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La cosa più bella che ho
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E-book432 pagine6 ore

La cosa più bella che ho

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Info su questo ebook

«I suoi romanzi creano dipendenza.»
Globe and Mail

Dall’autrice del bestseller Dieci piccoli respiri

Amber Welles ha venticinque anni e un gran bisogno di uscire dagli stretti e rassicuranti confini della cittadina dell’Oregon in cui è cresciuta. Quando finalmente, armata dei risparmi di due anni, può partire alla scoperta del mondo, è pronta a tutto. Tranne che a morire a Dublino. Eppure, se non fosse stato per il coraggio di un estraneo, sarebbe finita proprio così. Amber gli deve la vita, ma il ragazzo scompare prima che lei possa ringraziarlo. River Delaney, ventiquattro anni, è molto scosso. Nessuno doveva farsi male. Ma poi è arrivata quella turista americana. Non poteva lasciarla morire, ma non poteva rischiare di essere identificato sulla scena, quindi è scappato. È tornato alla sua quotidianità, a gestire il pub di famiglia. Ma la vita di tutti i giorni sta diventando sempre più complicata, per colpa di suo fratello Aengus e delle sue frequentazioni sbagliate. Quando la ragazza americana lo rintraccia, River si accorge di essere pericolosamente attratto da lei. E averla intorno è un rischio che non è disposto a correre. La cosa migliore da fare sarebbe allontanarla, ma non è facile respingere qualcuno che ossessiona i tuoi pensieri…

Autrice bestseller di USA Today
Oltre 50.000 copie in Italia

«L’autrice, con grande maestria, induce il lettore a chiedersi fino all’ultimo come andrà a finire tra i protagonisti della sua storia. La cosa più bella che ho è un romanzo stupendo sull’istinto di combattere per amore e il bisogno di scapparne via.» 
New York Journal of Books

«Un altro trionfo. I romanzi di K.A. Tucker creano dipendenza.»
Globe and Mail

«I libri di questa serie sono come una droga. I lettori di K.A. Tucker divoreranno questa storia appassionata e appassionante.»
Booklist
K.A. Tucker
Vive vicino a Toronto con il marito e le due figlie. I suoi romanzi, inizialmente autopubblicati, grazie al grande successo sono stati acquisiti da Simon & Schuster, uno dei maggiori gruppi editoriali di lingua inglese. La Newton Compton ha pubblicato Dieci piccoli respiri, Una piccola bugia, Quattro secondi per perderti e Cinque ragioni per odiarti, anche raccolti in un unico volume, 99 giorni, La ragazza che amava la pioggia e La cosa più bella che ho.
LinguaItaliano
Data di uscita4 mag 2017
ISBN9788822708496
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    Anteprima del libro

    La cosa più bella che ho - K.A. Tucker

    1559

    Titolo originale: Chasing River

    Copyright © 2015 by Kathleen Tucker

    first published in English language by Atria Books, a division of Simon & Schuster, Inc. 

    All rights reserved including the right to reproduce this book or portion thereof in any form whatsoever

    Traduzione dall’inglese di Daniela Palmerini

    Prima edizione ebook: maggio 2017

    © 2017 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-227-0849-6

    Realizzazione a cura di The Bookmakers Studio editoriale, Roma

    www.newtoncompton.com

    K.A. Tucker

    La cosa più bella che ho

    Newton Compton editori

    Indice

    Nota dell’autrice

    Capitolo 1. River

    Capitolo 2. Amber

    Capitolo 3. River

    Capitolo 4. Amber

    Capitolo 5. River

    Capitolo 6. Amber

    Capitolo 7. River

    Capitolo 8. Amber

    Capitolo 9. River

    Capitolo 10. Amber

    Capitolo 11. River

    Capitolo 12. Amber

    Capitolo 13. River

    Capitolo 14. Amber

    Capitolo 15. River

    Capitolo 16. Amber

    Capitolo 17. River

    Capitolo 18. Amber

    Capitolo 19. River

    Capitolo 20. Amber

    Capitolo 21. River

    Capitolo 22. Amber

    Capitolo 23. River

    Capitolo 24. Amber

    Capitolo 25. River

    Capitolo 26. Amber

    Capitolo 27. River

    Capitolo 28. Amber

    Capitolo 29. River

    Capitolo 30. Amber

    Capitolo 31. River

    Capitolo 32. Amber

    Capitolo 33. River

    Capitolo 34. Amber

    Capitolo 35. River

    Capitolo 36. Amber

    Capitolo 37. Amber

    Epilogo. Amber

    Elenco delle cose da fare in viaggio

    Ringraziamenti

    A Lia e Sadie.

    Alle avventure che vi aspettano.

