontro che invece aveva preparato da tempo: suo padre le aveva fornito le indicazioni giuste e lei aveva di nuovo ben recitato la parte.

    Tito Pullo, un tempo commilitone e amico di Verre, era uno degli uomini più valorosi di Cesare. Tornato dall’ultima campagna in Gallia, aveva però tradito la fiducia del suo generale e si era schierato con gli ottimati, la fazione del Senato favorevole a Pompeo, divenendone un loro luogotenente. Qualche mese prima aveva addirittura cercato di far passare Verre dalla sua parte, ma senza successo.

    Con Letizia, Verre proseguì per un centinaio di passi prima di trovare, sulla destra, una stretta scala in legno. Sul lato opposto della via, dall’uscio di un lupanare, con la tenda scostata, due prostitute seminude cercavano clienti.

    «Centurione, che fai, oggi non festeggi?» venne abbordato con una strizzatina d’occhio.

    «Un soldatino niente male! Dai, non fare il timido» fece eco l’altra, passandosi la lingua sulle labbra.

    Verre le ignorò. Odiava quel posto. C’era nato e vissuto a lungo, ma da quando s’era arruolato ci stava sempre meno, per fortuna. Da bambino usciva di casa per andare dal padre, nella macelleria. E anche allora, dalla tendaccia di fronte, uscivano a ogni ora del giorno clienti rossi in viso e con ancora la bava alla bocca, la cui sola vista lo metteva a disagio.

    «Be', Lucio, un bel comitato di accoglienza per... Verre, niente poco di meno che centurione! Chi l’avrebbe mai detto?»

    «Letizia, mi dispiace di averti mentito a Leptis Magna» cercò di giustificarsi.

    «Non ti preoccupare, ognuno ha buoni motivi per mantenere qualche segreto.»

    Compiaciuta per l’inaspettato aiuto ricevuto dalle lupe, fissò Lucio con un sorrisetto allusivo. Tutto procedeva per il meglio: lui non sapeva nulla di lei e ignorava persino che fosse la figlia dell’ex amico, ora trasformatosi in nemico. Letizia lo aveva cercato su richiesta diretta di Sositeo, il segretario di Cicerone, che si era presentato una notte davanti all’uscio di casa con l’ordine di avvicinare l’ignaro militare, per carpirgli notizie sui piani strategici e gli intenti di Cesare.

    Il centurione la condusse per una scala stretta e lurida. A ogni passo il legno cigolava. Intorno, crepe e infiltrazioni sbriciolavano i muri. Lo stato di rovina dell’edificio le urtò lo stomaco. Tre piani più in alto si fermarono, nel buio. Da una porta aperta, fece capolino un bambino mezzo nudo, mentre all’interno un uomo e una donna si urlavano l’un l’altro, ignorando il pianto di un neonato. Verre allungò un tozzo di pane al bambino sulla soglia, che soddisfatto scappò dentro casa.

    L’abitazione, spartana nel mobilio, era ben curata, pulita in ogni angolo. Un rotolo di pergamena aperto sul tavolo catturò l’attenzione di Letizia.

    «Dunque, è questo il tuo regno?» esordì.

    «Sì, se così vuoi definirlo. Sono spesso in giro, per fortuna a Roma ci torno di rado, ma nonostante il quartiere che, come hai visto, non è proprio il massimo, questa casa rimane il mio rifugio dal mondo esterno. È ciò che resta del ricordo dei miei genitori. Ho trascorso tutta la mia giovinezza dentro queste mura » e si guardò attorno, come se quegli ambienti avessero preso vita catapultandolo d’incanto in un passato che non c’era più.

    «Per me invece è la prima volta che metto piede nella Suburra.»

    «Qualcosa mi dice che sarà anche l’ultima.»

    Entrambi risero.

    I modi gentili del centurione sorpresero Letizia.

    «Purtroppo, non ho molto da offrirti. Sai, tra un mese sarò al fronte.»

    «Eh già, voi uomini non fate altro che combattere!»

