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Destini incrociati
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E-book304 pagine4 ore

Destini incrociati

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Info su questo ebook

Dall'autrice del bestseller Ho scelto te

Un romanzo sugli incontri inattesi e sconvolgenti che il destino ci riserva...

Amy Smith lavora in un caffè e abita in un piccolo monolocale nella periferia di Houston. È riservata, scontrosa e abitudinaria. Ogni martedì e giovedì pranza al Red Dragon, un ristorante cinese dove riesce a rilassarsi. Amy non si è ancora accorta che in quel locale qualcuno la osserva in silenzio, aspettando il suo arrivo. Finché un giorno, partecipando alle riprese di un gioco che verrà trasmesso su YouTube, Amy conosce Cai, il ragazzo che lavora al ristorante. All’inizio è quasi infastidita dall’odore di fritto che lui emana, ma quando le sue braccia la stringono, qualcosa cambia. Cai inizia a corteggiarla: ha dei modi di fare eleganti ed è molto delicato. Ma il suo passato è inaccessibile. La sua storia prima dell’arrivo a Houston è un mistero. Lentamente Amy si lascia andare e s’innamora. Lei è l’altro capo del filo rosso che lega il loro destino di anime gemelle, le dice Cai una sera. Il giorno dopo però, scompare nel nulla…  Chi è, allora, quel ragazzo che Amy incontra quattro anni dopo? Che ha un nome diverso ma è identico a Cai?

«Destini incrociati è una storia toccante e commovente, che ti spinge ad avere fiducia nel destino e a credere nell’immensa forza dell’amore.»
Giulia Ross
è nata a Milano nel 1981. Si è laureata in Biotecnologie e ha proseguito i suoi studi con un dottorato di ricerca in Immunologia. Insieme al suo amore per la scienza coltiva da sempre le sue due grandi passioni: la musica e la scrittura. La Newton Compton ha pubblicato con successo Ho scelto te, Una notte per non dimenticarti, Destini incrociati e in ebook Giochi pericolosi e Ai tuoi ordini.
LinguaItaliano
Data di uscita15 feb 2017
ISBN9788822705679
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    Anteprima del libro

    Destini incrociati - Giulia Ross

    Prologo

    Houston, maggio 2018

    «Per quanto pensi di trattarmi in questo modo?!». Scansa il mio braccio, allontanandomi. È arrabbiata, ma io lo sono di più.

    «Fino a quando sarà necessario», rispondo crudele. «Finché proverò un po’ di sollievo nell’usarti, vendicandomi di ciò che lui mi ha fatto!». Le mie urla la travolgono e un velo di lacrime scende sui suoi occhi scuri. Umiliata, si china per raccogliere l’abito ma il suo corpo nudo e sudato mi chiama a gran voce, di nuovo.

    «No», le intimo gelido, spezzando il suo movimento a metà. «Abbiamo ancora mezz’ora prima di questa sceneggiata. Vieni qui e voltati!». Non posso farne a meno, voglio vederla soffrire mentre mi nutro del suo desiderio. Mentre possiedo ciò che non è mio…

    Lei alza lo sguardo: riconosco la stessa illusione che vive negli occhi di un animale prigioniero all’avvicinarsi del suo padrone. Il vestito le scivola via dalle mani su quell’orribile moquette dove mi sembra di scorgere alcuni frammenti dei nostri cuori. Quello è tutto ciò che resta di due anime tormentate, consumate dalla rabbia.

    Si morde le labbra in un’espressione d’attesa, mentre la osservo attentamente. Continua a desiderarmi nonostante tutto: l’odio, il disprezzo e il dolore che io le ho inferto passano in secondo piano per entrambi. Sorride grottescamente. Poi mi dà le spalle e, inginocchiandosi sul letto, inarca la schiena pronta ad accogliermi una seconda volta.

    Non c’è nulla da chiedere. Afferro le sue anche e mi unisco a lei, senza pietà.

    Guardai l’altra me stessa riflessa nello specchio e per un attimo non mi riconobbi.

