La vera storia del genio che ha fondato McDonald's®
Di Ray Kroc
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Info su questo ebook
La vita incredibile di un “big man” che ha trasformato il suo sogno nel più grande affare del secolo
Pochi imprenditori possono affermare di aver davvero cambiato la società e il nostro modo di vivere. Ray Kroc, il fondatore della catena di fast food più famosa al mondo, McDonald’s®, è uno di loro. Le sue grandi intuizioni nell’ambito della ristorazione, del franchising, della pubblicità, gli hanno riservato un posto d’onore nell’olimpo degli uomini e delle donne che hanno creato, con le loro imprese, dei veri e propri imperi. In questa autobiografia Ray Kroc racconta i passi decisivi della sua vita, la formazione, le persone che gli sono state vicine, il suo costante impegno nel lavoro, i successi e le inevitabili difficoltà. Il libro non è un’apologia del classico self-made man americano, ma il racconto affascinante e onesto di un uomo capace di trasmettere un grande entusiasmo. Un numero uno, da cui imparare molto.
La vera storia del film evento The Founder
«Colombo ha scoperto l’America, Thomas Jefferson ne è stato uno dei padri fondatori, Ray Kroc ha messo il sigillo con il Big Mac®.»
Tom Robbins, Esquire magazine
Ray Kroc
nato in Illinois nel 1902 da una famiglia di immigrati cecoslovacchi, è stato un potente uomo d’affari americano, famoso per aver fondato McDonald’s® all’età di cinquantadue anni. Considerato come uno degli imprenditori di maggior successo del ventesimo secolo, Kroc ha contribuito alla crescita della sua azienda, divenuta presto una multinazionale, fino alla sua morte avvenuta in California nel 1984. È stato incluso dalla rivista «Time» nella lista dei cento uomini più influenti del Novecento.
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Anteprima del libro
La vera storia del genio che ha fondato McDonald's® - Ray Kroc
480
Titolo originale: Grinding It Out: The Making of McDonald’s
Copyright © 1977 by Ray A. Kroc.
Afterwordcopyright © 1987 by Robert Anderson
All rights reserved
McDonald’s, BigMac, Filet-o-fish, Quarter pounder, Egg McMuffin, Ronald McDonald, McDonald’s All-American Band e il simbolo degli archi dorati sono marchi registrati di proprietà della McDonald’s Corporation
Traduzione dall’inglese di Elena Paganelli
Prima edizione ebook: gennaio 2017
© 2017 Newton Compton editori s.r.l.
Roma, Casella postale 6214
ISBN 978-88-227-0353-8
Realizzazione a cura di The Bookmakers Studio editoriale, Roma
www.newtoncompton.com
Ray A. Kroc
con Robert Anderson
La vera storia del genio che ha fondato McDonald’s®
Newton Compton editori
Mia moglie, Joni, condivide con me la gioia di dedicare questo libro a tutti nostri amici della famiglia McDonald’s che hanno dato un grande contributo a quest’impresa.
Fruga nella spazzatura della concorrenza, rimprovera i suoi San Diego Padres dagli altoparlanti e incanta o indispone chiunque incontri. Ma persino i suoi nemici concordano sul fatto che ci siano tre cose che Ray Kroc fa maledettamente bene: vendere hamburger, fare soldi, e raccontare storie.
Prefazione
«Non ci sono più opportunità negli Stati Uniti!». «Il sistema fiscale ha distrutto ogni iniziativa!».
Quanto spesso abbiamo sentito queste lamentele negli ultimi trent’anni, anche se in effetti sono state costruite fortune enormi e si sono raggiunti gli standard di vita più elevati di sempre!
I professori delle grandi scuole di economia, che tengono corsi quali Imprenditorialità o Nuova Gestione d’Impresa, sanno che tale pessimismo è infondato. A riprova di questo fatto, esistono studi specifici basati su esempi reali di successo individuale e crescita aziendale.
