Il mio segreto più dolce
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Una storia romantica e passionale che scalda il cuore
Joey e Tom si conoscono fin da bambini. Si perdono di vista quando Joey e la sua famiglia partono per la Svizzera e si ritrovano anni dopo: Joey è un’adolescente, mentre Tom è quasi un uomo. Joey se ne innamora perdutamente. Il destino però li allontana poco dopo, quando Eric, migliore amico di Tom e fratello di Joey, se ne va via di casa. Ma anche quando si incontrano di nuovo, le cose non sono facili. Perché Tom non ama le relazioni né crede nell’amore. Eppure gli occhi di Joey lo fanno vacillare…
«Dopo aver letto questo secondo libro posso dire che Adelia Marino è una delle mie scrittrici preferite! Le sue storie sono poesie, cariche di amore, passione, dolore e sentimenti forti e contrastanti che riescono a trasportarti e allo stesso tempo cullarti. Dire che ho adorato questo libro è poco!»
«Uno di quei libri romantici che tutte vorremmo leggere ogni giorno. Una grande storia d’amore con personaggi ben descritti. Adoro questa autrice.»
Adelia Marino
è italo-canadese e vive in Germania. Ama leggere, aggiornare il suo blog e scrivere. Adora parlare con chi condivide la sua stessa passione ed è una divoratrice di serie TV. Deve alla nonna il suo amore per i libri. La Newton Compton ha pubblicato Ogni giorno per sempre e Il mio segreto più dolce.
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Anteprima del libro
Il mio segreto più dolce - Adelia Marino
1
Potreste smetterla? Non riesco a leggere se voi due continuate ad amoreggiare qui di fianco a me!». Haley alzò i suoi grandi occhi blu su di me, mentre Landon, sdraiato su di lei, soffocò una risata.
«Scusa Joey», mi disse, «ma cosa posso farci se la mia ragazza è così incredibilmente attraente?». Si chinò appena per stamparle un bacio sulle labbra. Io alzai gli occhi al cielo, chiusi il libro e mi alzai sbuffando.
«E dai, J.», mi supplicò Haley.
«Trovo un altro posto», dissi prendendo la borsa da terra. «Voi mi date la nausea». Forse lo dissi con un tono un po’ duro perché la mia migliore amica mi guardò accigliata e questa volta anche gli incredibili occhi verdi di Landon si posarono su di me con un’espressione interrogativa.
«Ci vediamo dopo», dissi voltandomi. Stravedevo per loro. Lei era l’unica migliore amica che avessi mai avuto, il che era tutto dire visto che io avevo passato gran parte dei miei vent’anni in California, mentre Haley c’era da appena un anno. Eravamo in uno dei parchi di Santa Monica. L’erba era tagliata perfettamente, c’erano grandi querce, panchine, altalene, scivoli, giostre. I bambini correvano e urlavano, i loro genitori apprensivi li inseguivano e io scossi la testa divertita. Scelsi la quercia vicino all’altalena, mi misi a sedere lì, pronta per tornare al mio libro senza che nessuno mi disturbasse, quando notai una bambina dai capelli dorati avvicinarsi all’altalena. Avrà avuto due anni ed era troppo piccola per riuscire a salirci da sola e infatti un uomo sui quarant’anni, brizzolato, con qualche ruga sotto gli occhi stanchi le si avvicinò con un sorriso carico d’amore, la mise a sedere e iniziò a spingerla dolcemente. Sentivo la bambina ridere a crepapelle mentre si reggeva forte alle catene. Solo in quel momento mi resi conto che stringevo il libro fra le mani, e gli occhi iniziarono a pizzicarmi. Feci un respiro profondo per calmarmi, spostai lo sguardo sull’erba. Il mio comportamento era ridicolo. Era inutile prendersela tanto, non si poteva tornare indietro nel tempo e mio padre era sempre troppo impegnato con il lavoro per potermi portare al parco. Lavorava per garantirmi un futuro roseo. Questa era la frase che mi ripeteva ogni volta che da bambina gli chiedevo di fare qualcosa con me.
«Un penny per i tuoi pensieri», disse una voce fin troppo vicina. Girai la faccia verso quella voce che conoscevo bene, e mi resi conto che a una simile distanza non c’era neanche bisogno di sporgermi per baciarlo. Mi ritrovai a guardare le sue labbra perfette e invitanti e avvampai al pensiero, alzai lo sguardo e vidi che mi osservava con un sopracciglio alzato.
