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E-book358 pagine4 ore

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Blood Type Series

Reyna Carpenter non ha avuto scelta. Per sopravvivere in un mondo oscuro, in cui soldi e potere sono in mano a una ristretta élite, ha deciso di vendere il suo corpo. E così è diventata un'escort, destinata a soddisfare la sete di sangue del magnetico e pericolosissimo Beckham Anderson. Beckham è un vampiro. Ancora più bello, ricco e potente di come Reyna si era immaginata. Ma c'è una cosa destinata a sconvolgere tutte le sue certezze: Beckham non ha intenzione di bere il suo sangue. In un mondo lacerato da una spietata guerra per la sopravvivenza, Reyna imparerà che ognuno è costretto a indossare una maschera. E che dietro quella di Beckham si nasconde un segreto inconfessabile...

K.A. Linde
Cresciuta in una base militare, ha vissuto in varie località degli Stati Uniti e dell’Australia. Mentre studiava scienze politiche e filosofia all’Università della Georgia, ha fondato anche il Georgia Dance Team, compagnia di danza che dirige ancora oggi. È l’autrice della saga di grande successo Avoiding Series, di cui la Newton Compton ha già pubblicato Senza compromessi, Sette giorni di te, e, in e-book, Ora o mai più, Ti vorrei ma non posso, Non dirlo a nessuno, Il mio ricordo più bello, Una notte senza te, Sei tutto ciò di cui ho bisogno, Sei l'amore che vorrei e Non ho scelto di amarti. Attualmente vive ad Athens, in Georgia, con il fidanzato e due cani.
LinguaItaliano
Data di uscita6 dic 2019
ISBN9788822740458
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Autore

K.A. Linde

K.A. Linde, a USA Today bestselling author, has written the Avoiding series and the Record series as well as the new adult novels Following Me and Take Me for Granted. She grew up as a military brat traveling the United States and Australia. While studying political science and philosophy at the University of Georgia, she founded the Georgia Dance Team, which she still coaches. Post-graduation, she served as the campus campaign director for the 2012 presidential campaign at the University of North Carolina at Chapel Hill. An avid traveler, reader, and bargain hunter, K.A. lives in Athens, Georgia, with her fiancé and two puppies, Riker and Lucy.

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    Anteprima del libro

    Blood Type - K.A. Linde

    Capitolo 1

    «Numero quattrocentonovantadue».

    Reyna abbassò lo sguardo sul pezzo di carta che aveva stretto tra le mani nelle ultime otto ore. Sbatté le palpebre, sorpresa: 4-9-2.

    «Sono io», disse, alzando la mano per attirare l’attenzione della responsabile. Era ora. Non pensava di dover rimanere ad aspettare lì tutto il giorno.

    La responsabile attraversò il corridoio bianchissimo dell’ospedale. Mentre si avvicinava a Reyna, i suoi tacchi battevano ritmicamente contro il pavimento di piastrelle. I capelli biondi e lisci le arrivavano alle spalle e indossava un’uniforme bianca che si intonava all’ambiente circostante. L’unico tocco di colore era il simbolo rosso sangue sul taschino della sua camicia.

    Visage.

    L’azienda più grande al mondo, con un numero di dipendenti che era il più alto di sempre. Visage si era specializzata in quello che veniva chiamato servizio per l’impiego dei corpi. Reyna aveva sempre pensato che fosse una formula ricercata per dire che facevano scorte di sangue. In qualunque modo la gente volesse chiamarle – scorte di sangue o impiego dei corpi – rimanevano comunque formule deprimenti per indicare persone che cercavano di rimanere a galla durante la grave crisi economica. E lei stava per diventare una di loro.

    Ma non riusciva a pensarci ora. Non riusciva nemmeno a scherzarci su tra sé e sé. Non mentre stava seduta nell’aria stantia della stanza bianca, aspettando il suo turno per le analisi.

    Il suo turno per diventare la cosa che temeva di più.

    «Quattrocentonovantadue?», chiese la donna.

    «Eccomi», rispose lei, imbarazzata dalla sua voce tremante.

    Si alzò con fatica, tendendo i muscoli doloranti dopo essere stata seduta su una sedia schifosa per otto ore. Le sue mani tremavano e per nasconderle le infilò nelle tasche dei jeans logori. Ancora non riusciva a credere che questa fosse la sua vita, che stesse per fare una scelta simile. Brian e Drew l’avrebbero uccisa.

