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E-book465 pagine6 ore

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Info su questo ebook

Un grande thriller

«Pieno di colpi di scena. Un capolavoro di suspense!»

Cinque anni dopo la sua misteriosa scomparsa, Joshua Hamilton viene ufficialmente dichiarato morto. Per sua moglie Aubrey dovrebbe essere un sollievo: finalmente potrà voltare pagina e andare avanti. Ma Aubrey non vuole, non può andare avanti. Cinque anni fa il suo mondo è crollato, il suo amato Josh è sparito nel nulla e i sospetti della polizia si sono concentrati su di lei. Cinque anni di vuoto e solitudine, cinque anni di domande che sono rimaste senza risposta. Perché Joshua, la notte in cui si persero le sue tracce, non si è presentato alla festa di laurea del suo migliore amico? È stato vittima di un omicidio o è fuggito da qualcosa? E quando un uomo misterioso e stranamente familiare entra prepotentemente nella vita di Aubrey, nuovi inquietanti interrogativi si fanno avanti: forse il dolore e la sofferenza la stanno portando alla follia? E se invece tutto ciò che pensava di conoscere si rivelasse una menzogna?

Dall'autrice bestseller del New York Times 

«Ellison appartiene chiaramente alla schiera dei migliori scrittori di thriller.» 
Booklist

«Una storia con un intreccio ben congegnato, una prosa efficace. Un thriller psicologico tutto da gustare.» 
Publishers Weekly

«Un romanzo pieno di follia, inganni e omicidi.»
Deep South Magazine
J.T. Ellison
Autrice bestseller del «New York Times», ha scritto diversi thriller psicologici e, con Catherine Coulter, una serie di romanzi di grande successo che hanno come protagonista l’agente dell’FBI Nicholas Drummond. È tra le presentatrici dello show televisivo A Word on Words. Vive a Nashville con il marito e una nidiata di gatti.
LinguaItaliano
Data di uscita4 apr 2017
ISBN9788822705785
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    Anteprima del libro

    Nessun colpevole - J.T. Ellison

    1606

    Titolo originale: No One Knows

    © 2016 by J.T. Ellison

    First published in U.S. By Gallery Books,

    a Division of Simon & Schuster, Inc.

    All rights reserved, including the right to reproduce

    this book or portions thereof in any form whatsoever

    Traduzione dall’inglese di Daniele Ballarini

    Prima edizione ebook: aprile 2017

    © 2017 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-227-0578-5

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Librofficina

    J.T. Ellison

    Nessun colpevole

    Indice

    PRIMA PARTE

    Capitolo 1

    Capitolo 2

    Capitolo 3

    Capitolo 4

    Capitolo 5

    Capitolo 6

    Capitolo 7

    Capitolo 8

    Capitolo 9

    Capitolo 10

    Capitolo 11

    Capitolo 12

    Capitolo 13

    Capitolo 14

    Capitolo 15

    Capitolo 16

    Capitolo 17

    Capitolo 18

    Capitolo 19

    Capitolo 20

    SECONDA PARTE

    Capitolo 21

    Capitolo 22

    Capitolo 23

    Capitolo 24

    Capitolo 25

    Capitolo 26

    Capitolo 27

    Capitolo 28

    Capitolo 29

    Capitolo 30

    Capitolo 31

    Capitolo 32

    Capitolo 33

    Capitolo 34

    Capitolo 35

    Capitolo 36

    Capitolo 37

    Capitolo 38

    Capitolo 39

    Capitolo 40

    Capitolo 41

    Capitolo 42

    Capitolo 43

    Capitolo 44

    TERZA PARTE

    Capitolo 45

    Capitolo 46

    Capitolo 47

    Capitolo 48

    Capitolo 49

    Capitolo 50

    Capitolo 51

    Capitolo 52

    Capitolo 53

    Capitolo 54

    Capitolo 55

    Capitolo 56

    Capitolo 57

    Capitolo 58

    Capitolo 59

    Capitolo 60

    Capitolo 61

    Capitolo 62

    Capitolo 63

    Capitolo 64

    Capitolo 65

    Capitolo 66

    Capitolo 67

    Capitolo 68

    Capitolo 69

    Capitolo 70

    Ringraziamenti

    Per Scott, Linda, Laura, Blake, Harlan e, come sempre, Randy.

    PRIMA PARTE

    Come gli opposti, che si conoscono grazie alle opposizioni,

    così il piacere della presenza,

    che si conosce meglio nei tormenti dell’assenza.

    ALCIBIADE

    1

    Aubrey

    Nashville

    Oggi

    Milleottocento e settantacinque giorni dopo la scomparsa di Joshua Hamilton, lo Stato del Tennessee lo dichiarò ufficialmente morto.