Ogni tanto, infatti, spunta una personalità unica e vivace come quella di Ray A. Kroc, una versione in carne e ossa dei personaggi di Horatio Alger, che mostra in pratica quel che si predica in teoria e che sconfessa del tutto le suddette lamentele. La vera storia del genio che ha fondato McDonald’s, l’autobiografia di Ray Kroc, nonché la storia appunto di McDonald’s, confuta chiaramente chi crede che coloro che corrono dei rischi non siano ricompensati a dovere. Ci ricorda che le opportunità abbondano, che tutto quel che serve è il talento di cogliere le occasioni esistenti e di essere nel posto giusto al momento giusto. Un pizzico di fortuna non guasta, certo, ma l’elemento chiave, che troppi hanno scordato nella nostra società agiata, è ancora il duro lavoro – ossia mettercela tutta.
Ray Kroc è stato ospite da noi alla Amos Tuck School of Business Administration del Dartmouth College nel 1974 ed è tornato nel marzo del 1976, portando con sé diversi membri chiave del suo team aziendale, incluso Fred Turner, l’allora presidente e amministratore delegato di McDonald’s. (Proprio le circostanze di quella seconda visita hanno dato prova del tipo di energia e determinazione che hanno contrassegnato la sua carriera: quando una forte tempesta di neve ha causato la chiusura degli aeroporti delle vicinanze, Mr Kroc, imperturbabile, ha requisito un pullman di McDonald’s dal quartier generale di Boston per trasportare attraverso la bufera i manager che erano rimasti bloccati.)
Con la sua assoluta franchezza, Ray Kroc ha disarmato del tutto la platea di raffinati studenti dell’mba – il master in Business Administration. Durante entrambe le lezioni, ha intrattenuto il pubblico con la storia della sua vita e di McDonald’s, riferendo in pillole quel che è raccontato più nel dettaglio in questa autobiografia. Ha risposto abilmente a tutte le domande che gli venivano poste, mostrando, sia durante le lezioni che durante i dibattiti, le qualità che l’hanno reso una leggenda vivente degli affari: la tenace filosofia commerciale, l’adesione praticamente compulsiva alle fondamentali strategie operative per il raggiungimento del mercato delle famiglie, il risalto dato a qualità basilari come la cortesia, la pulizia e il servizio, l’incrollabile fiducia nei suoi dipendenti, in particolare in quelli che sono parte di McDonald’s dagli albori. Le sue parole trasudano ironia, entusiasmo competitivo, dedizione al duro lavoro, e ferma convinzione che negli Stati Uniti chiunque possa raggiungere o superare qualsiasi ragionevole obiettivo. Mr Kroc è uno dei rari individui che possiede sia il carisma da leader straordinario e da grande venditore, sia la passione per il dettaglio di un abile amministratore.
Non è necessario che Ray Kroc parli a lungo prima che ci si renda conto del peso del suo apprendistato trentennale come venditore e direttore vendite presso altre aziende prima, e presso la sua piccola azienda, dopo. Infatti, la grande occasione della sua vita non è arrivata prima del 1954, quando aveva già cinquantadue anni, un’età in cui altri manager stanno già cominciando a contemplare i verdi pascoli della pensione. Inoltre, nella sua autobiografia, Mr Kroc ricorda giustamente al lettore anche l’investimento sbalorditivo di tempo, energia e capitale richiesto per far raggiungere a McDonald’s il suo attuale ruolo di primo piano nel fast food e nel franchising.
Il 1976 è l’anno epico in cui per la prima volta le entrate della McDonald’s Corporation hanno superato il miliardo di dollari. Uno studente distratto di storia economica potrà anche non rendersi conto di cosa significhi il fatto che questo obiettivo è stato raggiunto a ventidue anni dalla fondazione dell’azienda. Giusto per dare un’idea, si dovrà ricordare al lettore che l’ibm, ampiamente conosciuta per essere un’azienda in crescita, non ha raggiunto un fatturato di un miliardo di dollari fino al 1957, ossia quarantasei anni dopo la sua nascita. E la Xerox, un’altra azienda in forte crescita, ci ha impiegato sessantatré anni prima di entrare nel 1969 nel club dei multimiliardari. Anche la Polaroid, sul mercato dal 1937, certamente ci ha messo molto più di vent’anni per raggiungere il tanto sospirato traguardo. Nonostante le oscillazioni del tasso di inflazione dal 1906, anno in cui è stata fondata la Xerox Corporation, queste statistiche sulle vendite o sul fatturato totale offrono un paragone utile per la storia aziendale di McDonald’s e per la sua crescita senza precedenti.