    La donna ignorò il suo disagio.

    «Da questa parte, quattrocentonovantadue». La sua voce era piatta e inespressiva, e pronunciò il numero scritto sul foglio di Reyna con una noia nascosta a stento.

    «Il mio nome è Reyna», rispose lei secca. Aveva un nome, non era solo un numero.

    La donna annuì un istante. I suoi grandi occhi scuri la fissarono. Era chiaro che non le importava nulla di quale fosse il suo nome. Questo era un lavoro e lei stava eseguendo degli ordini. Niente di più, niente di meno. E niente di diverso da quello che Reyna si sarebbe aspettata in quel posto dimenticato da Dio.

    «Seguimi», disse la donna.

    Reyna sospirò e fece come le veniva ordinato. Resistere non aveva alcun senso. Aveva deciso di arrivare fino in fondo con il test della Visage. Si trovava lì per sua scelta, sempre che essere poveri e quasi morti di fame possa considerarsi una scelta.

    Non che questo importasse alla responsabile o a chiunque altro dentro la Visage. A loro non interessava chi lei fosse. Era soltanto un altro tassello nel sistema.

    Dozzine di persone avevano fatto il test prima di lei quel giorno. Migliaia negli ultimi dieci anni, da quando Visage aveva rivelato il suo progetto di impiegare gli umani come donatori di sangue per i vampiri. Per loro, le circostanze si erano rivelate più che favorevoli. Milioni di persone senza lavoro in un colpo solo e poi, dal nulla, ecco spuntare un cavaliere in armatura scintillante pronto a salvarli tutti.

    La fine della paura verso le cose che vivevano nell’ombra.

    La fine della paura di essere cacciati per il proprio sangue.

    La fine di qualunque problema economico – bastava solo arrendersi e dare loro proprio quello per cui nei secoli avevano cacciato gli umani.

    Dieci anni dopo, non era cambiato molto. La maggior parte della gente viveva sotto la soglia di povertà e ora la popolazione era più legata che mai alla Visage. Ma Reyna non poteva farci nulla, tanto quanto non poteva domare la paura che le cresceva nello stomaco al pensiero di stare per diventare un altro stupido ingranaggio per la multinazionale.

    Reyna si chiese se qualcuna delle persone che erano venute prima di lei fosse stata nervosa per aver preso quella decisione. A quel punto, la scelta era tra la Visage e morire di fame. E di certo non preferiva la seconda opzione quando c’era qualcosa che poteva fare per mettere del cibo sulla tavola dei suoi fratelli. Stava tutto lì. Non riusciva a sopportare la vista di loro che si spaccavano la schiena nelle fabbriche quando lei avrebbe potuto fare qualcosa, qualunque cosa, per aiutarli.

    La vista della grande porta bianca che incombeva davanti a lei la fece innervosire. La porta che legava il suo destino alla Visage. Posso farlo davvero? Ho qualche altra scelta?.

    Inconsapevole della paura di Reyna, o forse semplicemente disinteressata, la responsabile girò il pomello della porta, che si aprì di fronte a lei senza un suono.

    Reyna deglutì.

    «Da questa parte», disse la donna.

    Al di là della porta, Reyna poteva vedere solo un lungo corridoio bianchissimo. Iniziò a sudare.

    Una volta attraversata quella soglia, non sarebbe più potuta tornare indietro. Il test avrebbe avuto inizio. La pelle delle braccia le prudeva al solo pensiero. Quando la sua richiesta era stata accettata, all’inizio della settimana, la Visage le aveva fornito un opuscolo per spiegarle a cosa sarebbe andata incontro.

    La questione era… aghi.

    Un sacco di aghi.

    Reyna ebbe l’impressione di soffocare. Odiava gli aghi. Non aveva neanche idea da dove la cosa avesse avuto origine. Se aveva avuto qualche esperienza traumatica da bambina, nessuno che fosse ancora nella sua vita ne sapeva niente. Ma considerando quello che stava per fare, avere paura degli aghi era ridicolo. Sarebbero stati il minore dei suoi problemi, visto che avrebbe avuto a che fare con i vampiri.

    Ma se ci fosse stata un’altra soluzione, l’avrebbe già trovata. Visage era l’unica opzione, l’ultima possibilità in assoluto.

    Proprio come piaceva a loro.