    Aubrey, sua moglie (o ex moglie, o vedova, nemmeno lei aveva più idea di come definirsi), ricevette la lettera autenticata un venerdì. Era pervenuta alla scuola Montessori in cui insegnava, la stessa che aveva frequentato da piccola insieme a Josh. Gliela consegnò direttamente sulla porta, nel bel mezzo di una lezione di lettura, Linda Pierce, la preside di lunga data, che aveva una faccia dalla cui espressione sembrava che fosse morto qualcuno.

    In effetti, era così.

    Lui era deceduto.

    O così almeno dichiaravano ufficialmente le autorità del Tennessee.

    Aubrey si era opposta fin dall’inizio all’istanza per la dichiarazione di decesso. Non voleva che l’eredità di Josh venisse spartita. Non voleva che si incidesse una data su quell’assurdo obelisco di pietra che torreggiava sulla tomba di famiglia, con tutti gli avi, nel cimitero di Mount Olivet. Non voleva dirgli addio per sempre.

    Però la madre di lui aveva insistito. Voleva una conclusione. Voleva procedere con la propria vita, e voleva che anche Aubrey andasse avanti con la sua. Aveva presentato istanza in tribunale per anticipare la sentenza, e ovviamente il giudice aveva acconsentito.

    Tutti erano pronti ad andare avanti. Ma non Aubrey.

    Svegliandosi, quella mattina, si era sentita poco bene, quasi un presagio della giornata che l’attendeva. Però era l’ultimo giorno prima della pausa primaverile, per cui non poteva mancare, e doveva mostrarsi allegra durante la festicciola per i bambini e assegnargli i compiti per le vacanze.

    Non appena arrivati, gli alunni le si erano affollati intorno facendo un gran baccano. Lei non ci aveva impiegato molto a sintonizzarsi sul loro entusiasmo, dimenticando il suo disagio. Era una bellissima giornata: il sole splendeva in cielo, dalla finestra penetravano i raggi, che formavano strisce di luce sul pavimento variopinto. I bambini si agitavano in mezzo alla luce, dervisci danzanti su uno sfondo giallo. Non tentò neppure di contenerli: mentre li guardava, si sentiva come loro. Per lei, le vacanze significavano molte cose, ma soprattutto volevano dire libertà. Libertà di fare di testa sua per un po’, di esplorare, leggere e raccogliersi in sé stessa.

    Tuttavia, allorché la porta si aprì inaspettatamente, e la preside entrò in classe, le tornò subito la nausea, come a vendicarsi, e la testa iniziò a batterle. Aubrey osservò la donna mentre si avvicinava. Il viso della vecchia amica era teso, le grinze profonde sul labbro superiore, e il suo indice ingiallito picchiettava sulla busta bianca e azzurra ancora integra. Aveva bisogno di limarsi le unghie.

    Cos’è in certi momenti, quelli con la

    M

    maiuscola, che ci spinge a notare i più piccoli dettagli?

    Aubrey ricordò a se stessa la situazione in cui si trovava: i bambini stavano osservando. Cercando di ignorare gli sguardi fissi dei più dotati e precoci tra loro, la cui sensibilità per le emozioni altrui era piuttosto spiccata, prese la lettera e affidò la classe alle abili mani macchiate di nicotina di Linda, dirigendosi verso il bagno del personale per leggerne il contenuto.

    La missiva proveniva da sua suocera. Aubrey immaginava già cosa ci fosse scritto.

    Finse che non le stessero tremando le mani.

    Abbassò il sedile sul water, chiuse a chiave la porta, si sedette e strappò il lembo della busta. Dentro c’era un foglio piegato in tre, sulla cui parte superiore era attaccato un Post-it giallo decorato con margheritine, sopra una frase scritta a mano. Le sembrò appropriato: sua suocera era sempre stata terribilmente priva di qualsiasi forma di tatto.

    Adesso non poteva più negarlo: le mani le tremavano con violenza mentre dispiegava il foglio. Iniziò dal Post-it. La grafia era curata, in un corsivo rotondo da fanciulla di altri tempi.

    Aubrey,

    per tua futura memoria.

    Daisy Hamilton

    Scribacchiate in stampatello, sotto la frase in questione, figuravano le seguenti parole:

    LA MADRE DI JOSH

    .

    Sul serio, Daisy! Come se me ne dimenticassi.

    Il bigliettino era accluso alla stampa di una mail inviata alla suocera dall’avvocato. Colui che, l’anno precedente, aveva contribuito a mettere in moto quella macchina, quando Daisy aveva deciso di presentare l’istanza giudiziaria per far dichiarare ufficialmente morto il figlio.

    Aubrey si toccò la cicatrice sul labbro mentre leggeva.