Nonostante la storia di McDonald’s sia affascinante già di per sé, è solo uno degli aspetti trattati in questo volume. In effetti, le pratiche di cui McDonald’s, sotto la guida di Ray Kroc, è stato pioniere e perfezionatore hanno rivoluzionato l’intera industria della ristorazione, hanno cambiato le abitudini alimentari del mondo e accresciuto le aspettative del cliente. Chi di noi oggigiorno tollera un servizio lento, pasti costosi, patatine fritte molli, o la mancanza di pulizia nei ristoranti?
Il libro di Mr Kroc non è solo un avvincente libro di memorie, ma più in generale è una gradita aggiunta alla letteratura a disposizione degli studenti di economia. La vera storia del genio che ha fondato McDonald’s avrà un valore unico per tutti coloro che vogliono mettersi in proprio, non importa se a vent’anni o a cinquanta.
Paul D. Paganucci
Preside associato e professore di Business Administration
Amos Tuck School of Business Administration
Dartmouth College
Hanover, New Hampshire
29 giugno 1976
Capitolo 1
Le vicende umane sono alla mercé di una marea, che, se colta nel suo flusso, mena a lidi sicuri; mancata, tutto il viaggio dell’uomo è costretto tra secche e sventure.
Shakespeare, Giulio Cesare
Ho sempre creduto che ogni uomo sia artefice della propria fortuna e responsabile dei suoi problemi. È una filosofia semplice e penso che mi sia stata tramandata, insieme alla corporatura da contadino, dai miei antenati boemi. Mi piace perché è molto valida e funziona tanto ora che sono un multimiliardario quanto funzionava un tempo, quando vendevo bicchieri di carta per trentacinque dollari la settimana e suonavo il piano part-time per mantenere mia moglie e mia figlia, all’inizio degli anni Venti. Ne consegue, ovviamente, che un uomo deve approfittare di ogni opportunità che gli capita, cosa che in effetti ho sempre fatto. Dopo diciassette anni passati a vendere bicchieri di carta per la Lily Tulip Cup Company e dopo aver scalato il settore vendite dell’azienda, ho visto un’occasione apparire sotto forma di un brutto frullatore a sei fruste per frappè chiamato Multimixer, e l’ho afferrata. Non è stato facile lasciare la sicurezza economica e un lavoro ben retribuito per mettermi in proprio. Mia moglie era scioccata e incredula. Ma il mio successo non ci ha messo molto a placare le sue ansie, e mi sono lanciato con gioia nella mia campagna: vendere un Multimixer a ogni bar, distributore di bibite o latteria della nazione. È stato uno sforzo remunerativo. E l’ho adorato. Eppure, ero all’erta in caso arrivassero altre opportunità. Conosco un detto che dice: «Finché sei giovane e verde, cresci; non appena sei maturo, inizi a marcire». E io ero verde come lo Shamrock Shake, il frappè che servivo a San Patrizio, quando sentii di una cosa incredibile che stava succedendo in California con il mio Multimixer.
Le vibrazioni mi giunsero sotto forma di chiamate da parte di potenziali clienti volontari di diverse parti del Paese. Un giorno mi chiamava il proprietario di un ristorante a Portland, in Oregon, un altro il gestore di un negozio di generi alimentari a Yuma, in Arizona, un altro ancora, il direttore di una latteria a Washington, dc. In sostanza, il messaggio era sempre lo stesso: «Voglio uno dei tuoi mixer, uno di quelli che hanno i fratelli McDonald a San Bernardino, in California». Ero sempre più curioso. Chi erano questi fratelli McDonald e perché i clienti notavano proprio il loro Multimixer, quando ne avevo altri simili in diversi posti? (A quel tempo, la macchina di fruste ne aveva cinque, anziché sei.) Perciò feci qualche controllo e rimasi stupito nel sapere che i McDonald non avevano un Multimixer solo, e nemmeno due o tre, bensì otto! L’immagine di otto Multimixer che sputavano fuori quaranta frappè alla volta era davvero troppo incredibile. Questi frullatori venivano venduti a 150 dollari al pezzo, badate bene, ed era il 1954. Il fatto che ciò stesse succedendo a San Bernardino, che a quel tempo era una cittadina tranquilla, praticamente nel bel mezzo del deserto, rendeva il tutto ancora più straordinario.