«Sei tornata sulla terra?», mi chiese arretrando un po’. «Sei tutta rossa, a che stavi pensando?».
Alzai gli occhi al cielo, sbuffai prima di rispondere. «Non a te», mentii e lui sorrise facendo brillare i denti perfetti che si ritrovava. Era bello, ma per davvero. Zigomi alti, naso sottile e delicato, labbra sottili ornate da un cerchietto. Portava la barba, non folta, quel tanto da sembrare appena sveglio e disordinato. I capelli scuri erano un po’ più lunghi della barba ed erano cresciuti tanto nell’ultimo periodo, non li portava rasati come sempre. Non che tutto questo avesse importanza, visto che li nascondeva sempre sotto al berretto. La cosa che di lui più m’imbarazzava erano gli occhi. Non li aveva blu come quelli di Hales, che sembravano confondersi con l’oceano; i suoi erano azzurri, tanto che a volte parevano cristallini mentre altre del colore del cielo in tempesta, e le folte ciglia scure non facevano altro che metterli in risalto.
«Cosa leggi?», chiese riportandomi alla realtà.
«Un libro», risposi ridendo e lui mi diede una lieve spinta. La pelle sembrava prendere fuoco e sapevo che non mi sarei mai abituata a quel tocco, né a ciò che suscitava in me. Mi spinse con la mano destra indugiando per quella che mi sembrò un’eternità. Su quattro dita figurava il diminutivo del nome della sorellina, Emy, scritto a caratteri gotici, mentre sul quinto aveva una piccola stella. Emily aveva perso la vita troppo presto, ad appena sei anni, la notte di Halloween, a causa di un pirata della strada che girava ancora a piede libero e che noi conoscevamo. Le braccia erano coperte da tatuaggi, fatte dal suo migliore amico Landon. Erano l’uno il tatuatore dell’altro nel loro negozio aperto da un anno, il Tattoo, e sapevo che sotto la maglietta a mezze maniche blu notte si nascondeva altro inchiostro.
«Allora?». Sbuffò, intuendo che mi ero distratta, e mi rubò il libro dalle mani. Si sedette vicino a me e le nostre ginocchia si toccarono. Iniziò a sfogliare il libro aggrottando la fronte, e gli sorrisi.
«Non sarà mica un’altra storia d’amore strappalacrime?», chiese cercando di sembrare serio e io feci di sì con la testa. «Dovresti smetterla di leggere questi romanzi rosa». Scrollai le spalle.
«Parla di una ragazza che ha perso i genitori e che viene affidata a degli zii detestabili, però lei ha una splendida migliore amica e presto s’innamora; tutte le cose orribili che è costretta a sopportare, quindi, sono meno difficili da affrontare e il peso che porta dentro sembra farsi più leggero. Ci sono un po’ di drammi, ma alla fine tutto va per il verso giusto». Mi ripresi il libro attenta a non sfiorargli le mani. «Immagino sia così», dissi mentre lui mi guardava accigliato. «Nell’amore, intendo». Continuò a guardarmi come se stessi parlando un’altra lingua. «Il peso, io credo che nell’amore diventi più facile. Non devi portare il carico pesante da sola, in due è più semplice». Nascose gli occhi sotto la visiera del suo berretto da baseball blu e bianco.
«A volte però l’amore può diventare il peso più grande».
Ora ero io a guardarlo come se mi parlasse in aramaico. «Non credi nell’amore?», gli chiesi e lui scrollò le spalle.
«Credo nell’amore fra i miei genitori e in quello fra Lan e Hales, ma io non so se sono il tipo da innamorarsi. Non sarei bravo ad affrontare i drammi». Alzò lo sguardo su di me e per un attimo i nostri occhi s’incrociarono. Il suo sembrava uno sguardo triste, mi venne voglia di sfiorargli la mano, di chiedergli cosa lo turbasse tanto. «Credo», disse distogliendo lo sguardo dal mio e prima che potessi chiedergli qualcosa il mio cellulare iniziò a squillare sotto le note della colonna sonora dell’Esorcista. Tom scoppiò in una fragorosa risata mentre io mi affrettavo a rispondere.
«Hai visto che ore sono?», chiese una voce infuriata. Diedi un’occhiata all’orologio tempestato di Swarovski che avevo al polso. Erano quasi le cinque.