    «Per permettere a voi gente normale di vivere una vita serena, senza la minaccia dei tanti nemici di Roma.»

    Verre le offrì del vino, ma la coppa in terracotta cadde a terra, frantumandosi.

    «Che sbadata, scusami!»

    «Non ti preoccupare, pulisco io, ma attenta ai...»

    Non riuscì a finire la frase che Letizia si tagliò con un coccio. Verre le andò vicino e le afferrò la mano preoccupato, per controllare la ferita. Il contatto con la sua morbida pelle lo fece sobbalzare, sentì lo stomaco chiudersi come se qualcuno lo stesse torcendo a mani nude. Si sfilò il focale dal collo e lo avvolse con delicatezza attorno al piccolo taglio. Letizia lo lasciò fare: il primo impulso era stato quello di ritrarre la mano, ma aveva resistito.

    «Per fortuna non è niente di grave; tienilo ben stretto così» le mostrò come fare. «Vado a prendere qualcosa per pulire per terra.»

    Mentre il centurione si allontanava, Letizia si affrettò a sbirciare il documento esposto sul tavolo. Si trattava di una lettera scritta dal comando e firmata da Cesare in persona. Lesse solo Massilia e poi Prima Centuria, Quinta Coorte della Diciottesima Legione.

    La chiacchierata proseguì per parecchio tempo. Verre rispose a tutte le domande che un’incuriosita Letizia gli poneva di continuo. Lei sembrava osservarlo senza lasciar trapelare alcuna emozione, lui invece era in imbarazzo e quando lei gli annunciò che s’era fatto tardi, si sentì sollevato. Si offrì di accompagnarla: «La Suburra non è luogo per una donna sola.»

    Lasciarono l’angusta casa del centurione per perdersi nella calca dei vicoli sudici. Verre le stava vicino come un’ombra, pronto a scattare nel caso in cui avessero incrociato qualche malintenzionato.

    Dopo una lunga camminata i due giunsero al Circo Massimo, lo stadio delle sfide sui cocchi, un’attrazione molto gradita alla plebe romana. Non essendo giornata di corse, l’area limitrofa era piuttosto deserta. Verre ebbe il presentimento che qualcuno li seguisse, ma una Letizia raggiante, in quella bella giornata di primavera, lo distrasse.

    Attraversarono il Foro Boario con gli ultimi commercianti indaffarati, a fine mattinata, a riporre le merci negli otri e nelle casse. Il mercato era un andirivieni di schiavi che facevano la spola tra le bancarelle dei padroni e il vicino molo sul Tevere, dove la mercanzia avanzata veniva stipata nei magazzini o nelle imbarcazioni ormeggiate al porto fluviale.

    I due, fianco a fianco, si fermarono incuriositi davanti a una bottega. Alcuni servi stavano mettendo a punto le bighe di quelli che nello stadio gareggiavano vestiti di verde. Il lavoro attorno ai giunti dei carri era minuzioso, perché ogni svista o mancato controllo avrebbe pregiudicato la vittoria.

    «Ti piacciono le corse con le bighe?» lo incalzò Letizia, a mani giunte e sorridente.

    Verre, a disagio, si grattò la testa: «E chi ti dice che ne abbia mai vista una?»

    Gli occhi di lei si sgranarono per lo stupore.

    «Cosa?! Dobbiamo rimediare e al più presto. Prima che tu parta.»

    Il sorriso bonario di Verre si spense sul nascere. La figura imponente di un uomo, seminascosto nella penombra del vicolo alle loro spalle, lo fece sobbalzare.

    «Quel nubiano ci sta seguendo da quando siamo usciti dalla Suburra.»

    «Ma no, quello è Cabar, una delle guardie al soldo di mio padre» mentì lei compiaciuta. Per evitare di dover dare ulteriori spiegazioni, decise di far finire lì l’incontro con Verre. Aveva scoperto abbastanza. Con malizia, lo salutò sfiorandogli la mano, prima di raggiungere la guardia.

    «Quando possiamo rivederci?» le chiese Lucio prima che lei fosse troppo lontana per sentirlo.