Un giorno, presi un volo per Los Angeles e feci qualche incontro di routine con i miei rappresentanti della zona. Poi, di buon mattino, il giorno seguente percorsi il centinaio di chilometri che mi separava da San Bernardino. Passai davanti al negozio dei McDonald alle dieci circa, e non rimasi poi molto colpito. Era un edificio ottagonale piuttosto piccolo, una struttura molto modesta di sessanta metri quadri circa, situata in una posizione d’angolo: il classico drive-in. Aspettando che si facessero le undici, l’orario d’apertura, parcheggiai e osservai l’arrivo dei dipendenti – erano tutti uomini, con indosso camicie bianche eleganti, pantaloni, e cappelli di carta bianchi. Mi piacquero. Iniziarono a togliere gli alimenti da un capanno lungo e basso sul retro della proprietà. Spingevano dei carrelli pieni di sacchi di patate, confezioni di carne, casse di latte e bevande, e scatole di panini dentro l’edificio ottagonale. Qui sta decisamente succedendo qualcosa, mi dissi. Il loro ritmo di lavoro aumentò finché non mi parvero affaccendarsi come formiche a un picnic. E poi cominciarono a arrivare le auto, e iniziarono a formarsi le code. Il parcheggio non ci mise molto a riempirsi e le persone a marciare fino alle finestre e a fare ritorno alle loro auto con borse piene di hamburger. La presenza di otto Multimixer in azione alla volta mi parve molto meno inverosimile alla luce della costante processione di clienti a ranghi serrati. Alquanto affascinato ma ancora in un certo senso dubbioso, uscii dalla macchina e mi misi in fila.
«Mi dica, qual è l’attrattiva di questo posto?», chiesi a un uomo bruno con un completo a righe, proprio davanti a me.
«Non ha mai mangiato qui prima?», mi domandò lui.
«No».
«Be’, allora vedrà», mi promise. «Mangerà i migliori hamburger di sempre per soli quindici centesimi. E non dovrà aspettare e incasinarsi con la mancia alla cameriera».
Lasciai la fila e feci un giro dell’edificio, dove diversi uomini erano accovacciati all’ombra come ricevitori di baseball, con le schiene contro il muro, intenti a sbranare i loro hamburger. Uno era un muratore: doveva essere arrivato da un cantiere vicino. Mi guardò con uno sguardo limpido, amichevole, perciò gli chiesi quanto spesso andava lì a pranzo.
«Ogni santo giorno», mi disse, senza smettere di masticare. «Di certo questa roba è meglio dei sandwich di polpettone freddo della mia signora».
Faceva caldo, ma notai che lì intorno non c’erano mosche. Gli uomini vestiti di bianco tenevano tutto lindo e pulito mentre lavoravano. Mi colpì davvero un sacco, perché non ho mai tollerato la mancanza di igiene, soprattutto nei ristoranti. Osservai che persino nel parcheggio non c’erano rifiuti.
Su una decappottabile giallo canarino c’era seduta una bionda che sembrava essersi persa sulla strada per un ristorante di classe. Stava demolendo un hamburger e una porzione di patatine con timida e affascinante precisione. Spinto dalla curiosità, la avvicinai e le dissi che stavo facendo un sondaggio sull’affluenza.
«Se non le dispiace dirmelo, quanto spesso viene qui?», le chiesi.
«Ogni volta che sono nelle vicinanze», mi sorrise. «Ossia più spesso che posso, perché il mio fidanzato vive da queste parti».