    L’assistente di Paula mi aveva intrecciato i capelli in un’acconciatura morbida ed elegante. Indossavo il vestito celeste, quello che Brian mi aveva regalato per il mio ventottesimo compleanno e che era costato una vera fortuna. «Sembri una dea», mi aveva detto non appena ero uscita dal camerino del Fairy Tale di Austin. Riluttante, avevo accettato quell’ennesimo regalo ma non avevo ancora avuto il coraggio di indossarlo, per quanto lui ci tenesse. Vivere quegli ultimi tre anni nell’agio e nella tranquillità non mi aveva fatto dimenticare il valore del denaro e una parte di me odiava gli sprechi. Quel giorno, tuttavia, sentivo che indossarlo ci avrebbe portato fortuna. Brian aveva organizzato un incontro davvero importante per la sua azienda, la Hudson Pharmaceutics, e tutti, me inclusa, eravamo in fibrillazione.

    Prima di lasciare la stanza osservai l’anello di filigrana rossa che portavo all’anulare della mano sinistra. Semplice e all’apparenza senza alcun valore, stonava con tutto il resto che avevo addosso. Lo portai alle mie labbra e lo baciai. Quel piccolo oggetto era la prova che Cai era esistito. Era il simbolo del nostro amore ridotto a un complesso intreccio di metallo scarlatto.

    Serrai la mano più forte che potei e sospirai: non era il momento di annegare nei ricordi. Non era il momento di pensare a Cai.

    Scossi la testa come ad allontanare i pensieri quando Brian si affacciò dalla porta della mia camera. «Ehi, principessa». I suoi occhi si riempirono di gioia non appena notò il vestito. «Sei bellissima… E finalmente lo hai indossato», disse dolce. Mi allungò la mano tirandomi a sé. «Adesso ho proprio bisogno che tu mi sia vicino. Liang è appena arrivato… È in compagnia di tutta la sua famiglia, come avevamo previsto. Posso fidarmi del cinese di Paula, vero?». Era davvero nervoso. Mi rifugiai nel suo abbraccio e sogghignai.

    «Se stasera sarai a capo di una pescheria a Galveston potrai lamentarti del suo cinese. In caso contrario dovrai scusarti per aver anche solo dubitato di lei», scherzai.

    Lui mi regalò un sorriso prima di porgermi il braccio. «Andiamo», disse più sicuro.

    Percorremmo il lungo corridoio del Richstone fino alle scale per raggiungere l’attico. Lì ci attendevano tutti i ricercatori senior della Hudson Pharmaceutics, tre rappresentanti del consiglio direttivo dello Houston Cancer Hospital e naturalmente Zheng Yuo Liang, il magnate di Pechino con cui mio padre voleva stringere un accordo. La Hudson Pharmaceutics, di cui Brian era il proprietario, gestiva la progettazione e lo sviluppo di nuovi metodi per il delivery di farmaci antitumorali. Il loro target di interesse erano i tumori solidi, in particolare carcinomi del colon. I recenti risultati di ricerca sull’utilizzo di nanoparticelle a base ferrosa, più il loro efficiente trasporto per mezzo di campi magnetici alle cellule malate, si erano rivelati eccezionali.

    Dall’altra parte Liang, a capo della più grande azienda farmaceutica di Pechino, gestiva un vero impero nella ricerca contro il cancro in Cina. I suoi ultimi risultati con il farmaco sperimentale A7GI8X erano sorprendenti. Brian voleva assicurarsi la partnership esclusiva di Zheng per poter introdurre A7GI8X nei protocolli di ricerca della Hudson, accoppiandolo al progetto delle nanoparticelle.

    Raggiungemmo il piano attico ed entrammo nel salone allacciati l’uno all’altra, carichi di aspettative. C’erano almeno cinquanta persone al cocktail di benvenuto, forse anche di più. Tutti indossavano completi elegantissimi e parlavano a bassa voce reggendo calici di vino tra le mani. Sembravano impegnati in importanti considerazioni. Mi strinsi ancora di più al braccio di Brian, stranamente emozionata, guardando in tutte le direzioni. Dopo qualche minuto, individuai il capofamiglia Liang a un lato della sala. Era insieme a Max e Timothy, i due ricercatori a cui Brian mi aveva affidata nei periodi di tirocinio trascorsi alla Hudson. Ci dirigemmo verso di loro: a ogni passo l’espressione austera del nostro ospite si faceva più scura, incutendomi soggezione. Zheng era un uomo basso, con folti capelli neri e il viso scavato dai segni dell’età. Le linee del suo volto erano così dure che sembravano scolpite nella pietra: ero certa che nessun sorriso avesse mai illuminato quella faccia, nemmeno per sbaglio. Zheng si accorse del mio sguardo attento e mi fulminò con un’espressione raggelante. Abbassai gli occhi intimidita mentre Brian si aggiustava la cravatta bordeaux prima di parlare.