    Nonostante ciò, vedere la porta bianca aprirsi di fronte a lei la spinse a riconsiderare il piano. Era la prima volta in tutto il giorno che aveva quella reazione. Era ferma nella sua decisione di lavorare per la Visage. Ci era giunta a patti nel corso delle settimane precedenti, quando si era defilata per fare domanda per diventare una donatrice di sangue. Nessuno avrebbe mai assunto un topo di fogna. Quando aveva finito il liceo si era trovata di fronte a una situazione disperata: senza una laurea era un individuo inutile, ma per frequentare il college aveva bisogno di soldi. Però, nessuno la voleva assumere senza laurea, così non poteva procurarsi i soldi per iscriversi e ottenerne una. Era un patetico circolo vizioso e la faceva infuriare.

    Quindi, i suoi fratelli avevano iniziato a lavorare di più e facevano regolarmente il doppio turno. Il solo pensiero dei due ragazzi che si ammazzavano di lavoro nei Magazzini solo per riuscire a stare a galla in quella crisi le dava il vomito. Voleva fare qualcosa. No. Doveva fare qualcosa. Non poteva lasciare che lavorassero giorno e notte in quelle condizioni per degli stipendi da fame.

    Alla Visage non interessava che lei fosse una ventunenne senza laurea. A loro importava che avesse l’unica cosa di cui i vampiri avevano disperatamente bisogno: il sangue.

    Meglio ancora, con la Visage avrebbe avuto uno stipendio dignitoso, un tetto sopra la testa e finalmente avrebbe di nuovo consumato pasti regolari. Avrebbe fatto arrivare i soldi ai suoi fratelli, loro avrebbero potuto diminuire le ore agli impianti e tutto sarebbe potuto tornare alla normalità. Avrebbe potuto iniziare a vivere il sogno che i suoi genitori avevano instillato dentro di lei anni prima. Prima che morissero, lasciando i tre figli al loro unico parente ancora in vita, che non li voleva.

    Sperava almeno che quel sogno fosse ancora sano e salvo, da qualche parte. E che quando i suoi fratelli avessero scoperto cosa stesse facendo, sarebbe stata in grado di mandare loro i soldi. Se avessero saputo che era lì, non avrebbero mai approvato. Nessuno approverebbe che la propria sorella diventi una scorta di sangue per un vampiro.

    «Sei pronta, quattrocentonovantadue?», chiese la donna all’improvviso. Almeno, aveva qualche tipo di reazione.

    Reyna tenne a freno la lingua. «Sì».

    Capitolo 2

    Reyna oltrepassò la porta.

    Il supervisore la scortò lungo il corridoio immacolato costellato di porte bianche e davanti ad altri supervisori in uniforme, in fila come birilli.

    «È del tutto inappropriato. Dovremmo scartarlo», mormorò un supervisore uomo a un’altra, nel momento in cui li oltrepassarono.

    «Sono d’accordo. Parliamone con il dottore…», rispose la donna.

    Tutto quello che disse dopo, Reyna non lo sentì. Allungò il collo nella loro direzione. «C’è qualcuno che non viene preso per lavorare con la Visage?».

    Il supervisore non si voltò, né diede cenno di aver sentito la domanda.

    Sapeva che c’era la possibilità che le persone fossero scartate. Tutti avevano sentito storie orrende sulle malattie del sangue, o peggio. I donatori della Visage dovevano aiutare a controllare gli istinti vampireschi o, così si diceva, a non peggiorarli.

    Reyna si morse il labbro e cercò di controllare il respiro. Non poteva avere una malattia del sangue. Non era possibile. Non poteva nemmeno ipotizzarlo. Quei soldi le servivano troppo perché qualcosa potesse andare storto. Era determinata a passare il test e a ottenere un impiego presso un vampiro. Non le importava quante volte avrebbe dovuto controllare la sua paura degli aghi e del sangue. Alla fine, ne sarebbe valsa la pena.

    «Da questa parte», disse il supervisore.

    Reyna la seguì e svoltarono l’angolo. Il suo braccio prudeva di nuovo e dovette resistere all’impulso di grattarsi. Si irrigidì, spinse le spalle indietro, e si impose di non lasciar vagare lo sguardo lontano dalla direzione in cui la stavano conducendo.

    Girarono a destra e il supervisore si fermò di fronte a una delle porte bianche. Tolse dalla tasca un cartellino con il suo nome e la sua foto e lo strisciò su uno schermo posto sulla maniglia.