Non seppi dire, e nemmeno mi importava, se mi stesse prendendo in giro, se fosse solo ingenua, o se stesse semplicemente menzionando il fidanzato come manovra per scoraggiare il tizio curioso di mezza età, che poteva anche avere intenzione di provarci. Quel che mi fece martellare il cuore per l’eccitazione non fu il suo sex appeal, ma l’evidente piacere con cui divorava il suo pasto. Percepivo il suo appetito dalla moltitudine di persone nelle auto del parcheggio, e mi sentii eccitato come un battitore durante un no-hitter. Quella era la più incredibile operazione di mercato che avessi mai visto!
Non ricordo se mangiai un hamburger per pranzo quel giorno. Tornai alla mia macchina e aspettai fino alle due e mezzo del pomeriggio circa, quando la folla si ridusse a qualche cliente sporadico. Poi andai nell’edificio e mi presentai a Mac e Dick McDonald. Erano davvero contenti di vedermi (mi chiamavano Mr Multimixer
), e mi trovai subito a mio agio con loro. Ci accordammo per vederci per cena quella sera; così avrebbero potuto raccontarmi tutto della loro impresa.
Rimasi affascinato dalla semplicità e dall’efficacia del sistema che mi descrissero. Ogni step della produzione del loro ridotto menu era essenziale e ottenuto con il minimo sforzo. Per quindici centesimi, vendevano hamburger e cheeseburger fatti con cinquanta grammi di carne, tutti cotti alla stessa maniera. Per cinque centesimi in più, si poteva aggiungere una fetta di formaggio. Le bevande venivano dieci centesimi, i frappè da mezzo litro venti centesimi, e il caffè un nichelino.
Dopo cena, i fratelli McDonald mi portarono dal loro architetto, che stava giusto per ultimare i progetti di un nuovo drive-in. Era semplice: un edificio bianco e rosso con qualche tocco di giallo e delle enormi e raffinate finestre. Aveva un’area di servizio migliore rispetto a quella della struttura ottagonale dei McDonald e dei bagni sul retro. Nell’edificio esistente, i clienti dovevano fare tutta la strada fino al capanno lungo e basso che faceva da magazzino, ufficio e bagno. Quel che però rendeva la nuova costruzione unica era una serie di archi alti fino al soffitto. C’era anche un cartello ad arco, illuminato dall’interno da tubi al neon. Di problemi, ne aveva un sacco: gli archi del cartello sembravano così fragili che sarebbero crollati in caso di forte vento, e quelle luci al neon avrebbero avuto bisogno di manutenzione costante per evitare che bruciassero e sembrassero pacchiane. Ma mi piacevano l’idea semplice degli archi e anche la maggior parte delle altre caratteristiche del progetto.
Quella notte, nella mia stanza di motel, pensai molto a quel che avevo visto. Mi sfilarono nel cervello visioni di ristoranti McDonald a tutti gli incroci del Paese. In ognuno di essi, c’erano otto Multimixer in funzione che portavano un flusso costante di denaro nelle mie tasche.
Il mattino successivo, mi svegliai con un piano d’azione in testa. Ero sul posto quando le serrande dei McDonald si alzarono. Quella che seguì fu più o meno una replica degli avvenimenti del giorno precedente, ma vi assistetti con uguale fascinazione. Osservai alcune cose molto più da vicino, e con maggiore consapevolezza, grazie alla mia chiacchierata con i fratelli McDonald. Notai come l’uomo alla piastra svolgeva il suo lavoro, come sbatteva i pezzi di carne quando li girava, e come teneva pulita la superficie sfrigolante della piastra. Ma prestai particolare attenzione anche al reparto patatine fritte. I fratelli mi avevano spiegato che quello era uno degli elementi chiave del loro successo, e me ne avevano descritto il processo. Tuttavia dovevo vederne di persona il funzionamento, doveva esserci un ingrediente segreto che le rendeva così buone.