    «Nĭ hăo», salutò in cinese facendo un piccolo inchino. Zheng smise di parlare con Timothy e si voltò verso Brian. Restò in silenzio per qualche istante prima di inchinarsi a sua volta ricambiando il saluto del mio patrigno. «Sono molto felice che siate qui questa sera», continuò Brian rivolgendosi anche agli altri. Non parlai e attesi che fosse lui a presentarmi ufficialmente.

    «Siamo noi a ringraziarvi di questa festa», rispose Zheng in americano senza nemmeno un’ombra di accento orientale. «Non era necessario tutto questo sfarzo», aggiunse. Brian sorrise, nascondendo l’agitazione con eleganza, poi si voltò verso di me.

    «Vorrei presentarvi mia figlia, Amy». Con la mano mi accarezzò la schiena. Finalmente ebbi il coraggio di alzare di nuovo lo sguardo. Salutai Zheng come aveva appena fatto Brian e notai solo allora altre due persone al suo fianco, oltre Max e Timothy.

    «Lieto di conoscerla, signorina Hudson», disse lui freddo. Sentirmi chiamare con il cognome di Brian mi faceva ancora effetto nonostante fossero passati ormai quasi due anni dall’adozione.

    «Signor Hudson, le voglio presentare mia moglie, nonché lo scienziato che ha contribuito alla sintesi del nostro farmaco più promettente, la dottoressa Shan Liang». La donna alla destra di Zheng, alta e decisamente più giovane del marito, ci degnò della sua attenzione, scostandosi i lunghi capelli dal viso. Era bellissima: aveva la pelle bianca come marmo e occhi neri come le profondità della terra. Le labbra sottili, dalle linee dolci, erano dipinte di rosa. Provai immediatamente un brivido: sembrava la personificazione della quiete prima degli uragani. Come il marito, limitò il saluto a un timido inchino. Poi il suo sguardo si spostò su di me, freddo come quello di un rapace. Fui travolta subito da una strana sensazione di disagio.

    «E lui è mio figlio, Tian», disse Zheng attirando l’attenzione di un uomo girato di spalle. «Dirigerà la parte sperimentale qui alla Hudson, in mia vece». Brian schiuse le labbra sorpreso di quella notizia. Doveva essere la dottoressa Liang a iniziare un periodo di internato nei nostri laboratori.

    Il giovane uomo che fino a quel momento aveva tenuto la testa bassa, nascondendo il viso, stagliò lo sguardo gelido su di noi.

    L’orrore mi tolse il respiro.

    «Cai…?».

    1. Hug Me!

    Houston, agosto 2014

    «Amy!».

    Amy, Amy sei una bambina cattiva!

    «Amy!».

    Adesso ti prendo e ti faccio vedere come si puniscono i bambini come te. Morgan ha sempre qualcosa da insegnare. Vieni qui!

    Dio ti prego, se esisti e mi stai guardando, ferma queste orribili mani. Sono certa che Morgan sia stato mandato dall’inferno per ricordare al mondo che il male esiste, ma ti supplico, Dio, fermalo… Fermalo!

    «Amy!».

    Sussultai spaventata. Il dolore alla testa pulsava, come se milioni di spilli fossero stati conficcati a forza nel mio cervello a stimolare tutti i ricordi peggiori. Strinsi le mani sul collo dove altre urla sembravano impazienti di essere liberate. Quando finalmente misi a fuoco la faccia di Andrew davanti alla mia, capii che era stato solo un incubo.

    «Amy, tutto bene? Stavi gridando… Di nuovo», disse lui scocciato.