    Cara Daisy,

    in relazione alle nostre precedenti conversazioni, voglia notare qui acclusa la copia dell’ordinanza del tribunale civile presieduto dal giudice Robinson. Come le spiegavo al telefono, essa autorizza l’ufficio dell’anagrafe a emettere il certificato di decesso di suo figlio, Joshua David Hamilton, in data 19 aprile di quest’anno.

    Ora che l’ordinanza è stata registrata ufficialmente, dovremmo riconsiderare la successione. La polizza assicurativa sulla vita di Josh sarà liquidata non appena ricevuta la dichiarazione, quindi vorrei che lei fosse pronta nel caso in cui intenda contestarla, se è questa la sua intenzione.

    Le farò recapitare la fattura complessiva per il mio onorario fra un paio di giorni.

    Cordiali saluti,

    Rick Sager

    Era ufficiale.

    Ai sensi di legge, Joshua David Hamilton non apparteneva più a questa Terra. Non era più il marito di Aubrey, né il figlio di Daisy.

    Non più.

    All’improvviso a Aubrey mancò il respiro. Sebbene se l’aspettasse da tempo, il fatto di vedere le parole nero su bianco, accompagnate dalla secca nota della suocera, la dilaniò. Le lacrime cominciarono a rigarle le guance, dopodiché accartocciò la lettera sulle ginocchia.

    Daisy era una stronza, lo era sempre stata, e lei aveva ricevuto il messaggio, forte e chiaro.

    Dimentica, vai avanti con la tua vita. E fa’ attenzione, ragazza, perché adesso mi batterò per i soldi dell’assicurazione.

    Ma come si va avanti, se non è nemmeno possibile seppellire il proprio consorte? Dopo cinque anni, non c’erano ancora state risposte convincenti riguardo a quello che era il rompicapo della scomparsa nel nulla di Josh. Un attimo prima lui c’era, l’attimo dopo non c’era più. Puf. Sparito. Scomparso. Rapito, colpito in testa e affetto da grave amnesia; oppure aveva deciso di lasciarla (cosa perfino peggiore dell’idea che il suo cuore aveva smesso di battere). Morto, senza essere morto. Senza il corpo, come potevano esserne sicuri?

    Maledizione a te, Josh.

    Era morto. Aubrey doveva ammetterlo a se stessa. Per giungere a tale conclusione le ci era voluto un anno in cui aveva passato le peggiori giornate immaginabili. Per quanto detestasse crederci, il marito se n’era davvero andato, lo sapeva bene.

    Perché se le cose fossero state altrimenti, lui gliel’avrebbe fatto sapere. Era la sua altra metà. Quella migliore, e responsabile. La persona seria all’interno della coppia.

    Se l’avessero portato via, o fosse scappato… No. Non l’avrebbe mai abbandonata di sua iniziativa.

    Di conseguenza, doveva essere morto.

    Il cerchio che era l’esistenza di Aubrey, il serpente che si mangia la coda all’infinito.

    Lei non conosceva la risposta all’enigma. Sapeva soltanto che 1875 giorni prima Josh l’aveva sollecitata a sbrigarsi a salire in auto, visto che erano già in ritardo per la festa di addio al celibato/nubilato di un suo amico intimo. Ma sulla strada erano stati coinvolti in un tamponamento, quello che le aveva procurato la piccola cicatrice bianca sul labbro superiore, la quale comunque non le rovinava affatto il faccino a forma di cuore. Così erano arrivati nell’albergo con più di un’ora di ritardo, e lei si era offerta di occuparsi della loro registrazione mentre Josh andava a cercare il futuro sposo. Prima però l’aveva baciata con passione, facendole pulsare il taglietto sul labbro all’unisono col cuore. Quindi si era voltato a guardarla con quel mezzo sorriso che la stregava, che la scioglieva dentro da quando lei aveva sette anni e lui nove, allorché l’aveva spinta a terra sul duro asfalto del parco giochi facendola piangere.

    Poi lei aveva ripetuto questa storia tante di quelle volte che ormai era diventata un mantra: alla polizia, agli avvocati, ai giornali, a Daisy. A se stessa.

    La sua vita era tripartita.

    Sette, diciassette e cinque.

    Sette anni: quelli Prima che lui entrasse nella sua vita.

    Diciassette anni: quelli del Durante, in cui lo aveva visto quasi ogni giorno. Anni di gioia, di furore, amore, sesso, matrimonio, patemi e felicità. Di rituali di accoppiamento prepuberale, di angosce adolescenziali, di vaghe consapevolezze da giovani adulti, poi di ineludibile certezza che non potessero vivere separati, con la modesta cerimonia di nozze che ne derivò, e i successivi tre anni di estasi coniugale.

    Cinque anni: quelli del Dopo. Anni di dubbi e perplessità.