«Scusa mamma, ho perso la cognizione del tempo, arrivo subito». Silenzio. «Be’, muoviti», disse alla fine. Chiuse la telefonata e io guardai il mio amico.
«Ci sei anche tu alla stupida asta di questa sera?», gli chiesi. Lui era impegnato a trafficare con il telefono.
«Sì», rispose sbuffando. «Mamma mi ha incastrato, chissà perché Landon invece è riuscito a cavarsela», disse alzandosi. Mi alzai anch’io, ma forse troppo velocemente perché una volta in piedi il mondo intorno a me iniziò a girare e le gambe divennero molli. Sentii una presa forte alla vita e sbattei contro un muro di muscoli tesi. «J., stai bene?». Ero più bassa di lui quindi dovetti alzare lo sguardo per incontrare il suo, carico di preoccupazione.
«Solo un capogiro», risposi sforzandomi di sorridere. Lui continuò a guardarmi preoccupato e a stringermi come se temesse che lasciandomi andare sarei finita in mille pezzi. Forse aveva ragione, ma cercai di farmi forza e mi allontanai sentendo il mio corpo andare in fiamme. Lo stomaco iniziò a brontolare e lui alzò un sopracciglio.
«Non hai mangiato oggi?».
Gli risposi evitando di guardarlo in faccia: «Certo, a stasera». Mi allontanai senza aspettare la sua risposta, corsi alla mia Mercedes e tornai a casa dei miei. Ripensai alla domanda di Tom. Avevo mangiato, certo, a colazione, solo una mela. Era così da qualche mese ormai. Non ero grassa e di questo ne ero sicura, anche perché Haley non faceva che ripeterlo, dicendo di invidiare le curve che lei non aveva, nonostante fosse bellissima con quella cascata di capelli mogano, gli occhi meravigliosi, un fisico che mia madre avrebbe elogiato e i muscoli da ballerina, mentre per mia madre la quarantadue era intollerabile. Secondo lei ogni abito attillato non mi cadeva bene, mi faceva il sedere grosso e i fianchi larghi. Era una vergogna visto che le figlie delle sue amiche avevano la taglia trentotto. Mio padre purtroppo non diceva mai niente perché tanto non gli importava, e quando diceva qualcosa dava sempre ragione a lei, così mi ero prefissata di perdere peso, a modo mio. Non volevo darle la soddisfazione di portarmi da un dietologo. Mi limitavo a mangiare una mela a colazione e un’altra a pranzo, evitando di andare alla mensa del college con la mia migliore amica – ero felice, però, del fatto che finalmente eravamo in pausa estiva, quindi non ero più costretta a mentirle – mentre a cena mangiavo un’insalata e un po’ di carne e la mattina presto andavo a fare jogging. I risultati si vedevano già: ero scesa a una taglia quaranta, quelle che solitamente venivano chiamate maniglie dell’amore erano sparite, il ventre era piatto, anche perché non c’era niente nella pancia, e mia madre, che aveva notato la differenza, ne era felice, anche se per me una taglia in meno non era una cosa così eclatante.
«C’è da lavorare ancora un po’, ma ti sta bene», disse mia madre studiando il modo in cui il tubino nero mi fasciava i fianchi e il sedere, scendendo fino a metà coscia. «Sei contenta di non avere più quel fondoschiena enorme?», chiese girandomi intorno, e io alzai gli occhi al cielo.
«Sono scesa solo di una taglia mamma».