    Nota dell’autrice

    La storia dell’Irlanda è da sempre popolata di disordini civili, così come dal desiderio di protezione dell’identità religiosa e dell’acquisizione di un’indipendenza politica, già a partire dal sedicesimo secolo, quando le numerose guerre contro Scozia e Inghilterra decimarono quasi la metà della popolazione irlandese.

    È in questo periodo che la settaria divisione fra la popolazione irlandese cattolica e quella inglese protestante si fece più profonda, poiché i britannici iniziarono a imporre durissime leggi con le quali intendevano punire gli irlandesi per il loro supporto al re cattolico Giacomo ii Stuart, il quale aveva tentato di sottrarre il trono al re protestante Guglielmo d’Orange, senza riuscirci.

    La stragrande maggioranza degli irlandesi era di credo cattolico e queste leggi la spogliarono dei diritti civili, fra i quali quello a possedere proprietà, frequentare le scuole e professare il credo di appartenenza. Già nel 1778 i protestanti si erano impadroniti del novantacinque per cento delle terre d’Irlanda.

    Nonostante le insurrezioni, nel 1800, i Parlamenti britannico e irlandese approvarono l’Atto di Unione che avrebbe fuso il Regno di Gran Bretagna e quello d’Irlanda nel Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda. Le economie della Gran Bretagna e dell’Irlanda del Nord-Est crebbero rapidamente grazie ai processi di industrializzazione per buona parte del diciannovesimo secolo, mentre, nel resto dell’Irlanda, tale risultato non si verificò. Per sopravvivere, il popolo dipendeva quasi totalmente da una materia prima, la patata, così quando intorno al 1840 una devastante peronospora portò al collasso una fetta consistente del Paese, un milione di persone morì di fame e per varie malattie. Un altro milione emigrò. Ma fu l’inerzia della Gran Bretagna, la quale aveva adottato una politica di disinteresse, più preoccupata dell’economia che delle vite umane, a esacerbare una rapporto già estremamente precario.

    La seconda metà del diciannovesimo secolo e la prima parte del ventesimo videro il fallimento di diverse rivolte, poiché gli irlandesi proseguivano nella loro lotta di liberazione dalla morsa dell’Inghilterra. Il lunedì di Pasqua del 1916, a Dublino, duemila volontari irlandesi organizzarono una sommossa e proclamarono l’Irlanda repubblica. I disordini durarono una settimana, alla fine della quale i volontari irlandesi furono obbligati alla resa. Le esecuzioni, che inevitabilmente seguirono, non fecero che alimentare il desiderio di indipendenza.

    Alle elezioni del 1918, il Sinn Féin, il Partito rivoluzionario irlandese, ottenne la maggioranza dei seggi. I membri del Sinn Féin si rifiutarono di sedersi in un Parlamento ospitato in Inghilterra, stabilirono il proprio a Dublino e ratificarono il proclama della Rivolta di Pasqua con la quale si dichiarava che l’Irlanda era ormai una repubblica. La situazione, tesissima, si trasformò in vera violenza tra esercito britannico e l’Irish Republican Army (l’ira, fondata da Michael Collins). L’episodio sarebbe passato alla storia come Domenica di sangue.

    Per mesi l’ira si servì della guerriglia contro le forze britanniche, fino alla proclamazione di una tregua, nel 1921. I Parlamenti britannico e irlandese firmarono un trattato e giunsero all’identificazione di ventisei contee nel sud e nell’ovest del Paese, che denominarono Stato Libero d’Irlanda, membro del Commonwealth britannico.

    Il trattato, tuttavia, non trovava concordi tutti i membri dell’ira, in quanto molti di questi continuavano a richiedere la piena indipendenza dal dominio britannico. L’ira si divise e, tra le due fazioni, scoppiò la guerra civile.

    Momenti di violenza si susseguirono, di tanto in tanto, fino al 1937, anno in cui sotto la guida di Éamon de Valera, lo Stato Libero fu abolito, si stese una seconda Costituzione e l’Irlanda formò un proprio governo. Nel 1949 venne proclamata la nascita della Repubblica d’Irlanda e fu reciso ogni tipo di legame con la Corona inglese.

    Tuttavia, il Regno Unito continuava a mantenere il dominio su sei contee nell’Irlanda del Nord, una realtà che lasciava insoddisfatti i sostenitori repubblicani. Gli anni dal 1969 al 1998 sono passati alla storia come The Troubles: le frequenti e sanguinose forme di protesta fra la Provisional ira (pira), di recente formazione, i gruppi lealisti paramilitari britannici e le forze di sicurezza britanniche (esercito e forze di polizia) causarono migliaia di morti, fra i quali molti civili innocenti.

    Nel 1997, la pira proclamò il cessate il fuoco. Nel 1998, il popolo dell’Irlanda del Nord votò l’Accordo del Venerdì Santo, promuovendo diversi accordi politici. La pira lo sostenne.