    Lei credeva che fossero stati felici. A notte fonda, nel periodo del Dopo, distesa nel letto, sempre dalla propria parte, con addosso la camicia di cotone del marito, che secondo lei aveva ancora un residuo del suo odore, si chiedeva: Non lo eravamo? Non eravamo felici?

    Cos’era la felicità? Da dove veniva? Come la si misurava? Aveva sempre interpretato le piccole attenzioni che Josh le rivolgeva (dai bigliettini con frasi dolci che inseriva nei libri che lei stava leggendo agli spicchi di mela appena tagliati che le portava mentre passava l’aspirapolvere, o al thermos di tè bollente che le preparava di mattina prima che si affrettasse a uscire) come il segno tangibile di essere amata. E anche come la prova che lui fosse felice.

    In seguito, però, era scomparso, e Aubrey aveva dovuto raccogliere i pezzi della loro vita in comune, come i frammenti di uno specchio sparsi sul pavimento.

    Sette, diciassette e poi cinque. Cinque anni di vuoto, solitudine e isolamento.

    Lo Stato del Tennessee se ne infischiava, di questo.

    Tutto ciò di cui si preoccupava erano i fatti, duri e crudi: 1875 giorni prima, Joshua David Hamilton era sparito dalla faccia della Terra, e ormai era trascorso tempo a sufficienza perché, ai sensi della legge, uno sconosciuto lo dichiarasse morto.

    2

    Aubrey sentì la porta della sala docenti aprirsi. Diede un’occhiata all’orologio: era seduta in bagno da quasi un’ora, e la scuola stava chiudendo. Si asciugò gli occhi, lisciò i capelli ribelli, aggiustò la gonna e uscì, trovando Linda che l’attendeva con un’espressione di autentica pietà. La meravigliosa Linda, che non aveva mai creduto alle stupidaggini del procuratore distrettuale e che le aveva restituito il suo lavoro di maestra nel momento stesso in cui era uscita di prigione, sebbene il suo reinserimento avesse causato la perdita di parecchi alunni.

    Aubrey accolse l’abbraccio della vecchia amica.

    «Tutto bene?», chiese Linda.

    «Più o meno», replicò Aubrey, mostrandole la lettera. Mentre la preside leggeva, lei si guardò la mano sinistra. Portava ancora la fede nuziale e l’anello di fidanzamento che Josh le aveva infilato al dito. Il solitario con diamante da mezzo carato, tutto quello che lui aveva potuto permettersi all’epoca, era tuttora una pietra di buona qualità. Luccicava sotto la luce fluorescente, e a Aubrey venne in mente un detto: Quando sorride l’anello, il tuo uomo ti sta pensando.

    Il suo uomo. Se n’era andato. Come poteva pensare a lei? Forse la proteggeva dal cielo? Aubrey aveva creduto in queste cose: Dio e il paradiso, la fede e i salvatori. Aveva avuto speranza.

    Non più. Viveva in purgatorio da troppo tempo per credere in qualcosa, se non nell’inferno per i peccatori.

    Linda ripiegò la lettera e la rimise lentamente nella busta. I suoi occhi castani erano pieni di compassione. «Vedo che tua suocera non è cambiata per niente».

    «Daisy è sempre la solita. Se non altro, nella mia vita c’è una costante».

    «Dubito che cambierà mai. È sempre stata così. Anche quando eravate bambini, era… difficile».

    A volte Aubrey scordava che Linda conosceva la suocera da più tempo di lei. La preside lavorava in quella scuola da più di vent’anni e aveva rapidamente scalato la gerarchia. Era amica della madre di Aubrey, ma non di quella di Josh. Del resto, Daisy aveva poche amiche.

    Linda si avvicinò alla finestra e guardò fuori. La sala docenti affacciava sul parco giochi, nel retro dell’edificio, ora vuoto perché i bambini erano usciti per andare a casa. Era il rifugio perfetto quando i docenti avevano bisogno di una fumatina. Il vecchio Zippo di Linda scattò, e uno spiraglio di vento entrò dal vetro aperto. Aubrey apprezzò l’odore della benzina, e quasi venne di nuovo trasportata indietro nel tempo, ma il successivo scatto del metallo la riportò al presente.

    Linda sbuffò una lunga boccata di fumo azzurro fuori dalla finestra, poi sorrise alla giovane amica.

    «Ben più di una costante, Aubrey. Stasera lavori?».

    Aubrey faceva quadrare i conti col doppio lavoro: maestra alla Montessori e un impegno a part-time da Frothy Joe, una caffetteria vicino a casa.

    Scosse il capo. Aveva la serata libera.

    «Allora perché non usciamo insieme? Da Frothy Joe c’è lo spettacolo gratuito, e dopo andiamo a mangiare qualcosa».

    «Grazie per l’invito, Linda, ma preferisco declinare. Mi serve… tempo».