    Gocce di sudore gelido mi scivolarono sulle guance lasciandosi dietro la scia della sofferenza che cercavo di nascondere. Il mio cuore sbatteva furioso contro il petto quasi a volersi creare una via di fuga dal mio corpo e, soprattutto, dalle immagini di Morgan.

    «Devi andartene», sbottai sconvolta. «Ho bisogno di stare sola». Mi alzai con la camicia da notte che mi si appiccicava addosso, i capelli tutti aggrovigliati e il fiato ridotto a un rantolo confuso. Il viso di Andrew si contrasse immediatamente mentre i suoi occhi azzurri si riempivano di frustrazione.

    «Sempre la stessa storia», ringhiò abbandonando il letto e afferrando i jeans dalla sedia della scrivania. «Usciamo insieme da mesi ormai, facciamo sesso ma nel cuore della notte ti metti a urlare. Poi mi mandi via senza darmi spiegazioni. Sono stanco, Amy. Davvero stanco». Indossò la maglietta dei Ramones e mi guardò con risentimento. «Tu mi piaci, ma io sono allergico alle ragazze complicate. Ho già abbastanza guai nella mia vita». Che attore melodrammatico! In quel momento cercai di ricordare a me stessa le ragioni per cui uscivo ancora con lui. Primo: Andrew era biondo. Secondo: era bello. Terzo: era facile. Quarto: non lo amavo.

    «Allora diamo un taglio definitivo alla tua allergia, Andrew. Forse dovremmo prenderci una pausa», dissi fredda come l’acciaio, stupendo perfino me stessa della mia risolutezza. Lui si voltò di colpo e per un attimo pensai volesse tirare un pugno contro l’armadio di compensato. In fondo lo aveva già fatto altre volte in precedenti attacchi d’ira, ma quella notte si trattenne. Forse anche lui, come tutti gli altri, stava aspettando una buona scusa per andarsene. Quale migliore opportunità di quella, quindi? Dopo aver raccolto le sue cose Andrew si girò verso di me un’ultima volta con l’espressione più seria della storia. «Allora tieniti stretti i tuoi problemi del cazzo, Amy. Non credo che ci sentiremo più». Lo sbattere della porta segnò la sua dipartita e io provai finalmente un po’ di sollievo. Fidanzato numero otto: eliminato.

    Mi rifugiai in bagno e passai dell’acqua su tutto il viso più e più volte, sperando che insieme a questa scivolasse via anche il dolore. Erano troppe notti, da mesi ormai, che i sogni si dipingevano di nero e che tutte le paure risorgevano come anime dannate per tormentarmi. Aprii l’anta dello specchio e i miei occhi furono immediatamente attirati dal flacone di calmanti che la dottoressa Sheridan mi aveva prescritto tre settimane prima. Era ancora chiuso perché aprirlo significava sentirsi sconfitti e sopraffatti ancora una volta dal passato e da tutta la rabbia che lo aveva avvelenato. Chiusi l’armadietto vincendo la tentazione e mi preparai una camomilla. Nel silenzio della notte, le grida dei bambini della casa famiglia Hampton continuavano a echeggiare disperate nella mia testa. E poi le sue mani… Morgan…

    «Ehi splendore… che ti è successo?». Pam mi fissava preoccupata. Avevo gli occhi gonfi, i capelli ridotti a un disordinato caschetto corvino, e soprattutto indossavo la maglietta del giorno prima al contrario. Scossi la testa e le mugugnai di lasciarmi stare mentre sistemavo la mia uniforme, ma Pam era la regina dell’apprensione. «Ti sei vista con Andrew?», chiese poi passandomi le dita tra i capelli per tentare di dargli una sistemata. Annuii in silenzio. «E…?»

    «E l’ho mollato». Di nuovo quello sguardo: per quante volte Pam mi avrebbe guardata in quel modo?