    «Identità del paziente?», gracchiò la macchina.

    «Numero quattrocentonovantadue, Miss Reyna Carpenter», disse la donna.

    «Identità confermata».

    Reyna osservava ammirata. Il Distretto dei Magazzini non disponeva di una tecnologia tanto avanzata. Diavolo, la maggior parte della gente non poteva permettersi neanche quelle macchine – cellulari, laptop, automobili – che prima del crollo economico tutti avevano dato per scontate. Aperture a comando vocale erano in pratica roba di un altro mondo.

    La serratura scattò e la donna aprì la porta senza troppe cerimonie. L’interno somigliava a una stanza d’ospedale, anche se Reyna non ricordava l’ultima volta che era riuscita a permettersi una vera visita medica. In un angolo c’era un letto per pazienti coperto di carta sanitaria bianca. Degli strumenti di ultima generazione erano allineati al muro. Reyna non aveva idea di quale fosse la loro funzione e sperò di non scoprirlo quel giorno.

    Il supervisore entrò e maneggiò alcuni strumenti su un carrello, poi alzò lo sguardo su Reyna, ferma sulla soglia.

    «Siediti». Indicò il letto.

    Reyna prese un respiro profondo ricordando a sé stessa tutte le ragioni per cui stava facendo una cosa simile, poi entrò nella stanza e sprofondò nel letto. La carta scricchiolò sotto di lei e le luci la accecarono. Tutto odorava di plastica e disinfettante. Reyna aveva creduto che la sala d’attesa fosse la stanza più inospitale in cui si fosse mai trovata, ma si sbagliava.

    La donna le strinse una fascia attorno al braccio, le chiuse le dita in un marchingegno simile a delle mollette da bucato e le ficcò un enorme termometro in bocca. Poi infilò uno stetoscopio sotto la fascia e strizzò una sacca, che la fece gonfiare attorno al suo braccio. Reyna cercò di rilassarsi ma senza successo.

    «Bene», disse il supervisore, annuendo mentre la borsa si sgonfiava. «I parametri vitali sembrano buoni».

    Reyna si lasciò sfuggire un sospiro di sollievo.

    La donna iniziò a parlare tra sé mentre inseriva delle informazioni al computer. «Temperatura: trentasei gradi e mezzo. Accettabile. Pulsazione: settantadue battiti al minuto. Accettabile. Pressione sanguigna: centodue su sessantacinque. Bassa, ma accettabile».

    Si staccò dal computer e guardò Reyna. «Storia familiare?».

    Reyna immobilizzò le mani tremanti. Doveva mantenere il controllo. Poteva parlare dei suoi genitori. Ne era in grado.

    «I miei genitori sono, ehm… morti». Le parole suonarono vuote.

    Erano passati tredici anni da quando erano deceduti in un incidente d’auto. Subito dopo, lei e i suoi fratelli si erano trasferiti in città dallo zio. Da quel momento il mondo era diventato una merda.

    «Sì, ma ci sono stati casi di malattia?», chiese la donna. La sua voce era piatta. Nessuna compassione sul viso del personale ospedaliero della Visage.

    «Cancro al seno dalla parte di mia madre. È tutto quello che so», mormorò lei.

    «Ti ammali spesso?»

    «No».

    «Quand’è l’ultima volta che sei stata in ospedale?».

    Reyna scavò nella memoria ma non riusciva neppure a ricordarselo. «Probabilmente quando ero ancora piccola».

    La donna la osservò con sguardo indagatore. «Altre cure ricevute?»

    «Niente di pericoloso. Solo un raffreddore. I medici locali mi hanno aiutata quando ho potuto permettermelo». Guardò la donna negli occhi mentre lo diceva. Nessuno poteva permettersi un ricovero in ospedale e questa donna doveva saperlo. Non avrebbe mostrato vergogna per la sua vita.

    Il supervisore prese qualche appunto, poi estrasse alcuni aghi e alcune piccole fiale da un cassetto. Reyna sentì una morsa allo stomaco e sbiancò.

    Trattenne il respiro mentre la donna stringeva un laccio emostatico intorno al suo braccio, tamponava la zona interna del braccio e poi, senza alcun preavviso, infilava l’ago nella vena. Reyna strizzò gli occhi e cercò di calmare il battito che sentiva accelerare rapidamente. All’improvviso aveva la nausea e si sentiva debole e sudata. La paura le pungeva alla base del collo.