    In seguito al cessate il fuoco del 1997, si formarono diversi gruppi dissidenti repubblicani, i quali si rifacevano tutti alla denominazione ira. Uno di questi, il più attivo e importante, noto come Real ira (rira), prende di mira soprattutto le forze di sicurezza britanniche, con l’intento di causare danni economici. Questo gruppo è responsabile di numerosi attentati al Police Service of Northern Ireland (psni), portati a termine con l’ausilio di bombe, pistole e granate.

    Tutti i gruppi riconducibili all’ira vengono considerati, dalla Repubblica d’Irlanda, associazioni illegali. Da molto tempo, ormai, Regno Unito e Stati Uniti considerano l’ira un’organizzazione terroristica e la maggior parte dei cittadini irlandesi oggi non sostiene il suo operato.

    L’ira è stata anche coinvolta in atti di giustizia spicciola ai danni del crimine organizzato e dei narcotrafficanti, sfruttando estorsione e violenza per riaccendere faide poi sfociate in omicidi. È il caso di Dublino. Molti considerano questo particolare gruppo dell’ira niente di più che un’altra gang violenta.

    Un fiume può essere deviato, la sua acqua raccolta,

    il suo corso naturale interrotto.

    Ma la sua corrente scorrerà sempre e solo in una direzione.

    Capitolo 1

    River

    Cammino frettolosamente in mezzo alla folla urtando uomini e donne senza nemmeno chiedere scusa. Cerco di non perdere di vista Aengus e di non fargli capire che lo sto pedinando. È scaltro e ha fatto la sua parte per rendermi le cose difficili, lo sguardo granitico che saetta da una parte all’altra mentre attraversa la calca del mattino. Indossa pantaloni color tabacco, una t-shirt bianca con colletto e una coppola di tweed beige calata sugli occhi per non farsi riconoscere: potrebbe passare per un impiegato o un rappresentante. O magari per il manager di uno degli esclusivi negozi di Grafton Street. Per una persona responsabile. Una persona rispettabile.

    Una persona che non è.

    Non è tanto lui a insospettirmi. È quella tracolla di pelle nera che tiene stretta a sé, come per evitare di farsela scippare o per non urtare un lampione o qualche passante che si affretta a prendere l’autobus.

    È la macchia di sudore sulla sua schiena, nonostante l’aria frizzante di questa mattina dei primi di giugno.

    È il modo in cui ha guardato l’ora tre volte nell’arco di venti metri.

    Il mio stomaco ribolle di spiegazioni. Tutte negative.

    Nulla di buono è venuto dalla persona di Aengus da quando il carcere di Portaloise lo ha sputato fuori, quattro mesi fa. Sei anni dentro il carcere di massima sicurezza di Dublino non hanno fatto che rafforzare i suoi legami e infiammare la sue convinzioni. Hanno annerito la sua anima. Si sono presi un ragazzo di ventidue anni, un simpatizzante repubblicano irlandese, e hanno buttato fuori un ispirato criminale.

    Ed eccomi qui, a trenta passi di distanza, a seguirlo attraverso i cancelli del St. Stephen Green, solo pochi istanti dopo che la sicurezza li ha aperti per la giornata, come se tutto fosse stato cronometrato alla perfezione. E il cenno del capo che Aengus rivolge a una delle guardie mi sembra stranamente familiare.

    Sono anni che non entro nel principale parco di Dublino. Non è cambiato molto: è ancora un’enorme area di sentieri serpeggianti e giardini, un piccolo eden in una città piena di movimento. In questo momento l’atmosfera è tranquilla, il parco sembra risvegliarsi dopo una notte di solitudine, non ci sono visitatori. C’è un po’ di nebbia, perché il sole pallido non è ancora abbastanza alto da scaldare il terreno. Ma questa pace non durerà a lungo.

    Aengus si volta e io mi rifugio in fretta dietro all’albero più vicino. Se scorgerà anche la minima ombra, cambierà idea e si dirigerà verso un bivio, sparendo dietro la curva. Lo seguo con attenzione, finché non abbandona il sentiero e inizia ad arrancare sul prato aperto. Fra poche ore questo posto si riempirà di lavoratori e persone sdraiate al sole o sedute a leggere all’ombra del verde. Qualsiasi cosa consenta loro di fuggire dal lavoro monotono e godersi un po’ di aria fresca.

    Aengus guarda di nuovo l’ora mentre, con passo deciso, si dirige velocemente verso una quercia circondata da un nastro bianco e blu, come a indicare il pericolo che l’albero possa cadere. Noto, però, che questo perimetro si estende ben oltre i rami più lunghi, occupando metà dello spazio verde. Questo mi spinge a pensare che quel nastro non abbia niente a che fare con un albero pericolante.