    «Andrà meglio la prossima volta», disse regalandomi una carezza sul viso. Era abituata alle mie storie usa e getta. Andrew poi non le era mai piaciuto, ma lui o un altro non faceva alcuna differenza. Nessuno resisteva a lungo al mio fianco. Gli uomini, dopo avermi scopata per qualche settimana, si annoiavano o peggio si spaventavano dei miei incubi, delle mie grida nel cuore della notte e del mio essere taciturna e scontrosa di giorno. Ero un concentrato di gelido silenzio alternato a momenti di panico e disperazione. Il pacchetto sconvenienza Amy Smith. Così, dopo qualche tempo, i miei partner smettevano semplicemente di chiamarmi sperando che anch’io facessi la stessa cosa. Con Andrew avevo raggiunto il mio record: cinque mesi. All’inizio mi era sembrato un ragazzo interessante, musicista e artista scapestrato, perfino divertente quando si scolava un paio di birre, ma dopo la prima volta che eravamo stati a letto insieme avevo capito che presto si sarebbe aggiunto al resto dei nomi già depennati dalla mia agenda.

    «Ti senti bene?», mi chiese la mia unica amica in punta di piedi.

    Sfoggiai un sorriso più falso del suo finto biondo e citai uno dei miei film preferiti, Destini incrociati: «In ogni istante è racchiusa la scelta di cambiare il proprio destino!». Poi allacciai l’uniforme rosa confetto e indossai il grembiule del Quality Café, pronta a una nuova giornata nel regno del doppio Caramel Latte.

    Avevo appena compiuto ventiquattro anni e la mia vita girava attorno a una tranquilla e ben studiata routine volta a controllare l’insorgenza degli attacchi di panico. Mi alzavo alle sei di mattina e da Cleveland St. camminavo fino al Quality Café in Crosby St., la mia seconda casa. Lì, ascoltavo Pam descrivermi ogni particolare della sua vita con Jeff, sulle note armoniose del cantante country James Backer. Servivo cappuccini, cupcakes e club sandwich a persone che raramente ricordavo, allontanando ogni tentativo di conversazione da parte dei clienti. All’una di pomeriggio di ogni lunedì e mercoledì uscivo per la pausa pranzo e passeggiavo fino a Dallas St. dove mangiavo su una panchina dell’Helen’s Park da sola, osservando le persone correre sui lunghi viali sterrati. I pranzi del martedì e del giovedì invece li trascorrevo al ristorante cinese proprio di fronte al Quality Café, il Red Dragon. Quel posto riusciva a regalarmi un piacevole senso di pace e per una ragazza come me, perennemente in guerra con se stessa, un attimo di tregua era molto prezioso. Il venerdì invece raggiungevo Brian alla Hudson Pharmaceutics, nel Medical Center di Houston.

    Quel martedì verso mezzogiorno avevamo già finito tutti i muffin e ci apprestavamo a preparare i nostri famosi club sandwich. Un’intera squadra di pompieri affamati aveva colonizzato il locale subito dopo un’esercitazione e sembravano avere la ferma intenzione di consumare tutte le nostre scorte.

    «Ehi Cleopatra, portaci altro caffè!», mi urlò uno dei pompieri più muscolosi, facendomi l’occhiolino. Sospirai infastidita, afferrando la caraffa piena di caffè bollente, ma Pam mi fermò prima che potessi superare il bancone.

    «Lascia perdere quell’idiota di Sam, e vai a prendere altra insalata a Randall per favore. Taylor si è dimenticato di ordinarla fresca e siamo quasi a secco». Guardai l’orologio. Dannazione, Taylor! Grazie a lui avrei dovuto rinunciare al mio pranzo cinese, il mio prezioso momento di pace in una giornata già iniziata male! Mentre mi toglievo il grembiule ripromisi a me stessa di sgridarlo non appena l’avessi visto. Poi, rassegnata, uscii dal Quality.

    Il deciso passaggio dalla fresca aria condizionata al caldo insopportabile del mezzogiorno a Houston mi travolse con violenza. Dopo qualche minuto a piedi su Boston St. avevo già i capelli incollati alla faccia e boccheggiavo per la forte umidità. Mi sembrava di respirare in una nuvola di vapore. Affrettai il passo e inforcai Hampton St., quando notai una piccola folla radunata all’incrocio sul lato opposto del supermercato. Incuriosita mi avvicinai alla gente. Notai dapprima le telecamere, poi due file ordinate di ragazzi e ragazze fermi proprio davanti all’entrata del Crowne Plaza Hotel.