    Tempo. Una scusa stupida, Aubrey. Aveva già avuto cinque anni, cosa ci avrebbe ricavato da qualche altra ora?

    Linda appoggiò la sigaretta accesa sul davanzale della finestra e prese entrambe le mani dell’amica. «Ascolta, Aubrey. Stai entrando in un territorio pericoloso. Devi sforzarti di andare avanti. Non puoi rinchiuderti ancora. L’ultima volta per poco non ti perdevamo. Se stasera non te la senti di cenare fuori, potrei venire da te e prepararti qualcosa».

    Sola, sola e sola. Voglio restare da sola.

    Aubrey scosse la testa. Aveva la voce ancora incerta, ma inspirò a fondo e abbozzò un sorriso forzato. «Non c’è nessun problema, Linda. Giuro. Farò un bagno, mi verserò un bicchiere di vino e mi rilasserò. Stasera non c’è niente di diverso dagli ultimi cinque anni di serate inutili. Josh non c’è. Questo è soltanto un pezzo di carta, così sua madre può ottenere la chiusura. Non significa nulla di più».

    «Ha intenzione di impugnare l’assicurazione sulla vita».

    «Che lo faccia. Tanto non voglio più i soldi di Josh».

    Linda parve dubbiosa, ma essendo una buona amica si limitò ad abbracciarla, calmandola sul suo petto. La nube di fumo della sigaretta si depositò sulla camicetta di Aubrey, che quasi soffocò.

    Quindi tornò in aula, attraversando i corridoi ormai silenziosi. Il mantra le risuonava nelle orecchie.

    Sola, sola e sola.

    Prese la borsetta con le chiavi, e si diresse verso il parcheggio. L’Audi Quattro di terza mano che lei e Josh avevano danneggiato nel pomeriggio della sua scomparsa era piazzata malinconicamente nel posteggio. Doveva trovare un’auto nuova, quella lì aveva iniziato a perdere olio il mese prima, e lei non aveva i soldi per il meccanico. Però le scocciava disfarsene. Josh era così orgoglioso quando l’avevano comprata, talmente contento di aver concluso un affare del genere. Lei aveva fatto riparare il danno al paraurti anteriore e al cofano, poi aveva provveduto al cambio regolare dell’olio e alla rotazione delle gomme. A parte la piccola perdita, l’Audi filava ancora bene, e si avviava sempre senza problemi, era decisamente affidabile.

    Eppure, era un ricordo incessante.

    Si mise alla guida, fissando il contachilometri.

    La morte è una cosa inevitabile. Aubrey lo sapeva. Le persone sono destinate a morire, e la loro anima va dove credono che vada, mentre una nuova vita prende il loro posto nel mondo. Ascesa e declino. Yin e yang. Un giorno perirà anche la sua auto, e lei dovrà recidere un altro legame con la sua vita precedente.

    Forse era proprio quello che stava aspettando. Magari il fatto che Josh fosse dichiarato morto l’avrebbe aiutata a trovare la forza interiore per andare avanti, finalmente. Visto che lo Stato era d’accordo, avrebbe potuto piangerlo in modo adeguato e affrontare il lutto, per risvegliarsi a una nuova vita, ad altri giorni.

    Come se esistesse una maniera per superare tutto questo.

    La sua abitazione si trovava a dieci minuti dalla scuola. Riuscì ad arrivarci senza dimenticare di fermarsi a tutti gli Stop.

    La casa sulla West Linden Avenue appariva in cattivo stato in alcuni punti, comunque non era mai apparsa perfetta o verniciata di fresco. Aubrey faceva quel che poteva, affidandosi alle persone intorno a lei per le faccende che non riusciva a gestire da sola, ma il rigido inverno aveva ormai scolorito le imposte e strappato le ultime vestigia di vernice dalle grondaie, sicché l’esterno nel complesso appariva logoro e trasandato. Prima che finisse l’estate, occorreva ripitturare.

    Era stata costretta a rinunciare alla loro splendida casa sulle eleganti e frondose Green Hills per pagare le parcelle dei legali. La dimora di Woodmont era quella che avevano sognato e per cui avevano risparmiato e fatto sacrifici. Un finanziamento a tasso zero l’aveva resa abbordabile, se non proprio accessibile, per i loro miseri stipendi. Una casa in cui poter crescere, aveva detto Josh, alludendo a un futuro ricco di amore, risate e magari scalpiccio di piccoli piedini.

    Il giorno in cui avevano chiuso l’affare erano raggianti. Poi si erano trasferiti, senza che nemmeno fosse arredata del tutto, c’era solo il necessario per far sembrare che qualcuno la occupasse. La prima sera avevano mangiato una pizza e bevuto una bottiglia di Korbel, il miglior champagne che potevano permettersi, cioè l’unico, e avevano acceso il camino anche se non faceva ancora freddo. Avevano fatto l’amore davanti al fuoco, addormentandosi nel mezzo della loro festa.