    «Che cazzo stai facendo, Aengus…?», borbotto, toccandomi la mascella nel punto in cui mi ha colpito la notte scorsa, dopo aver spalancato la porta della sua stanza e avermi sorpreso a origliare una sua telefonata. Ho sentito solo qualche parola, non potrei nemmeno tirare a indovinare ciò di cui stesse parlando, ma è bastato perché mi tirasse un pugno, prima, e mi facesse il terzo grado, dopo.

    Quando l’ho sbattuto contro il muro (perché, a quanto pare, la violenza è la nostra principale via di comunicazione) e gli ho ricordato che è appena uscito di prigione, l’unica spiegazione che mi ha dato, spontaneamente, è stata che bisogna dare un avvertimento, che nessuno si farà male e che non devo aprire il becco.

    Aengus guarda l’ora, di nuovo. Si accuccia e apre la tracolla.

    Sono troppo assorto in ciò che sta facendo per restare in guardia, così, quando all’improvviso alza la testa, non riesco a fuggire altrettanto in fretta. Uno sguardo di pietra si incolla su di me per un istante, congelandomi lì dove mi trovo.

    È la resa dei conti.

    Scuoto la testa, vorrei che potesse ascoltare i miei pensieri. Vattene, fratellone. Qualsiasi cosa tu stia per fare… non farla!.

    Le sue mani si fermano all’interno della borsa. Per un attimo credo che mi abbia sentito, che finalmente stia ascoltando. Che la mia presenza qui lo abbia fatto desistere dall’accorciare quella corda che sembra così impaziente di farsi scivolare intorno al collo.

    Che sciocco che sono! Davvero. Aengus non è mai stato incline al ragionamento.

    Inspiro a forza, l’aria sibila fra i denti stretti. Lo osservo mentre, con estrema attenzione, posa sull’erba il lungo tubo cilindrico, e la paura mi invade.

    Cielo, Aengus! Stavolta ti sei spinto troppo oltre.

    Afferra la tracolla balzando in piedi, si precipita verso di me. Ha il cellulare in mano e si guarda intorno come a esaminare lo spazio vuoto che ci circonda. Mi metto in posizione e mi preparo a scontrarmi con lui, rapido e malevolo come il morso di una vipera.

    «Sei impazzito?», urlo di rabbia non appena è a portata d’orecchio.

    L’espressione dei suoi occhi, del colore di un avocado talmente maturo da aver iniziato a marcire, indicherebbe proprio questo.

    «Avevi detto che nessuno si sarebbe fatto male».

    «Per caso vedi qualcuno che si sta facendo male?», ringhia oltrepassandomi, mentre pigia i tasti del cellulare. «Hai esattamente sessanta secondi per toglierti di mezzo, River». Inizia ad allontanarsi di corsa, senza aspettare di vedere se lo seguo.

    Perché l’ho sempre fatto.

    Cazzo! Una scarica di adrenalina mi colpisce nel profondo. Guardo l’orologio: un minuto. Anzi, di meno, adesso. Grossomodo cinquantacinque secondi. Sento i muscoli delle cosce contrarsi, pronti a farmi volare all’inseguimento di Aengus, perché non posso fare altro. Ma tante cose possono accadere in soli sessanta secondi. La mia coscienza mi tiene a terra, i miei occhi passano al setaccio i sentieri circostanti alla ricerca della presenza di qualche anima. In lontananza, qualcuno è intento a fare jogging, ma è talmente distante che non riesco a determinare con certezza se si tratti di un uomo o una donna. Oltre a questa persona non vedo nessun altro.

    Guardo di nuovo l’orologio, il mio battito cardiaco che raddoppia di velocità a ogni secondo che passa. Ne rimangono solo quarantacinque prima che io possa apparire colpevole a chiunque mi troverà qui. A meno che io non faccia il nome di Aengus, cosa che non accadrà mai, sono spacciato.

    Devo correre via.

    Tranne… che quel perimetro non è abbastanza largo. E se qualcuno supera la curva e attraversa il prato? Ma cosa posso fare, veramente?

    Trenta secondi. Gocce di sudore mi scendono lungo la schiena. Devo sparire. Adesso.

    Mi volto con l’intenzione di ripercorrere la strada da cui sono arrivato, ma dei movimenti catturano il mio sguardo. Davanti ai miei occhi si sta svolgendo proprio la scena che avevo temuto, e il mio stomaco sobbalza: una ragazza sta correndo sul prato, gli occhi che si spostano dal polso alla cartina aperta che tiene in mano, il sopracciglio alzato in segno di preoccupazione.

    È certamente una turista.

    E certamente è in ritardo per qualcosa.

    E si sta dirigendo esattamente verso il raggio di esplosione della bomba tubo che sta per scoppiare.

    Non ho tempo, non ho possibilità di scelta.

    Corro. Corro alla velocità massima con cui le mie gambe riescono a portarmi.