    «Tra una settimana, presso il tempio di Vesta, all’ora settima.»

    Appena fu certa di trovarsi fuori dalla vista di Verre, Letizia afferrò il muscoloso braccio del numida e gli puntò l’indice sull’ampio torace: «Stupido bestione! Volevi mandare a monte tutto quanto? Portami dal tuo padrone, svelto! Devo riferirgli quanto prima le scoperte di oggi!»

    Il servo annuì e le fece strada verso la domus di Lucio Domizio Enobarbo.

    II

    Roma, marzo 49 a.C.

    «Le cose da dire sono state già dette. Ormai c’è posto solo per l'azione.»

    Nel calidario, il senatore alzò gli occhi verso le travi di legno del soffitto, costellato da estese macchie di muffa. Il suo volto magro e asciutto mostrava tutto il turbamento per gli eventi recenti. I segni delle rigidità a cui sottoponeva il suo corpo erano più che evidenti: un fascio di nervi avvolgeva lo scheletro, facendolo apparire più vecchio dei suoi quarantasei anni.

    Alle terme quel pomeriggio c’era poca gente. L’Urbe viveva in uno stato di preoccupazione palpabile, per via delle ultime notizie giunte da fuori e dei timori, più che giustificati, riguardo alle gravi ripercussioni che lo scontro tra Gaio Giulio Cesare e Gneo Pompeo Magno avrebbe generato. Molti erano in procinto di lasciare la città.

    «Credi che il Senato ci aiuterà?»

    La voce, stridula e fastidiosa, con un marcato accento greco, apparteneva all’uomo seduto a bordo vasca, accanto al senatore. Portava i capelli ben pettinati, tenuti assieme da una sottile fascia di tessuto azzurro, per evitare che i lunghi boccoli gli cadessero sugli occhi, larghi, di color marrone e resi ancora più ampi dalle palpebre impastate di kajal. Il suo corpo era longilineo e completamente glabro.

    «Certamente: la politica di Roma non è cambiata rispetto al passato, più di una volta vi abbiamo aiutato. O sbaglio?»

    «No, proprio come tu dici, Catone.»

    «Dunque, perché questa volta dovrebbe essere diverso?» e annuì con la testa, poggiando una mano fraterna sulla spalla dell’altro. «Il nostro intento è comune» continuò il senatore.

    Volute di vapore riempivano la grande sala. L’acqua fredda, versata a intervalli regolari sulle piastre roventi, saturava l’aria di umidità, pronta a condensarsi ovunque.

    Rincuorato, il greco trasse acqua calda dalla piscina per togliersi il sudore dalle braccia. Il senatore, invece, alzatosi e uscito dalla vasca, si strinse intorno alla vita il lenzuolo di lino, lasciato lì a pochi passi. L’altro, più giovane di qualche anno, scattò in piedi per raggiungerlo.

    Camminando fianco a fianco, attraversarono un lungo corridoio rivestito di marmo. Nelle nicchie, poste a intervalli regolari, accurate statue ricordavano gli illustri antenati della storia di Roma. Di fronte ad alcuni busti, il senatore deliziò il suo ospite con aneddoti sulla vita dei padri fondatori, per quanto quest’ultimo mostrasse più interesse per la volta ad arco del soffitto, un prodigio d’ingegneria mai visto altrove.

    Nel tragitto, furono in molti a mostrare referenza al canuto senatore, chi con un cenno della mano, chi inclinando in avanti la testa. Altri invece, i più discreti, passarono loro accanto limitandosi a una occhiata curiosa, seguita da un fitto confabulare.

    A Roma, Marco Porcio Catone era già un’istituzione, non solo per i suoi illustri natali - il bisnonno s’era guadagnato il soprannome di Censore - ma soprattutto per i suoi modi umili e il rispetto delle tradizioni degli antichi padri. In più di un’occasione aveva condannato gli sperperi della politica romana, proprio come il suo famoso antenato.

    «Cesare non è il padrone della Repubblica, dovrebbe esserne un umile servo come tutti noi» continuò senza curarsi dei saluti dei passanti.