    Lanciò un’occhiata verso il suo braccio e si sentì mancare il respiro. Sangue rosso acceso scorreva dalle sue vene attraverso un tubicino. Il braccio pulsava per il dolore ma lei non riusciva a vedere altro che il sangue. Le faceva rivoltare lo stomaco e dovette guardare altrove finché il supervisore non ebbe terminato.

    Quando ebbe rimosso l’ago, la donna le applicò un cerotto e le consegnò un contenitore in cui urinare.

    «Il dottore sarà qui a breve. Puoi lasciare il contenitore nello scompartimento del bagno». La donna indicò una porta alla sua destra, quasi del tutto invisibile. «Quando hai fatto, torna subito qui. Il dottore ti vedrà a momenti».

    «Grazie», disse Reyna, la voce vuota.

    Almeno, il peggio era passato.

    Reyna cercò di non pensare alla perdita di sangue o agli aghi. Doveva pensare a mangiare bene, mandare soldi ai suoi fratelli e vivere una vita vera di nuovo. Non sarebbe stato per sempre, poteva uscirne in qualunque momento. Poteva lavorare come donatrice di sangue per un paio di mesi e poi tornare a casa… per trovare qualcos’altro da fare.

    Lasciò il campione nel bagno e tornò indietro per aspettare il dottore. Almeno il letto era più comodo delle sedie nella sala d’attesa. In tutta onestà, era più comodo anche di tutto quello che aveva a casa.

    Quando era più giovane – prima della crisi economica e della morte dei suoi genitori – aveva avuto una casa a due piani con il cancello bianco di legno e un prato verde. Poi c’era stato l’incidente e lei e i suoi fratelli avevano dovuto dire addio alla loro casa e trasferirsi in città con lo zio, un uomo che era in grado solo di bere e giocarsi la loro eredità. Era stato così sin da quando la zia lo aveva lasciato. Tre anni più tardi, l’economia era crollata. Lui aveva perso tutto e nessuno si era stupito che li avesse abbandonati quando le cose avevano iniziato ad andare in malora.

    Qualcuno bussò alla porta, strappandola ai suoi pensieri cupi. La dottoressa entrò a grandi passi, reggendo una cartelletta. Era una donna alta e asciutta, con capelli lucidi stretti in una coda e occhi scuri e freddi. Come tutti quelli che lavoravano lì, era chiaro che anche per lei sorridere non fosse previsto.

    Ma in quella donna c’era qualcosa di… diverso.

    Un vampiro.

    Quella parola serpeggiò lungo la coscienza di Reyna e lei cercò di scacciare il pensiero. Non aveva senso preoccuparsene, vista la situazione in cui si trovava, ma non riuscì a farne a meno. La paura era così radicata che sembrava voler rimanere attaccata a lei nonostante la sua decisione di lavorare per loro.

    «Quattrocentonovantadue. Signorina Reyna Carpenter. Un metro e sessantadue centimetri di altezza. Occhi castani. Capelli castani. Caucasica. Zero negativo. È corretto?»

    «Sì», confermò Reyna.

    «Bene. Devo accertarmi che tu soddisfi tutti i parametri». Gettò a Reyna uno sguardo da sopra il bordo dei suoi occhiali neri. «Sei incinta?»

    «Chiedo scusa?»

    «C’è qualche possibilità che tu sia incinta?», ripeté lei.

    «Non penso».

    «La possibilità c’è oppure no».

    Reyna ripensò all’ultimo mese e rabbrividì. «È possibile ma non è probabile».

    La dottoressa sospirò come se Reyna la stesse infastidendo. «Quando ti sei iscritta alla Visage, hai dichiarato di non essere incinta. Non ci prenderemmo mai il rischio di mettere in pericolo una giovane vita. Visto che non sei sicura, ti farò fare un test di gravidanza».

    «Uhm… ok», rispose lei debolmente.

    Questo problema non avrebbe neppure dovuto esistere. Quando aveva fatto domanda alla Visage, era di nuovo in rottura con il suo ragazzo, Steven, che lavorava con i suoi fratelli. Non c’era motivo per lei di credere che qualcosa potesse succedere nell’intervallo di tempo da quando aveva consegnato la sua domanda a quando avrebbe ricevuto la risposta da parte della Visage.