    Erano contenti.

    Adesso la loro casa apparteneva a qualcun altro, mentre Aubrey abitava nella casetta malconcia di West Linden, dall’altra parte della superstrada, poiché la polizza assicurativa sottoscritta da Josh era vincolata al ritrovamento del corpo, così che era stata obbligata a vendere il loro sogno per risanare i conti.

    Traslocare le aveva spezzato il cuore. Benché sapesse che lui era morto, una vocina dentro di lei le sussurrava: Se Josh ritorna, non saprà dove trovarti.

    Tuttavia, si presume che gli angeli ci seguano ovunque. Ci sorveglino, ci proteggano, ci curino.

    Qualcuno avrebbe indirizzato Josh, gliel’avrebbe detto.

    Oppure no.

    Sulla strada che aveva imboccato, guardare avanti non era l’aspetto più difficoltoso; lo spettro incombente di un errore, di fare qualcosa che avrebbe reciso il legame con la vita precedente aveva soffocato tutte le altre ansie e preoccupazioni.

    Ma quel giorno tornare a casa era diverso. Si trattava di accettazione? Di dolore, o di senso di libertà?

    Non era in grado di formularlo a parole, non ci provò neppure, contravvenendo ai consigli della sua psicologa, che le aveva detto di accettare qualunque emozione le capitasse di provare, esaminandola minuziosamente, per poi lasciarla andare, senza farsi trascinare dalla tristezza. Una tecnica utile per chi era capace di staccarsi dalle emozioni continue e divoranti che derivavano dalla perdita di un marito.

    Imboccò il vialetto in cemento, spense l’auto e si diresse verso la cucina, posando la borsetta su un mobile prima di varcare la soglia.

    Udì il raspare delle unghie e il gioioso abbaiare di Winston, il loro (suo) Weimaraner, che scodinzolava in cucina. Poi il cane tuffò il muso umido nella sua mano e dimenò l’elegante corpo grigio tra le sue gambe, una consolazione calda e decisa. Senza Winston, non sapeva se ce l’avrebbe fatta a tirare avanti. Più che una compagnia l’animale era diventato l’uomo della sua vita, un marito platonico a quattro zampe.

    Si mise in ginocchio per attirarlo ancor più vicino.

    «Come sta il mio cucciolo?», lo salutò, grattandolo sulle orecchie vellutate. Lui inarcò il collo per il piacere e ricambiò le attenzioni dandole una leccatina sul naso, quindi andò verso la porta e si sedette in attesa, coi suoi occhioni blu contenti.

    Era sempre stato un cane felice.

    Lo avevano trovato in una scatola sul ciglio di una strada, la domenica in cui erano andati a fare una gita in campagna, giù per la Highway 96 fino alla contea di Williamson. Prati, erba verde, mucche, e un cucciolo. Aubrey si era accorta della piccola coda grigia che spuntava dal cartone. Josh aveva accostato per osservare meglio. Il cucciolotto, magro e stanco, li aveva guardati con una tale fiducia che non ebbero bisogno di discutere se tenerlo o no. Lo avevano infagottato e portato a casa, nutrito, lavato e educato, ricevendo in cambio la sua adorazione. Gli avevano dato il nome in onore di Churchill, l’idolo d’infanzia di Josh.

    Winston sentiva la mancanza del suo padrone. Ogni tanto Aubrey lo chiamava senza che lui venisse, e sapeva dove l’avrebbe trovato: nello sgabuzzino della lavatrice, accoccolato su un vecchio maglione stracciato di Josh, inconsolabile.

    Non poteva biasimarlo. Se avesse potuto scegliere, anche lei sarebbe andata a dormire con quel maglione, per non svegliarsi più.

    Fece uscire Winston nel cortile sul retro, salì i pochi gradini fino alla camera da letto, si cambiò e infine si allacciò le scarpe da ginnastica. Una corsetta le avrebbe schiarito le idee.

    Tornò al pianterreno e aprì la porta scorrevole. «Winston, vuoi correre?».

    A volte il cane si accodava, alte volte no. Lei lo lasciava scegliere.

    Al momento era impegnato in una lotta con uno dei suoi giocattoli di gomma. Alzò lo sguardo, e lei avrebbe potuto giurare di averlo visto fare spallucce. Per quel giorno aveva deciso di rimanere in cortile.

    Gli lasciò aperta la porticina dell’uscio sul retro affinché potesse rientrare e uscì, chiudendo la porta d’ingresso con la chiave che poi allacciò alle stringhe della scarpa. Sempre diligente, lei. Iniziò a ritmo sostenuto, lasciando che il movimento automatico dei piedi la trasportasse verso l’oblio.