    «D’accordo, però a Massilia alcuni miei colleghi non nascondono la preoccupazione per questo generale vittorioso. Temono, e io con loro, che il Senato romano possa dividersi.»

    «Erastos, frena la tua lingua prima di qualsiasi affermazione avventata. Le vittorie conseguite sono utili a lui e non alla nostra amata Repubblica: Roma comanda ancora il Senato!»

    «Non era mia intenzione mancare di rispetto a te o alle istituzioni romane. Ti chiedo solo di capire la mia posizione. Gli altri membri del consiglio cittadino pretenderanno delle rassicurazioni quando tornerò a Massilia.»

    «Le avrete! Per questo ti abbiamo fatto convocare con urgenza. Abbiamo saputo che Cesare è diretto in Hispania e passerà a chiedervi di aprirgli le porte in segno di alleanza. Riferisci che la sicurezza dei nostri amici e alleati viene prima della gloria personale. Non hanno nulla da temere. La determinazione è la più grande arma del popolo romano, soprattutto nei momenti più cupi.»

    Erastos e Catone giunsero in un ampio salone dove alcuni schiavi stavano massaggiando con vigore una mezza dozzina di uomini sdraiati. Si distesero anch’essi per gli ultimi trattamenti di rito. Alla fine delle abluzioni, la pelle, sottoposta in precedenza a notevoli sbalzi di temperatura, s’era pulita e ammorbidita: ora non restava che renderla liscia, levigarla per togliere le ultime scorie. Gli schiavi addetti ai massaggi, sfregavano il corpo con pezzi di pietra pomice. Al senatore poi, veniva riservata anche la rasatura dei peli in eccesso sulla schiena. Tutto questo prima della conclusiva applicazione degli oli rinfrescanti e profumati.

    «Riporterò le tue rassicurazioni al consiglio dei Quindici Primi» disse il greco, con voce meno tesa dopo i primi benefici effetti del massaggio rilassante.

    «Vacci piano, per Giove! Non sono farina da impastare!» esclamò il patrizio, dopo una manovra eseguita con troppo vigore.

    «Ah, amato cognato, ben arrivato!» esclamò un uomo di bell’aspetto, ormai prossimo ai lettini dei due ancora sdraiati.

    Il tizio, di media statura e dal fisico non più tonico come in gioventù, aveva una figura ancora ben curata. Una toga gli copriva le parti basse; emanava profumo di essenze e il suo corpo, perfettamente oleato, luccicava sotto i raggi che filtravano dai finestroni. Aveva il volto rasato di fresco e sulla sua testa spiccavano capelli corti e brizzolati, pettinati con cura.

    «Ti porto i saluti di mia moglie.»

    «Ah, Porcia, che amabile sorella! Salutala da parte mia. Erastos, ti presento Lucio Domizio Enobarbo, il governatore della Gallia Comata, appena eletto. Costui è Erastos, uno dei Quindici Primi di Massilia.»

    I due si strinsero la mano con vigore.

    «Marco, non riposi mai! Si direbbe che gli affari ti tolgano il sonno» commentò Lucio sorridendo.

    «Che vuoi che ti dica? Adempio al dovere che mi è stato imposto dal popolo romano: un compito che non ho mai chiesto, ma che voglio onorare con tutto me stesso» rispose sorridendo a sua volta.

    «Che gli dei ti assicurino lunga vita, dunque. Brindiamo!» suggerì il neo console, richiamando l’attenzione di uno schiavo. «Tu! Portaci subito del Falerno: per un ospite così rispettabile solo il miglior vino di Roma.»

    Dal vassoio Enobarbo prese una coppa per il greco, mentre l’altra venne portata a Catone che la rifiutò energicamente: «Vi rammollirete con tutto quel vino! È una bevanda capace di offuscare anche le menti più brillanti.»

    L’ospite bevve a piccoli sorsi, mostrando di gradire quel sapore così diverso da quello più forte a cui era abituato.