    Ma Steven era fin troppo carismatico. Era carino, divertente, affascinante. Diceva sempre la cosa giusta. Tutte le volte che lei se ne andava, lui si ripresentava e riusciva a farla cedere. Un paio di settimane prima, l’aveva convinta a incontrarlo alla fine del suo turno, dopo che i Magazzini avevano chiuso per la notte. E lei ci era cascata di nuovo. Due settimane in un vortice di passione che si era concluso con un gran vaffanculo. Era stata un piacevole passatempo. Ora stava vedendo qualcun’altra. Fine.

    Steven l’aveva fatta sentire come una puttana consumata. Niente di meglio della spazzatura in cui vivevano. Quando poco dopo la Visage aveva approvato la sua domanda per il test, Reyna aveva avuto la sensazione che tutto avesse senso. Almeno sarebbe stata pagata per vendere il suo corpo.

    All’improvviso la porta si aprì di nuovo. «Chiedo scusa, dottoressa Trainer. Lei è stata chiamata nel corridoio est. Io sono stato riassegnato al numero quattrocentonovantadue».

    La dottoressa fissò la porta con aria stupita. «Cosa?»

    «Corridoio est», disse l’uomo.

    La porta si aprì di più e Reyna poté vedere l’uomo per intero. Era alto, con un aspetto appena più arruffato di quello della dottoressa. Ma quello che gli mancava nella cura dell’aspetto, lo recuperava nella severità delle fattezze. Sembrava estremamente austero e il disordine del suo abbigliamento non faceva che conferirgli un’aria da scienziato pazzo.

    «Sì, certamente dottor Washington», disse la dottoressa Trainer quando si rese conto di chi fosse l’uomo. «Ecco la sua cartella».

    Si scambiarono le informazioni e la dottoressa la lasciò sola con il nuovo dottore.

    «Benvenuta, signorina Carpenter. Sono il dottor Roger Washington».

    Tese la mano verso di lei. Reyna la guardò, scettica. Nessuno si era rivolto a lei o l’aveva salutata come se fosse qualcosa di diverso da un soggetto da testare e interrogare. Cos’era? Poliziotto buono, poliziotto cattivo?

    «Salve», rispose piano. Gli strinse la mano. Era gelida e le diede i brividi.

    «Dopo aver visionato il suo profilo, l’abbiamo selezionata per la sperimentazione di un nuovo programma. Il gruppo sanguigno e la sua storia, la costituzione e i processi biologici fanno di lei la perfetta candidata. Io sono a capo del progetto e siamo alla ricerca di partecipanti. Si rende conto che tutto quello di cui parliamo qui è assolutamente riservato, vero?»

    «Certo».

    Un nuovo programma? Informazioni riservate? Non aveva idea di cosa significasse tutto questo, ma voleva saperne di più. Sembrava che avessero bisogno di lei, e se ne avessero avuto abbastanza, forse sarebbe riuscita a scucire più soldi.

    «Da qualche tempo, la Visage sta considerando l’ipotesi di semplificare il nostro sistema d’impiego dei soggetti umani», spiegò il dottore.

    «Semplificare… in che modo?».

    L’uomo sorrise e Reyna si fece cerea. Canini aguzzi baluginarono nella luce violenta. Reyna cercò di deglutire ma aveva l’impressione che la sua bocca fosse piena di cotone. Sapeva che era un vampiro. Sapeva che entrambi i dottori lo erano, ma ora c’era qualcosa di diverso. Quell’uomo non era una delle persone di cui leggeva sui giornali o sui manifesti. Era un vero vampiro che poteva raggiungerla, toccarla.

    Lui sembrò indovinare il suo disagio e chiuse la bocca, tornando all’espressione rigida di prima. «Si rende conto, signorina Carpenter, che l’azienda per cui spera di lavorare è diretta da vampiri, e che se sarà selezionata vivrà tra i vampiri?»

    «Sì, ne sono consapevole», rispose lei, ritrovando il contegno.

    «Bene», l’uomo annuì. «Ora, tornando a quanto stavo dicendo, stiamo lavorando per semplificare il sistema. Quello attuale, assegna un soggetto a uno Sponsor per un mese. Dopo quel mese, gli è data una settimana per riprendersi e quindi passa a un altro Sponsor compatibile. In quanto zero negativo, lei avrebbe a che fare con un gruppo di Sponsor dello stesso tipo nella sua zona di riferimento. Il sistema ruota continuamente e tutto è accuratamente monitorato dalla Visage, affinché sia sicuro e ordinato».