    Per i primi due anni dalla scomparsa di Josh, dopo la fine delle indagini e dopo che l’avevano scagionata, era solita tornare a casa, far uscire Winston e aprirsi una bottiglia di vino. Quando aveva iniziato ad aprire anche una seconda bottiglia prima di coricarsi, chiudendosi in sé stessa al punto da sentire la mancanza del lavoro, e aveva avuto il suo piccolo incidente, era stata costretta a ripensare la propria vita.

    L’opinione prevalente? Stava cercando di attutire il dolore.

    Era una sofferenza profonda, che doveva essere attutita. Ma non serviva niente. La psicoterapia, le sbornie, il lavoro, le amiche, il cane, l’occasionale ideazione del proprio suicidio: nulla di tutto questo bastava a ottundere il dolore e concederle il riposo notturno. Per poter essere presente a se stessa di giorno. Per smettere di percepire con ferocia la mancanza del marito.

    Ci voleva un’evasione. Doveva trovarsi qualcosa da fare. Affogare letteralmente i propri dispiaceri non funzionava. Non serviva a un tubo, e Josh non ne sarebbe stato contento. La sua approvazione contava molto, per lei, in tutte le cose. Aubrey voleva la sua ammirazione, anche da morto.

    Così, si era dedicata alla corsa.

    Aveva percorso quasi due chilometri e si era stabilizzata sul proprio passo. Non pianificava mai in anticipo il tragitto, lo cambiava a seconda del livello di energia e di paranoia della giornata. Dopo la breve permanenza in carcere e le orribili storie che aveva sentito, ne sapeva abbastanza per variare le proprie abitudini.

    Oggi il fiato le era amico, era la sua salvezza. Le conferiva uno scopo, le rigenerava lo spirito. Le fugava le preoccupazioni. Aubrey lasciava che l’aria le entrasse nei polmoni mentre spingeva più forte, su per le ondulate colline del quartiere, con le gambe che mulinavano e il sudore che si asciugava nell’aria fresca, finché costeggiò la scuola per procedere verso le nuove costruzioni, i mostruosi palazzi che andavano a rimpiazzare le villette sui terreni della Vanderbilt University. Girò attorno al campus. Ormai aveva fatto otto chilometri, e il cielo si stava imporporando per l’imminenza del tramonto. Doveva rientrare, ma volle proseguire per altri dieci minuti, quindi deviò attraverso Blackmore e penetrò nel Dragon Park, dove s’imbatté nell’albero.

    Il loro albero.

    Si arrestò di botto, stupefatta dalla sorpresa. Non aveva intenzione di arrivare lì. Aveva cercato di scappare dal passato, invece ci si era precipitata a testa bassa.

    L’albero era una quercia secolare, testimone di gran parte delle storie d’amore della città. La corteccia nodosa era stata strappata via e sostituita da una fitta rete di incisioni, a mo’ di tatuaggio. Non c’era neanche un centimetro libero almeno fino a un metro e ottanta da terra.

    Aubrey si voltò per tornare indietro. Non doveva guardare. Non lo voleva nemmeno vedere. Ma un sottile desiderio la trattenne, portandola verso il lato del tronco esposto a nord.

    Lì dov’erano incise nella polpa della pianta, intrecciate dentro un cuore sghembo, le lettere JDH

    + AMT = VAE

    .

    Josh David Hamilton più Aubrey Marie Trenton uguale Vero Amore Eterno.

    Le aveva intagliate lui la prima volta, quando avevano rispettivamente tredici e undici anni. Per il loro anniversario ci tornavano ogni anno, e Josh le incideva di nuovo, sempre più in profondità. Sembrava che, per qualche motivo, gli altri innamorati rispettassero il loro marchio e non tentassero di sovrapporci nuove incisioni.

    Fece scorrere le dita sulle lettere e si concesse un momento di pausa. Uno di quelli con la

    M

    maiuscola. Non c’era bisogno che lo sapesse nessun altro. Non era obbligata a riferirlo alla psicologa. Poteva tenerla per sé, quest’ultima immersione nel passato, ignorando la pugnalata al cuore.

    Niente lacrime. Non poteva permetterselo. Ma poteva concedersi di ripensare a quella notte, la più lunga della sua vita: quella in cui Josh era scomparso.

    3

    Aubrey

    Cinque anni prima

    L’incidente.

    Sulla strada verso la festa, visto che aveva fretta, Josh tamponò una berlina nera guidata da un anziano. Aubrey non avrebbe mai dimenticato l’espressione sul volto dell’uomo, che uscì dall’auto sbraitando contro il marito. La sua rabbia la indusse a rimpicciolirsi sul sedile, ma subito dopo la preoccupazione per Josh e il danno alla loro auto la spinse a uscire per opporsi all’uomo.