    «E ne manca solo uno! Coraggio gente!». La voce apparteneva a un uomo basso, tarchiato, con i capelli arancioni e l’aria bohémienne. Camminava lungo il marciapiede sventolando il microfono e sorridendo come un bambino. «Duecento dollari per partecipare a Hug Me, una delle prove finali di Love&Hate! La bcb tv trasmetterà il video questa sera ed entro domani ci saranno almeno diecimila clic su YouTube, garantito! Votate, mi raccomando! Allora, nessun volontario?». Non capivo a cosa si riferisse, ma dovevo passargli per forza di fianco. Lui si guardava attorno come se stesse cercando qualcosa. Misi i capelli in avanti per nascondere il viso e accelerai il passo senza valutare che con la mia uniforme rosa sarei inevitabilmente spiccata in mezzo a tutta quella folla. «Ehi tu, confettino?». La fila di ragazzi selezionati dalla troupe stava sparendo dietro alle porte del Crowne. Continuai a camminare senza voltarmi. «Ehi, dico a te!». Una mano mi toccò la spalla facendomi sussultare. Pel di carota era di fronte a me e mi guardava come un gatto guarda un gustoso croccantino. «Dove te ne vai così di fretta? Vieni con me, mi manca una ragazza per raggiungere il numero giusto».

    «Come…?», balbettai. Lui mi prese per un braccio e ignorando le mie proteste mi trascinò fino all’entrata dell’hotel.

    «Sono duecento dollari, tesoro. In contanti», precisò. Mi fece un sorrisetto dandomi definitivamente ai nervi. Con uno strattone mi liberai dalla sua presa.

    «Duecento dollari per cosa?», sbottai. Al mio tono brusco Pel di carota cambiò subito espressione.

    «Per abbracciare uno sconosciuto», disse più serio. Inarcai le sopracciglia confusa. «Conosci il nostro show, Love&Hate

    «Uhm, sì…». In realtà avevo visto solo la prima puntata di quella trasmissione che a mio avviso rasentava il patetico.

    «E conosci i video di Tatia Pilieva? Non hai visto il suo primo lavoro, First Kiss?». Scossi la testa ancora più confusa. Lui sbuffò, incredulo: «È un vero peccato… Vedi, ispirati dal lavoro della Pilieva stiamo facendo diversi video per gli Stati Uniti. Abbiamo ripetuto l’esperimento di First Kiss e Undress Me. Ora stiamo facendo un terzo video, Hug Me».

    «Ne ho capito quanto prima», dissi scocciata. Lui non si scoraggiò.

    «I primi video di Tatia riguardavano coppie di sconosciuti a cui veniva chiesto di interagire per la prima volta davanti alle telecamere. Non hai idea di quante emozioni si possono cogliere chiedendo a due completi estranei di baciarsi. Il risultato è sorprendente! E la gente li adora». Cominciavo a capire, ma la sola idea di baciare uno sconosciuto mi diede il voltastomaco. «Noi stiamo usando questi video per la prova finale della sesta stagione di Love&Hate. I nostri concorrenti dovranno scommettere su una delle coppie dei video girati in questa stagione e il pubblico da casa determinerà con il televoto le quattro coppie più amate. Se i concorrenti hanno scommesso sulla coppia giusta guadagneranno cinquanta punti, determinanti per la prova finale». Concluse la spiegazione più esaltato che mai.

    «Mi dispiace, non bacio gli sconosciuti», conclusi secca, smettendo di guardarlo e apprestandomi ad allontanarmi. Lui mi seguì, ostinato.

    «Andiamo, qui dovresti solo abbracciare uno sconosciuto…».

    «Stessa cosa, non mi interessa».

    «Nemmeno per duecento dollari?», ripeté infine. Mi fermai di scatto. Mi servivano quei duecento dollari. Lo stipendio al Quality Café era sicuro, ma non certo alto. Le ultime visite dalla dottoressa Sheridan e le medicine che mi aveva prescritto non erano coperte dalla mia assicurazione sanitaria e pesavano maledettamente sulle mie finanze.

    «Subito?», domandai sospettosa.