    «Ti prego, cognato!» lo ammonì seccato Enobarbo e, rivolto a Erastos, domandò: «Si dice che da voi il vino sia molto denso, è vero?»

    «Sì, lo confermo» rispose Erastos dopo aver schioccato la lingua. «Il nostro vino è ancora intriso del sangue dei barbari. Per questo ha un gusto unico.»

    «Avrete la possibilità di farmelo assaggiare appena arriverò a Massilia? Dev’essere una bevanda portentosa.»

    «Lo farò con immenso piacere.»

    La risposta di Erastos al neo senatore venne interrotta dall’irruenza di Catone, un poco infastidito dal prolungarsi dei convenevoli.

    «Nutriamo grandi speranze per la vostra reazione. Mostrate reticenza al dictator! La difesa delle vostre proprietà, dello Stato stesso, tutto dipende da voi. Consultatevi: sono certo che i cittadini di Massilia sapranno prendere la giusta decisione. Se non bastasse, il Senato di Roma è pronto a mandarvi come rinforzo il suo emissario più gradito: Enobarbo, qui presente.»

    «Se posso dire dell’altro» intervenne Enobarbo dopo aver trangugiato in un sol sorso tutta la coppa di vino, «aggiungerei che la guerra di potere in atto è nefasta, sia per i nostri alleati, sia per i vostri guadagni. In fondo, Massilia ha sempre avuto proficui rapporti commerciali con Roma.»

    «Sì, d’accordo, ma lasciatemi dire, Senatore Catone, Console Enobarbo, che forse state sottovalutando Cesare e la sua influenza. Non solo è abile e valoroso sui campi di battaglia, e lo ha dimostrato piegando la Gallia, ma sa anche come farsi acclamare dal popolo: conosce i metodi per manipolarlo a suo piacimento.»

    «Le tue parole mi deludono! Sopravvaluti le doti del presunto discendente di Venere» intervenne Catone con una smorfia di disappunto verso Erastos. «È solo un corrotto, capace di comprare ogni cosa con il denaro. E poi, dimentichi che la popolarità di cui parli è una bestia molto difficile da domare. Per questo, anche per lui il tempo è ormai giunto al termine.»

    «Mio cognato ha ragione: sopravvaluti troppo Cesare» ribadì Enobarbo. «Egli ha riportato vittorie solo contro dei barbari. Inoltre penso che senza l’aiuto di Labieno forse non sarebbe quel che tu pensi egli sia. E, se ancora non lo sai, ti informo che Labieno è passato dalla parte della Repubblica! Cesare è destinato a perire presto, perché da solo è un incapace.»

    Tra sé e sé, Erastos pensò che nel cursus honorum del neo governatore non ci fosse nulla che lo autorizzasse a parlare in quel modo. Rimase comunque sorpreso dal tradimento di Labieno, braccio destro del proconsole. Tenne la lingua a freno e continuò a mostrarsi pacato.

    «Io devo tornare a Massilia avendo ottenuto da Roma precise garanzie per il mio popolo.»

    La città di Massilia e il suo entroterra godevano di un’antica indipendenza. Pompeo anni prima le aveva assegnato le terre dei Volci e degli Elvi, sulle quali né il Senato, né il popolo romano reclamavano una qualche forma di dominio. Molti senatori e ricchi possidenti dell’Urbe continuavano però a mantenere in quella zona interessi commerciali di rilievo. Da quando la Gallia era diventata di fatto una colonia romana, per i Massilioti molte cose erano cambiate e stavano cambiando.

    «Cesare rimane pur sempre un uomo bieco, accostabile agli antichi re. Sarà meglio per i cittadini di Massilia schierarsi con la Repubblica. Questa, Erastos, come tu stesso puoi ben capire, è una guerra che sarà utile anche per voi, combattuta anche nel vostro interesse. Riferisci loro ciò che qui, nell’Urbe, hai sentito e lasciali decidere la cosa giusta per Massilia. Mai avere dubbi sullo schieramento giusto e vittorioso da appoggiare» concluse Enobarbo esprimendo tutta l’arroganza romana.