    La sua berlina era appena ammaccata, mentre il paraurti della loro preziosa Audi era rientrato e penzolava verso sinistra, come se l’impatto lo avesse depresso. Josh stava bene a parte qualche livido, e anche lei stava bene, fatta eccezione per un frammento di vetro del finestrino del passeggero che nell’urto le aveva tagliuzzato il labbro superiore. Suo marito la medicò immediatamente, chiudendo la piccola ferita con due punti e un cerotto a farfalla che teneva sempre nel kit di pronto soccorso. Avrebbe dovuto ascoltarlo e andare da un chirurgo plastico per risolvere la cosa, ma non ne aveva voluto sapere: Josh era al terzo anno di medicina, voleva diventare medico di base, forse chirurgo, ancora non aveva deciso. Due punti di sutura erano una cosa banale. Sembrava sbagliato, perfino ipocrita, non approfittare della sua competenza.

    Sistemata la questione incidente, inviarono un messaggio agli amici per comunicare che stavano arrivando, poi chiamarono un taxi per raggiungere l’Opryland Hotel. In ritardo e impaziente, Josh la lasciò alla reception con un bacio e si affrettò a raggiungere la festa di addio al celibato. Lei si diresse timidamente alla festa per le ragazze, si sedette in una poltroncina in un angolo della stanza e si massaggiò piano il collo. L’incidente l’aveva messa di malumore. Comunque disprezzava da sempre l’ilarità forzata del tradizionale addio al nubilato; i gridolini delle ragazze che concupivano un culturista spalmato d’olio con addosso un ridicolo perizoma, il quale si dimenava davanti ai loro visi coinvolgendole in uno strano gioco di contatto: lui ti tocca e tu devi allungargli una banconota.

    Aubrey era imbarazzata dagli sguardi che attiravano nella sala, tra l’impietosito o l’invidioso. Conosceva quelle ragazze, sapeva che, in fondo, ognuna era scettica e avrebbe voluto trovarsi da un’altra parte. Ma per qualche motivo si trovavano tutte nel retro del ristorante, ubriache, attorno a un uomo mezzo nudo come un branco di lupe affamate, a lanciare qualche banconota da un dollaro e a fingere di divertirsi come mai nella vita.

    Lo spogliarellista si avvicinò a Aubrey, che d’istinto si ritrasse e poi gli lanciò a malincuore un dollaro: per niente al mondo gli avrebbe permesso di toccarla col suo fianco sudaticcio. Quando l’attenzione si spostò verso la donna successiva, lei si allontanò con discrezione per eclissarsi nel bagno delle signore. Si rinfrescò il viso e, specchiandosi, vide i suoi grandi occhi castani e la massa indomabile dei ricci che le incorniciavano il viso come una Medusa. La sua parrucchiera le aveva consigliato lo shampoo lisciante, ma era stato un fiasco. Nemmeno dopo un’ora di piastra bollente i suoi ricci si avvicinavano a qualcosa di simile a una cascata di capelli lisci e vellutati. Aveva buttato quindici dollari. Ripensandoci, si mordeva le mani: avrebbero avuto bisogno di ogni centesimo a loro disposizione per riparare l’auto.

    Le si era gonfiato il labbro e i punti sanguinavano leggermente sotto il cerotto a farfalla, come un binario del treno color seppia. La gente pagava un sacco di soldi per farsi gonfiare le labbra così. Non sapevano che un banale incidente automobilistico avrebbe fatto risparmiare migliaia di dollari in chirurgia plastica.

    Aubrey tornò di là. Le grida acute la immobilizzarono subito. Adesso lo spogliarellista molestava Janie, la futura sposa, che danzava e volteggiava tra le sue braccia. Santo cielo, doveva essere proprio ciucca. L’unica cosa che interessava a quella combriccola era sbronzarsi il più possibile, e in fretta, e pareva proprio che l’alcol stesse facendo il suo effetto. Si erano lanciate a capofitto sul cocktail speciale della festa: piña colada rosa. Aubrey era allergica al cocco, per cui rifiutava cortesemente ogni volta che i camerieri le passavano davanti con quell’intruglio sui vassoi.

    Eppure c’era qualcosa che voleva. Se fosse scomparsa per un lasso di tempo più lungo non se ne sarebbe accorto nessuno. La festa non era per lei, chi avrebbe avvertito la sua mancanza?

    Raggiunse l’ingresso, dirigendosi verso il bar più tranquillo che vide. Il complesso dell’Opryland era enorme. All’interno c’erano diversi bar e ristoranti, tutti situati al pianterreno lungo un atrio che sembrava un giardino, e ciascuno con un tema specifico; la crisi di identità commerciale era evidente. Non si può essere

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