Mi zittì con una mano. «Ma lo hai anche rassodato andando a correre e questo conta molto». Guardai il mio riflesso allo specchio. I capelli formavano delle piccole onde che mi ricadevano sulle spalle, dorati come quelli della bambina al parco. Di solito cambiavo colore, oppure coloravo qualche ciocca, ma anche in quel caso ero stanca di sentire mia madre lamentarsi, così ero tornata al mio colore naturale facendomi schiarire un po’ le punte. Sapeva essere davvero convincente con quel suo sguardo carico di disgusto e io non ero brava come mio fratello a sopportarlo, ma lui se n’era andato quindi ero sola contro un muro e non valeva la pena lottare, finivo solo col farmi male. Avevo gli occhi grandi come quelli di Haley, ma i miei erano di un marrone scuro. L’eyeliner ne delineava i contorni e il nero li faceva sembrare più piccoli. Sul naso avevo un brillantino, opera di una mia cara amica, Terry, la body piercer del negozio di Tom e Lan. La mia piccola bocca a cuore era colorata di un rosso opaco. Era vero che il vestito mi cadeva meglio, ma mi resi conto con dispiacere che la quarta di reggiseno era un po’ calata. Con le décolleté rosse avevo guadagnato qualche centimetro. Mia madre apparve alle mie spalle con una collana di rubini in mano e me la mise. Guardai il suo riflesso vicino al mio. Era alta e magrissima, i capelli biondi erano legati in uno chignon elegante. Sembrava stanca dietro gli occhiali quadrati e piccoli che le conferivano un’aria ancora più severa. La collana di perle che papà le aveva regalato per il suo compleanno le metteva in risalto il collo lungo e stretto. Aveva un fisico asciutto, tipico di una ballerina di danza classica, e lei lo era stata fino al matrimonio; poi si limitò a insegnare e a diventare direttrice di diverse scuole di danza. La danza classica le aveva donato anche un’eleganza estrema, e ovviamente non mancava mai di farmi notare che non avevo ereditato nemmeno quella. Presi la pochette rossa e scendemmo di sotto, dove mio padre ci stava aspettando in fondo alle scale. La casa dei miei era qualche villa dopo quella di Haley e io andavo spesso da lei, ma non era mai successo il contrario, non perché mi vergognassi della mia amica o cose del genere, semplicemente tenevo la mia vita lontano da quel posto. A differenza di casa sua che era in perfetto stile moderno, la loro rispecchiava perfettamente lo stile antico e vittoriano. I grossi e massicci mobili antichi erano dappertutto, le tende di velluto rosso coprivano le finestre e non lasciavano entrare la luce, i tappeti erano immacolati ed enormi, anche se raccoglievano polvere facendomi starnutire. Papà veniva considerato un omone. Era alto due metri e tozzo – secondo mia madre avevo preso da lui la tendenza a ingrassare –, portava i baffi e i capelli brizzolati tirati indietro. Indossava uno smoking nero ed elegante. Alzò lo sguardo su di noi e i suoi occhi grigi vagarono da mia madre a me per poi posarsi di nuovo sul suo telefono.
«Pronte?», domandò. La cameriera ci porse i soprabiti e aprì la porta. «Certo caro», rispose mia madre e ci dirigemmo verso la limousine che ci stava aspettando fuori. Arrivammo al grosso hotel a cinque stelle che ospitava l’asta. I miei andarono dritti nella sala conferenze, mentre io andai al bar dove il barman era impegnato ad asciugare con cura dei calici. Era un signore con i capelli bianchi, le rughe intorno agli occhi, una divisa elegante e un po’ di pancetta. Alzò lo sguardo su di me.
«Champagne?», domandò.
Alzai le spalle. «Va bene». Mi passò un calice con dentro del liquido chiaro, lo presi e mi diressi verso il terrazzo sperando di non incontrare nessuno. Ovviamente sbagliavo.
«Oh mio Dio, Joey Harper», mi voltai verso la voce squillante alle mie spalle. Ashley Morgan e Maddison Algerini mi guardavano con dei finti sorrisi sulle facce. La prima era mora, la seconda rossa, una liscia, l’altra riccia, Ashley con gli occhi scuri, Maddison chiari; entrambe con un fisico da urlo nei loro vestiti succinti, entrambe insopportabili.
«Hai perso peso», mi fece notare Ashley.
«Stai molto meglio così», le fece eco l’altra.
Alzai gli occhi al cielo. «Anche voi state bene». Si guardarono sorridendo.
«Grazie cara», continuò la mora. «Io e Mad sfileremo la settimana prossima, sai? Durante la serata di beneficenza che sta organizzando tua madre». Schiusi appena la bocca per la sorpresa e loro si guardarono compiaciute.
«Oh, non lo sapevi?», mi chiese con finta preoccupazione Maddison. Un’altra cosa che riguardava entrambe: erano finte dentro e fuori.
«Certo», dissi cercando di sembrare il più convincente possibile.
«Be’ magari sfilerai anche tu la prossima volta, abbiamo saputo che sei una quaranta adesso, ancora un po’ d’impegno», continuò squadrandomi.