    Per Erastos la discussione era esaurita; non avrebbe più avuto senso prolungarla, nemmeno dopo un’altra coppa di vino. Non restava altro da fare che allontanare la sciagura di un altro possibile voltafaccia del Senato romano, che in caso di bisogno – non era difficile crederlo - non avrebbe esitato a consegnare Massilia in pasto a Cesare, pur di placarne la smodata fame di gloria.

    «Agirò sulla base dei vostri consigli. Ci vedremo presto a Massilia.»

    Si congedò dai suoi illustri compagni e a passo spedito guadagnò l’uscita delle terme. Rinvigorito nel corpo, questo sì, ma con la mente frastornata per l’esito incerto dell’intera faccenda. A breve, le legioni cesariane avrebbero raggiunto Massilia per poi proseguire verso la terra d’Hispania, dove li attendeva lo scontro con le truppe di Pompeo. L’uomo che maggiormente riscuoteva la fiducia del Senato, in realtà, non solo aveva già concesso troppo terreno all’avversario, ma era anche fuggito in Asia, in un luogo ben lontano dalle mura di Roma.

    Dopo aver seguito con lo sguardo il greco che si allontanava, Enobarbo si girò verso Catone, cercando di coglierne un’emozione di rilievo. Perso nei suoi pensieri, il senatore tornò con i piedi per terra solo dopo un lungo sospiro.

    «A cosa pensi?»

    «A Massilia. Sempre di più mi convinco che si schiererà dalla nostra parte, senza tradire l’antica alleanza» replicò il cognato senza guardarlo, tenendo gli occhi fissi su un punto davanti a sé.

    «Ne sei convinto?»

    «Dovranno decidersi in favore di uno dei due. In ogni caso la minoranza si opporrà alla decisione» rispose allargando le braccia.

    «Abile la figlia di quel Pullo, non c’è che dire. Grazie a lei abbiamo scoperto in anticipo le vere intenzioni di quel bastardo. Convocare qui e in tutta fretta il capo di Massilia è stato un gioco da ragazzi.»

    «Pare che il piano di Cicerone abbia funzionato. Cesare avrà una bella sorpresa appena raggiungerà le mura di Massilia!»

    «Per vincere una guerra non conta la forza dell’avversario. Bisogna solo stargli un passo avanti per prevederne bene le mosse: questo è il segreto.»

    Catone si alzò soddisfatto e dopo aver riservato allo schiavo flagellatore della sua schiena un’occhiataccia torva, salutò Enobarbo e si diresse verso l’uscita delle terme.

    Nessuno dei due si accorse che alle loro spalle, nell’ombra di una delle massicce colonne era rimasto nascosto ad ascoltare l’intero discorso il nipote di Marco Tullio Cicerone, un giovane ragazzo il cui padre aveva militato tra le fila dell’esercito cesariano. Un sorriso beffardo gli increspò gli angoli della bocca.

    III

    Massilia, marzo 49 a.C.

    «Senatore, siamo in vista delle coste di Massilia.»

    La voce del militare risvegliò Enobarbo assopito sullo scalino della scala che conduceva sottocoperta. Il neo-governatore della Gallia Comata bofonchiò qualcosa d’incomprensibile, la bocca ancora impastata per i recenti conati di vomito causati dal mal di mare, e lo mandò via con un eloquente cenno della mano, come stesse scacciando una mosca. Enobarbo aveva il volto emaciato per il viaggio via mare che non aveva potuto evitare. Era partito una settimana prima da un porto dell’Etruria, dove terminavano i confini Italici e si era imbarcato con il suo seguito, composto dagli schiavi personali, dal centurione Cesilio Ispano, responsabile della sicurezza, e da una mezza centuria di classiarii. Sull’agile trireme era stato caricato tutto l’oro che il Senato gli aveva consegnato per arruolare orde di mercenari ritenuti indispensabili per rinforzare le difese di Massilia contro il passaggio delle legioni di Cesare, già in marcia verso l’Hispania.