    Capitolo 2

    Amber

    L’ arco dei fucilieri è da questa parte, credo…

    Mi sono sempre considerata una persona dall’ottimo senso dell’orientamento. Ma poi mi sono imbarcata in questa fantastica avventura per trovare me stessa e… be’… mi sono trovata, d’accordo. Ho girato in lungo e in largo intorno agli stessi isolati e ho imboccato la direzione sbagliata talmente tante volte che ho capito che sono davvero negata per leggere le cartine geografiche. Se non fosse per il piccolo ciondolo del braccialetto - una bussola, dono dello sceriffo, sempre preoccupato per la sicurezza della figliola venticinquenne - la metà delle volte non saprei nemmeno da che parte è il nord.

    Ma ora credo che nemmeno la bussola possa essermi d’aiuto. La brochure dell’agenzia di viaggi dice che si partirà alle sette e trentacinque in punto, cioè adesso. Guardo l’ora e mi assale un senso di agitazione. Le sette e trentatré. Sono stata una stupida a prenotare un’escursione il giorno dopo il mio arrivo in Irlanda. Solo ventiquattr’ore fa stavo facendo su e giù dagli aerei che mi hanno portata da Charlottetown a Toronto, da Toronto ad Amsterdam e da Amsterdam a Dublino, portando indietro l’orologio di un’ora prima di rimetterlo avanti di cinque. Invece di sfruttare il volo notturno per dormire, l’ho passato a nutrire la mia dipendenza da Mad Men. Quando, alle tre del mattino, sono scesa dall’aereo, ero esausta.

    Ovviamente avevo immaginato che i due anni di lavoro su turni in ospedale avrebbero reso più facile adattarsi al nuovo orario.

    E ovviamente la sveglia ha suonato per trentadue minuti prima che stamattina il mio cervello se ne rendesse conto.

    E ora sto per perdere quella dannata escursione.

    Tagliare per questo parco avrebbe dovuto farmi risparmiare qualche minuto. Questa è stata una delle poche perle di saggezza che mi ha regalato il tassista che ieri mi ha condotta in città dall’aeroporto. Solo che non mi ha detto quale stradina asfaltata imboccare, fra le tante che serpeggiano in mezzo a giardini e boschetti. Quindi, in preda alla disperazione più totale, scelgo un insolito sentiero diagonale, supero un giardino all’inglese in piena fioritura estiva, per tagliare di corsa un prato erboso. L’aria del mattino è frizzante e le mie gambe- lasciate scoperte dagli shorts di jeans che mi sono buttata addosso nella fretta, senza riflettere - vengono percorse dai brividi, anche se gocce di sudore mi scivolano lungo la schiena. Andrà meglio più tardi, dico a me stessa. Pare che oggi ci saranno ben settantaquattro gradi Fahrenheit, il che significa, tecnicamente, ventitré gradi Celsius. Perfino dopo aver passato tre settimane e mezza a spasso per il Canada, sembra che io non riesca a comprendere il sistema metrico.

    Le sette e trentaquattro. «Merda!». Osservo la mappa della città e intanto corro. Sono così distratta che non mi accorgo che una porzione di prato, di fronte a me, è circondata da un nastro. Per poco non vado a sbatterci contro. Non ci sono cartelli di lavori in corso né attrezzature nelle vicinanze. Probabilmente hanno appena piantato dei semi o qualcosa del genere. Di qualsiasi cosa si tratti, si trova proprio nel bel mezzo della strada che sto percorrendo, e cercare di evitarla mi farà solo perdere tempo. Tempo che non ho. Al di là del prato, un altro sentiero serpeggia fino a una fontana, a qualche panchina e altre stradine. Più avanti, una cupola tonda di vetro si erge al di sopra delle cime degli alberi. È il centro commerciale di cui ho letto e a destra del quale c’è il pullman che mi aspetta. O forse no, se non mi do una mossa.

    Oltrepasso il nastro con una smorfia, chiedendo scusa fra me e me. Guardo di nuovo l’ora. Magari si tratta solo di pochi minuti, magari l’autista del pullman non sarà così pignolo da partire immediatamente. Magari…

    Spunta fuori dal nulla, alla mia sinistra.

    L’unico avvertimento è il rumore dei suoi passi sull’erba. Giro la testa e lui mi investe facendomi volare in aria. Quando cado sul terreno duro, il dolore esplode in una decina di parti del corpo diverse e i miei polmoni lottano per incamerare ossigeno.

    In un istante è sopra di me e mi schiaccia con il suo peso, le sue braccia possenti ai lati del mio viso. Mi soffoca. Non riesco a respirare o a gridare, figuriamoci cercare di divincolarmi.

    Un pensiero mi attraversa la mente e cioè che quest’uomo, con la sua fronte schiacciata sulla mia e i suoi sospiri soffocati sul mio viso, sta per stuprarmi in un parco cittadino, in pieno giorno.

    E poi piombo in uno strano vuoto che divora tutto il mio dolore e tutta la mia paura.