    Reyna aveva letto tutto questo nel pamphlet, quando aveva inoltrato la sua domanda. I vampiri avevano bisogno di bere il sangue di umani con il loro stesso gruppo sanguigno per continuare a mantenere funzionanti le loro capacità cognitive. Prima, quando si nutrivano da chiunque capitasse, il sangue li saziava solo a livello primario e non forniva niente più di questo. Anzi, contaminava il loro organismo e li rendeva corrotti, letali, animaleschi. Per generazioni, i vampiri avevano infestato l’oscurità, cibandosi di chiunque e qualunque cosa su cui potessero mettere le mani. Reyna non riusciva nemmeno a immaginare un mondo senza vampiri, in agguato nell’ombra o fuori allo scoperto come erano ora.

    Quando la Visage si era fatta avanti nel bel mezzo della crisi, avevano promesso nuovi orizzonti per umani e vampiri allo stesso modo. Volevano che umani e vampiri convivessero in un’atmosfera di mutuo beneficio. E così era arrivata la cura dei gruppi sanguigni. Avevano registrato tutti i vampiri conosciuti e avevano offerto agli umani del denaro per diventare i loro donatori di sangue.

    «In che modo il nuovo sistema sarebbe diverso?», chiese Reyna.

    Il dottore sorrise di nuovo e con il dito scavò un solco nella carta che copriva il letto. «Ora lo Sponsor richiede un certo gruppo sanguigno e un certo tipo di profilo, e poi il soggetto rimane con lo Sponsor… in maniera permanente».

    Capitolo 3

    «Permanente?», esclamò Reyna.

    «Sì. Il nuovo sistema assegna ai soggetti un vampiro compatibile. Dopodiché siete sistemati nella casa dello Sponsor, con cui si condivide l’alloggio».

    «Per sempre?», chiese lei, incredula.

    «Be’, non per sempre come se non ci fosse alternativa, signorina Carpenter. Il sistema è pensato per correggere alcuni dei problemi del precedente. Dà vita a meno fluttuazioni e garantisce ai soggetti un miglior stile di vita».

    «Quindi… non possiamo più uscirne?»

    «Ovviamente no. Se il soggetto e lo Sponsor si accordano sul fatto che la relazione non sia più funzionale, allora un altro Permanente sarà allocato nella casa e il contratto reso nullo. Non possiamo trattenervi contro il vostro volere. Stiamo soltanto cercando di trovare uno stile di vita più adatto ai nostri Sponsor. E se può farla sentire meglio, tutti gli Sponsor selezionati per questo programma sono candidati di alto rango. Si prenderebbero molta cura di lei».

    Assegnata in via permanente a un vampiro. Non riusciva a pensare a nulla che avrebbe voluto meno. Sembrava proprio un modo semplice per i vampiri di trarre vantaggio dagli umani eliminando i limiti imposti dal sistema precedente.

    «Sarà una situazione migliore per gli Sponsor, ma per noi?», chiese. «Come facciamo a sapere che va tutto bene se non c’è più nessuno a controllare, una volta al mese?»

    «Posso garantirle che tutti gli Sponsor sono stati accuratamente selezionati. Sono ufficiali di alto livello dell’organizzazione. Non metteremmo mai i nostri impiegati in situazioni potenzialmente pericolose».

    «Certo che no», rispose lei, decisa. «Quindi, questi Sponsor sono migliori degli altri. Significa che anche la paga è migliore?».

    Lui si lasciò sfuggire una risata, ma riprese subito il contegno. «Dritta al punto, vedo. Che gliene pare del doppio del salario mensile?».

    Questo era… incredibile. Se fosse riuscita a guadagnare il doppio del compenso originario, non avrebbe dovuto lavorare per la Visage molto a lungo. Poteva rimanere con lo Sponsor quanto bastava per permettere a lei e ai suoi fratelli di rimettersi in carreggiata. Con quella paga, avrebbe persino potuto risparmiare abbastanza da permettersi di andare al college e con una bella laurea scintillante qualcuno avrebbe potuto assumerla. Dipendeva tutto da come le cose sarebbero andate una volta che fosse stata lì. Ma poteva resistere. Non importava

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