    Tremante sulle gambe e spossato dal viaggio, il governatore raggiunse sul ponte Ispano e il capitano, che stavano parlottando fra loro. In piedi sulla piattaforma del timoniere, le braccia sul parapetto, l’ufficiale indicò un agglomerato urbano che appariva come una grossa macchia tra il verde della costa della Gallia. «Saremo a Massilia tra poche ore.»

    Il vento spingeva l’ Audax avanti con forza, tagliando le onde; il movimento della nave fece barcollare Enobarbo, che mantenne con difficoltà l'equilibrio: perseguitato da un costante senso di nause, si sentiva sollevato all’idea di rimettere i piedi a terra. Ammirò lo spettacolo della città greca a bocca aperta, rapito dall’incredibile imponenza delle spesse mura che circondavano la polis, arroccata lungo la scogliera: blocchi di pietra grezza sovrapposti per un'altezza che doveva superare quella di cinque uomini uno sopra l'altro, costituivano una barrie ra difficile sia da superare con le scale, sia da sgretolare con le macchine da lancio. La presenza di fitti boschi tutt'intorno e il pendio scosceso, inoltre, impedivano la costruzione di rampe per l'accesso a lle temibili torri mobili, già usate in altre occasioni dal genio militare romano.

    Un forte luccichio per un attimo lo abbagliò: la cittadella composta dai palazzi sacri, centro del potere amministrativo e religioso di Massilia, si ergeva sopra agli uomini. Sull’intera città svettava il tempio di Artemide, la dea protettrice, che in quella soleggiata mattina di primavera illuminava di luce propria l’intera costa.

    Enobarbo mancava dalla città da quasi vent’anni, ci aveva vissuto per un breve periodo, quando lo zio conduceva degli affari nel sud della Gallia. Stentava a riconoscerla: molte cose erano cambiate da allora e il commercio di vino e schiavi, da e per l’Italia, aveva fruttato bene, a giudicare da come ora l’abitato si presentava davanti ai suoi occhi.

    Sul legno della banchina, logorato dall’umidità e dalla salsedine, Erastos, rappresentante dei Quindici Primi, e un ufficiale della milizia osservavano la trireme della marina romana fare il suo ingresso trionfale nel golfo.

    Alle loro spalle un cordone di opliti bloccava gli accessi al porto, faticando a contenere gli spintoni di una nutrita folla di curiosi, che sin dalle prime ore dell’alba si era riunita, per occupare il posto migliore e assistere allo sbarco di Enobarbo, l’uomo che il Senato romano aveva inviato come proprio emissario in soccorso alla città, accerchiata da un paio di giorni da tre legioni di Cesare. Il proconsole aveva chiesto più volte al consiglio dei vecchi saggi di appoggiare la sua campagna militare. Erastos, di ritorno da Roma, aveva tuttavia convinto il resto del Consiglio della bontà della proposta di Catone e aveva preso tempo, in vista dell’arrivo di Enobarbo, al quale i Quindici Primi avevano deciso di affidare il comando militare.

    I vogatori della nave da guerra avevano da tempo ritratto i remi e lo scafo entrò pigro nel porto. La coppia di timonieri aveva il suo bel da fare per governare la trireme tramite le barre ai due lati della chiglia.

    Alla vista dell’imponente rostro, i piccoli mercantili lasciarono il passo e l’ Audax, sospinta dall’inerzia, si avvicinò piano alla banchina. Non appena la murata si mise parallela ai pali per l’ormeggio, gli addetti afferrarono le cime lanciate dall’equipaggio per agevolare l’attracco.

    Lo scafo si adagiò contro i sacchi ricolmi di sabbia a protezione del pontile, mentre Enobarbo guardava impassibile il comitato di accoglienza pronto a riceverlo e fu molto compiaciuto nel vedere le misure di sicurezza adottate. Gli addetti stavano completando le operazioni per assicurare le funi, quando Ispano diede ordine di calare la passerella.

    Iniziate le operazioni di scarico delle casse ricolme di monete e degli affetti personali, il senatore cercò di assumere

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