    L’onda d’urto arriva una frazione di secondo prima che i miei sensi vengano inghiottiti da un’assordante esplosione che scuote il mio cervello e la terra sotto di me. Poi… nulla. Solo aria e un inquietante silenzio.

    So che è passato del tempo, ma non so dire se si tratti di una frazione di secondo o di tre minuti o di un’ora quando mi accorgo di essere distesa sulla schiena a fissare un pennacchio di fumo, il familiare odore metallico di polvere da sparo esplosa che pervade le mie narici. È come se avessi la testa imbottita di cotone. Quel silenzio assordante ha ceduto il posto a un suono acuto, e rabbrividisco quando riecheggia nelle mie orecchie. Forse grido anche, ma se lo faccio non riesco a sentirlo. Sto cercando di mettere insieme le idee per capire che diamine è appena successo.

    «Stai bene?». La domanda sembra fluttuare nella mia testa da un punto in lontananza. Poi, all’improvviso, un uomo si erge sopra di me, una frangia del colore del rame a incorniciargli il volto come una specie di aureola. Due occhi verde muschio mi osservano.

    «Cos’è successo?», riesco a chiedere, anche se la mia voce mi sembra lontana. Almeno non sono più senza fiato.

    «C’è stata un’esplosione. Una bomba».

    Una bomba? Un senso di gelo mi attraversa il corpo, mentre il mio cervello si stringe attorno a quel termine, pronunciato con una leggera cadenza irlandese.

    Avverto due mani scivolare lungo le mie cosce, le mie ginocchia, le mie caviglie, ma non penso ad allontanarle. «Te la caverai», borbotta, e un’espressione di sollievo si dipinge sulle sue labbra. Si inginocchia, cercando di alzarsi.

    Afferro il suo avambraccio e mi sorprendo della forza improvvisa con la quale lo trattengo. «Non te ne andare».

    Sento la tensione dei suoi muscoli sotto le mie dita. «Non posso, ma sappi che non sono stato io». Degli occhi sinceri, imploranti, mi supplicano in silenzio per la durata di qualche battito cardiaco. Poi, prima che io possa fare altre domande, si allontana di corsa, anche se barcollante e sbilanciato. Giro la testa di lato e lo vedo sparire all’interno di un gruppo di alberi, una macchia scura che si allarga sulla sua t-shirt verde brillante.

    Qualche istante dopo, una donna che fa jogging mi raggiunge ansimando, il cellulare premuto contro l’orecchio e sul volto un’espressione impaurita. Da qualche parte, nel parco, si alzano delle grida e in lontananza si sente un coro di sirene. Trenta secondi dopo arriva un altro sportivo. Poi un addetto alla sicurezza e poi una coppia vestita per andare in ufficio. Nell’arco di pochi minuti sono circondata da molte persone.

    Nonostante tutti insistano affinché rimanga distesa, cerco di mettermi a sedere. Ho lo stomaco sottosopra: sento risalire la barretta ai cereali e la spremuta d’arancia che ho mangiato mentre uscivo di casa, e non sono sicura che riuscirò a ricacciarle giù. Cerco di concentrarmi su quello che mi circonda: l’erba carbonizzata, i buchi scavati nel tronco della quercia accanto, le foglie che pendono bruciate, le loro ceneri che fluttuano come fuligginosi fiocchi di neve.

    Inizio a prendere coscienza di quello che è successo.

    In questo preciso momento potrei essere morta.

    Se non fosse stato per quel ragazzo, sarei potuta morire. Non stava cercando di soffocarmi, mi stava facendo scudo col proprio corpo.

    «Mi hai salvato la vita», mormoro, pur sapendo che le mie parole non giungeranno mai alle sue orecchie.

    Ancora intontita, osservo i veicoli di emergenza, e polizia e artificieri che si mettono al lavoro allontanando come bestiame i curiosi dalla scena del crimine. Le loro radioline emettono suoni in continuazione, i taccuini e le penne sono pronti. Ovunque si riempie di poliziotti che indossano giubbetti antiproiettile giallo fosforescente che recano la scritta Garda.

    I paramedici mi raggiungono di corsa. Dico loro che sto bene, che sono scioccata e che il mio udito è molto attutito, ma se così non fosse…

    Non riesco a credere di essere viva.

    Mi aiutano a salire su una barella e mi trasportano all’ambulanza per esaminarmi meglio. Ancora una volta, li rassicuro sul fatto che so di cosa parlo. Dopotutto sono un’infermiera. La donna paramedico annuisce e sorride, mentre mi sfiora il labbro inferiore con la garza. Solo dopo vedo il sangue e sento sapore di ferro.

    Permetto loro di controllare le mie funzioni vitali, mentre osservo la polizia sistemare sull’erba i marcatori numerati e iniziare a interrogare i testimoni. Mi chiedo come mio padre gestirebbe una situazione del genere. Sono abbastanza sicura che non abbia mai dovuto affrontare un attentato nella contea di Deschutes, nell’Oregon.