    «Subito dopo le riprese… dài, vieni con me, confettino».

    Titubante lo seguii nel Crowne Plaza Hotel dove fui subito condotta in una stanza dedicata solo alle ragazze. Seduta su un divano di pelle color caffè inspirai profondamente l’aria che al Crowne sapeva di vaniglia, cannella e trepidante attesa. Le altre ragazze ridacchiavano tra loro emozionate, sperando forse di trovare un principe azzurro con cui trascorrere la serata. Io ero lì solo per i soldi.

    Durante l’attesa, compilai un questionario che tutelava la bcb tv da ogni possibile ripercussione legale. Infine lo staff ci consegnò un numero su un bigliettino di carta e poi, una per volta, iniziarono a convocarci per le riprese. A me toccò l’ultimo turno. Quando finalmente chiamarono il mio numero uscii dalla stanza profumata come una caramella e un cameraman mi accompagnò in un lungo corridoio dove mi spiegò con più chiarezza che cosa avrei dovuto fare.

    «Okay Amy, è molto semplice. Nella stanza ventotto ti aspetta un ragazzo in piedi e di spalle. Tu dovrai avvicinarti non appena il mio capo ti dirà: Si gira. Andrai verso il ragazzo e gli toccherai una spalla. A quel punto lui si volterà e vi osserverete. Noi vi riprenderemo per tutto il tempo ma non far passare un’eternità prima di abbracciarlo, intesi?». Annuii e mi fermai di fronte alla porta numero ventotto dietro alla quale si celava il mio Mr. Duecento dollari. «Okay, siamo pronti!», urlò il cameraman al mio fianco facendomi fischiare l’orecchio.

    Dopo qualche istante, dall’interno della stanza sentii una voce gridare: «Si gira». Feci un lungo respiro e, pensando a quella somma preziosa, aprii la porta e avanzai. La luce era accecante. La prima cosa che riuscii a mettere a fuoco furono le quattro persone barricate dietro i riflettori e le grandi telecamere, proprio alla mia sinistra. La spia rossa sul display scandiva i secondi di registrazione insieme alla crescita del mio imbarazzo. Ma che ci facevo lì dentro? E chi era il ragazzo che mi dava le spalle? Lo osservai per un attimo in silenzio: era tutto vestito di nero, tranne che per le scarpe, arancioni almeno quanto i capelli di Pel di carota. Indossava anche uno strano berretto di stoffa. Feci qualche passo verso il centro della stanza, ancora titubante, e mi fermai a circa trenta centimetri da lui. Era più alto di me, la mia testa gli arrivava a malapena al collo. Aveva lucidi capelli neri. E odorava di fritto. Dovetti controllare me stessa per non arricciare il naso disgustata. Concentrandomi di nuovo sui duecento dollari di compenso, gli toccai la spalla destra come da copione. Il ragazzo in nero si voltò. I capelli, schiacciati dal berretto, gli mascheravano la fronte e gli occhi ma non il resto del viso: aveva dei lineamenti delicati e la pelle più liscia che avessi mai visto.

    «Hi», sussurrò. La sua voce mi riscosse dal mio soffocante stato di torpore. Era dolce e limpida come l’acqua di un ruscello. Non gli risposi, troppo stupita da quella piacevole scoperta. Lui si scostò i capelli dal viso con le dita, scoprendo gli occhi. Erano allungati e avevano il colore del legno. Avrei scommesso i miei duecento dollari sulla sua nazionalità cinese e quella divisa… Aveva un che di familiare, ma per qualche motivo non riuscii a ricordare il perché. Probabilmente Pel di carota lo aveva rubato da uno dei ristoranti vicino a Randall, proprio come aveva fatto con me sulla strada.

    Le sue labbra sottili si incurvarono in un sorriso. Era bello. Troppo bello. Avvertii un flebile formicolio al centro del petto e non riuscii a muovere nemmeno un muscolo. Poteva mai essere così difficile avvicinarsi e abbracciarlo? Certo che poteva, io non abbracciavo nessuno! Il calore iniziò a pervadermi mentre l’agitazione si insinuava nel mio sangue, ancora più subdola. A un tratto allungò la mano

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