Ora, per la maggior parte delle persone, una patata fritta è un oggetto che non offre ispirazione. È cibo non fondamentale, qualcosa per ammazzare il tempo tra un morso di hamburger e un sorso di frappè. Ma questo vale per le patatine comuni. Quelle dei McDonald erano di tutt’altro livello: catturavano l’attenzione. Allora non lo sapevo, ma un giorno ci sarei arrivato anche io. Le patatine fritte sarebbero diventate quasi sacrosante per me, la loro preparazione un rituale da seguire religiosamente. I fratelli McDonald tenevano le loro patate – tuberi di alta qualità dell’Idaho, da duecento grammi l’uno – in bidoni sul retro del loro magazzino. Dal momento che ai ratti, ai topi e ad altri animali del genere le patate piacciono, le pareti dei bidoni erano rivestite da un doppio strato di rete metallica a maglia stretta. Ciò permetteva di tenere lontano i roditori e di far circolare l’aria tra le patate. Osservai i tuberi che venivano infilati nei sacchi e trasportati con il carrello al drive-in, dove venivano pelati con cura, pur mantenendo un pochino di buccia, tagliati per lungo e gettati in enormi bacinelle di acqua fredda. L’uomo delle patatine fritte, con le maniche della camicia arrotolate fin sopra i gomiti, infilava le braccia nella massa di patate galleggianti e le smuoveva con delicatezza. Riuscivo a vedere l’acqua diventare bianca per l’amido, che poi veniva filtrato. Infine, le patate finivano in cestini di metallo e sistemate in stile catena di montaggio accanto alle friggitrici. Un problema comune con le patatine è che sono fritte nello stesso olio usato per il pollo o per altri cibi. Qualsiasi ristorante lo negherà, ma lo fanno quasi tutti. Un piccolo scandalo, forse, ma comunque uno scandalo, nonché uno dei piccoli crimini che hanno rovinato la nomea delle patatine fritte e l’appetito di innumerevoli americani. I McDonald, invece, non adulteravano l’olio per le patatine. Certo, non è che fossero tentati di farlo: non ci cucinavano nient’altro in quell’olio. Ottanta grammi di patatine si vendevano a dieci centesimi al sacchetto, e lasciate che ve lo dica, era un affare raro. E anche i clienti lo sapevano e ne acquistavano in quantità industriali. Una enorme saliera di alluminio era attaccato a una lunga catena accanto alla finestra delle patatine fritte, e veniva tenuta come fosse un pezzo d’antiquariato.
Trovai davvero interessante l’approccio dei McDonald alle patatine e, fui felice di osservarlo, era davvero così semplice come mi avevano raccontato. Ero convinto di aver compreso alla lettera il procedimento, e che chiunque avrebbe potuto riprodurlo seguendo alla perfezione i singoli passaggi. Quello fu solo uno dei tanti errori che avrei commesso facendo affari coi fratelli McDonald.
Una volta conclusasi l’ora di punta del pranzo, mi vidi ancora con Mac e Dick McDonald. Il mio entusiasmo per il loro lavoro era genuino, e sperai che fosse contagioso e che li convincesse ad acconsentire al piano che mi si era formato nella mente.
«Sono stato nelle cucine di parecchi ristoranti e drive-in del Paese per vendere i Multimixer», dissi loro, «e non ho mai visto niente con il potenziale di questo posto. Perché non ne aprite altri simili? Sarebbero una miniera d’oro per voi e anche per me, perché aumenterebbero le mie vendite di Multimixer. Che ne dite?».
Silenzio.
Mi sentii come se avessi fatto un passo falso o qualcosa del genere. I due fratelli rimasero lì seduti a fissarmi. Poi Mac fece quella piccola smorfia che qualche volta nel New England viene scambiata per un sorriso e si voltò sulla sedia per indicarmi la collina con vista sul ristorante.
«La vede quella grande casa bianca con l’ampio porticato?», mi chiese. «Quella è casa nostra, e la adoriamo. Ci sediamo sul porticato di sera, guardiamo il tramonto e il nostro locale. Siamo tranquilli. Non vogliamo crearci altri problemi. Ora possiamo goderci la vita, ed è quello che abbiamo intenzione di fare».
Il suo approccio era del tutto estraneo al mio