    «Come sta?», chiede qualcuno alla mia sinistra attirando la mia attenzione. Due agenti di polizia sono intenti a ispezionare la zona.

    «Solo una piccola lacerazione al labbro inferiore, da quanto possiamo vedere. Le funzioni vitali non hanno riportato danni. Comunque ci vorrà del tempo perché lo choc passi del tutto, si è presa un bello spavento», dice facendo l’occhiolino. Poi inizia a chiudere il kit di pronto soccorso.

    «Ha avuto una fortuna pazzesca». L’agente più alto si presenta: «Sono il detective Garret Duffy e questo è il mio collega, il detective Paul O’Brien». L’uomo al suo fianco, un ufficiale tracagnotto di mezza età e calvo, fa un sorriso a denti stretti. «Possiamo rivolgerle qualche domanda?».

    Sorrido, nonostante la situazione. Duffy sembra proprio il folletto della pubblicità dei cereali Lucky Charms. «Va bene».

    «Le spiace se i nostri colleghi controllano la sua borsa? Questa è sua, giusto?». Fa segno a un uomo lì accanto che indossa dei guanti bianchi.

    Guardo lo zaino di tela nera che contiene il mio ombrello, delle bottigliette d’acqua, un sacchetto d’uva che ora si sarà indubbiamente trasformato in spremuta. Non so perché vogliano controllare il mio zaino, ma… «Prego».

    «Grazie», risponde Duffy, sorridendomi con gentilezza, in mano il taccuino già aperto che attende solo di essere riempito. «Iniziamo dal suo nome».

    «Amber Welles».

    «Sembra americano, vero?».

    Faccio segno di sì con il capo, ma poi rispondo: «Sì». Mio padre mi ha insegnato a rispondere sempre verbalmente per evitare fraintendimenti».

    «Ha un documento di riconoscimento?»

    «Il passaporto. È nel mio zaino».

    «Okay». Annuisce a O’Brien. «Adesso controlliamo. Cosa ci fa qua in Irlanda?»

    «Sono in vacanza».

    «È qui da sola?»

    «Sì».

    Sulla sua fronte appare un accenno di sorpresa. Conosco bene quella reazione, credo di poterla capire. È un po’ strano che una ragazza della mia età viaggi da sola, ma se sapesse che, dopo questo, ho ancora altri tredici Paesi da visitare, sono sicura che farebbe qualche osservazione. «Ha amici, familiari o conoscenti in Irlanda?»

    «No».

    «Da quanto tempo si trova a Dublino?»

    «Sono arrivata appena ieri».

    Scarabocchia sul suo taccuino. «E cosa ci faceva al Green così presto stamattina?»

    «Ero in ritardo per il pullman del tour e stavo giusto passando di qui per cercare di risparmiare un po’ di tempo». Credo che sia utile dire che il pullman è partito senza di me.

    «Quindi… stava correndo sull’erba». I suoi occhi e il suo dito si muovono nell’aria, come a cercare di seguire l’orientamento. «Da quale direzione, con esattezza?».

    Indico dall’altra parte.

    «Okay. E poi la bomba è esplosa?». I suoi occhi impassibili restano incollati al mio viso, in attesa, come se si accingesse a valutare la risposta che sto per dargli per soppesarne la veridicità. Proprio come gli occhi di mio padre scandagliano una persona tutte le volte che fa delle domande, tutte le volte che va alla ricerca di qualche informazione che ritiene che quella persona gli possa nascondere.

    Il cuore prende a martellarmi nel petto mentre comincio a vedere la situazione per ciò che realmente è. Non si cresce con un padre come Gabe Welles senza imparare cos’è la sensazione del sospetto. E non si cresce con un fratello come Jesse Welles senza imparare come si svolge l’interrogatorio di una persona che si ritiene colpevole di qualcosa.

    Venticinque anni nella famiglia Welles mi hanno insegnato bene l’arte del sospetto.

    Cerco di sembrare il più possibile calma e osservo con altri occhi il luogo dell’esplosione, circondato da un perimetro più grande, segnalato con un nastro bianco e blu. Un marcatore è stato posizionato nel punto in cui mi hanno trovata. Un altro, in quello in cui la bomba è esplosa, immagino. Un uomo sta misurando la distanza tra i due punti. Un altro sta fotografando il tronco della quercia, devastato da squarci, mentre il suo collega lo attende alle sue spalle con guanti di plastica, buste e pinzette per raccogliere le prove.

    Capisco come mai la polizia possa sospettare di me. Probabilmente si stanno chiedendo com’è stato possibile che io fossi così vicina al punto dell’esplosione e che non sia rimasta ferita dai frammenti della bomba, quando invece l’albero è messo così male. Ma cosa credono davvero che sia successo? Che io abbia piazzato la bomba e deciso di giocare alla vittima?