«Sfilare non fa per me, non voglio certo togliervi il divertimento», sbottai e le sorpassai dirigendomi verso l’atrio dell’hotel. Non le sopportavo, pensavo di essermele levate di torno dopo il liceo, ma sbagliavo. Nel circolo dei ricchi giravano sempre le stesse persone. Le nostre mamme erano amiche da sempre e anche loro due, ma io pure in quel caso ero il brutto anatroccolo della situazione. Avevamo studiato tutte e tre nella più prestigiosa scuola privata della zona e mi avevano dato il tormento per tutto il tempo, visto che loro erano le meravigliose cheerleader mentre io ero quella che occupava la panchina, lontana da tutti, munita di cuffie e libro. C’era stato un periodo in cui avevo cercato di essere loro amica, però non facevano altro che ricordarmi le frivolezze da cui ero circondata, quindi avevo preferito starmene in disparte, trasparente e in attesa di andare al college per non averle più tra i piedi. Be’, al college le intravedevo di tanto in tanto, andava bene così. Il problema era che a queste stupide feste non mancavano mai. Arrivata nell’atrio notai che si era popolato di ragazzi e ragazze, tutti figli e nipoti dei ricchi impegnati nell’asta. Alcuni mi salutarono e io ricambiai il saluto con un cenno della mano mentre mi dirigevo a grandi passi verso la toilette. Poi qualcuno mi afferrò per un polso e lo riconobbi subito, perché la pelle sembrò prendere fuoco all’istante. Tom era davanti a me: camicia bianca con le maniche arrotolate fino ai gomiti, cravatta sottile, nera, jeans scuri, Vans ai piedi e l’immancabile berretto nero e bianco con qualche borchia. In pratica, in mezzo a tutto quel lusso e a quell’eleganza spiccava lui. Mi venne da sorridere, ma arrossii pensando a quanto stava bene vestito in quel modo, a come la camicia gli cadeva perfetta sul busto e le maniche si adattavano alle braccia muscolose.
«Non mi sentivi quando ti chiamavo?», domandò. Notai la sua mano ancora stretta intorno al mio polso e lui mi lasciò andare.
«No», dissi. «Scusa, non ti ho sentito». Mi guardò accigliato.
«Stai bene?», chiese e io scrollai le spalle.
«Oggi non fai che chiedermelo», risposi. Lo osservai che spostava lo sguardo verso la porta alle mie spalle.
«È solo che sembri stanca e distratta, non è da te». In quel momento si aprirono le porte della sala conferenze e parte dell’alta società di Santa Monica uscì ridendo soddisfatta. Qualcuno disse che era il momento di sedersi per il ricevimento.
«Andiamo», gli dissi e lo trascinai nel ristorante dell’hotel. Non mangiai quasi nulla a parte l’insalata e il salmone. Mia madre annuì compiaciuta dall’altro lato del tavolo. Non dovetti sforzarmi molto a parlare visto che erano tutti degli adulti impegnati a discutere dei loro affari.
«Dove vai al college, cara?», mi domandò a un certo punto una signora anziana vicino a me. Era la direttrice di una nota scuola di danza di la.
«Al Santa Monica College, signora Thompson», risposi accennando un sorriso.
«Pensavo andassi a Yale come tuo padre, oppure alla Juliard come tua madre», rispose. Stavo per dirle che io avevo deciso di rimanere in zona quando mia madre parlò.
«Si trasferirà a Yale a settembre». Io che ero intenta a bere dell’acqua quasi mi strozzai e mia madre mi guardò con aria severa.
«Cosa?», domandai portandomi una mano al petto.
«Tesoro, ne abbiamo già parlato. Questi giovani dimenticano tutto, non è vero signora Thompson?». Non sentii la risposta, ma ero certa del fatto che non avevamo mai parlato del mio trasferimento. Era il suo modo per farmi capire che quello non era né il posto né il momento per affrontare il discorso. Chiesi scusa e mi alzai dal tavolo. Andai dritta in bagno, chiusi a chiave la porta e scoppiai a piangere. Cosa diavolo significava che a settembre mi sarei trasferita? Avevamo avuto quella discussione un anno e mezzo prima quando mi ero rifiutata categoricamente di lasciare la mia città e in quel momento, proprio quando stavo per affrontare l’inizio del nuovo anno, volevano mandarmi via? Perché? Avevo il massimo dei voti e amavo la facoltà di Letteratura, quindi qual era il problema? Volevo laurearmi il prima possibile per andarmene di casa e non essere più legata a loro, ma non volevo lasciare la città e nemmeno i miei amici che inconsapevolmente mi