    Il mio stomaco sobbalza.

    Forse è proprio ciò che si stanno chiedendo. Quando ripercorro con la mente le parole che un attimo fa ha pronunciato il detective riguardo al fatto che sono stata incredibilmente fortunata, non mi sembrano più sincere. Non ci posso credere: appena un giorno in Irlanda e sono già sotto interrogatorio da parte della polizia. Queste cose di solito accadono a Jesse, non a me.

    «No. Un uomo è saltato fuori dal nulla e mi ha buttata a terra. Poi la bomba è esplosa».

    È un movimento talmente vago da risultare quasi impercettibile, ma il sopracciglio di Duffy si alza. «Che aspetto aveva?»

    «Io non…», aggrotto le sopracciglia cercando di ricostruire il suo volto. «Era giovane… irlandese… non lo so. Poi è corso via».

    «In quale direzione?».

    Indico i cespugli vicino ai quali l’ho visto l’ultima volta.

    «Che altro ci può dire di lui?», chiede O’Brien. Entrambi mi osservano, in attesa. Il loro atteggiamento si è leggermente addolcito ora che ho dato loro motivo di ipotizzare che forse sono solo una turista americana che si è trovata nel posto sbagliato al momento sbagliato.

    «Non l’ho guardato. Ero in stato di choc!». E lo sono ancora.

    «Niente di niente. Era alto? Basso? Pesava ottanta, novanta chili?».

    Aggrotto la fronte.

    Duffy fa un sorrisetto. «Okay, voi americani li chiamate libbre».

    «Oh». Scuoto la testa. «Io non ne sono… sicura. Centottanta libbre, forse?»

    «Si sforzi, Amber. Lo dobbiamo trovare», mi incalza. «Ha detto che era irlandese. Come lo sa? Le ha parlato?»

    «Sì. Mi ha detto che non era stato lui», sussurro, e mentre ripeto le sue parole mi sembra di risentire la sua voce. Ricordo l’espressione implorante dei suoi occhi.

    Duffy e O’Brien si scambiano un’occhiata.

    «Voi pensate che sia stato lui a piazzarla, vero?»

    «Forse», dice Duffy.

    Resto senza parole. «Non ha senso. Per quale motivo, allora, sarebbe saltato a un passo dalla bomba per salvarmi?».

    O’Brien alza le spalle. «Avrà cambiato idea. Ha visto una bella passerotta e non ha voluto essere responsabile della sua morte».

    Le mie guance si infiammano a questo complimento non desiderato, e davvero avrei voglia di alzare gli occhi al cielo. A volte le persone dotate delle migliori intenzioni dicono le cose più stupide. Insomma, c’è sempre di mezzo l’aspetto esteriore? Se fossi stata brutta allora quel ragazzo si sarebbe girato dall’altra parte e mi avrebbe fatta finire a pezzi?

    Duffy deve aver percepito la mia irritazione. «È fuggito. Chi è innocente non fugge».

    I miei occhi vagano fino al punto in cui l’ho visto sparire fra gli alberi e inizio a pormi delle domande. Sono una pazza ad avergli creduto mentre pronunciava quelle parole? Non mi sono nemmeno chiesta perché possa aver detto una cosa del genere. Forse… sapeva che la bomba era lì, che si trovava in mezzo all’erba. Dal modo in cui si è precipitato verso di me, sapeva esattamente dove si trovava e quando sarebbe esplosa. Se non aveva niente a che fare con la bomba, come poteva conoscere questi dettagli?

    Forse la parola di un attentatore non vale molto quando sei… un attentatore.

    Ma mi ha salvato la vita, ha corso un pericolo per proteggermi. Forse chi è innocente non fugge, ma un attentatore le vite non le salva.

    Ignoro i sospetti del detective: dopotutto, cinque minuti fa, era pronto a considerarmi colpevole.

    «Che altro ha detto?», incalza Duffy.

    «Mi ha chiesto se stessi bene», borbotto, «e poi è fuggito».

    Duffy scarabocchia degli appunti. «Bene, Amber. Che altro? Colore dei capelli? Degli occhi?»

    «Aveva gli occhi verdi». Occhi di un verde ricco, vibrante. «E credo che sia rimasto ferito». Perché ha corso un pericolo… per me. All’improvviso non voglio più dire altro ai due agenti, non fino a quando non ci avrò capito qualcosa. «Questo è tutto ciò che riesco a ricordare, mi spiace».

    Duffy si porta la radio alla bocca e inizia a sciorinare una serie di termini e numeri di cui l’unica cosa che riesco a capire è che si tratta di un codice di polizia. Il brusio pervade l’aria e diverse uniformi si sparpagliano qua e là, ognuna gridando e gesticolando ordini alle altre. Setacceranno il parco e l’area oltre

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