L'isola dei cadaveri
Di Ann Cleeves
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Info su questo ebook
La regina inglese del thriller è tornata
«Una storia così dark che vi farà accendere tutte le luci intorno a voi.»
People
A Whalsay, una piccola isola delle Shetland, nel mare del nord, in cui si alternano lunghi mesi di buio e mesi in cui il sole splende anche a mezzanotte, vive una comunità chiusa e gelosa dei propri segreti. Quando una giovane archeologa, nel corso di uno scavo, rinviene dei resti umani, gli abitanti sono sconvolti: si tratta di reperti antichi o della prova di un crimine più recente? Poco tempo dopo il ritrovamento, nel cuore della notte, un’anziana signora viene uccisa in casa sua. A indagare sul caso è l’ispettore Jimmy Perez. Il paesaggio desolato e la dura vita di mare però hanno reso gli abitanti dell’isola sospettosi e riservati, e per l’ispettore si rivela molto difficile ottenere informazioni. Scavando nella vita della vittima, una donna solitaria e orgogliosa, Perez scopre una faida tra famiglie che va avanti da generazioni. Mentre una fitta nebbia annuncia l’arrivo della primavera, Jimmy deve portare alla luce segreti rimasti sepolti per troppo tempo, se vuole impedire all’assassino di uccidere ancora.
Un’isola avvolta nella nebbia
Una comunità che custodisce con cura i propri segreti
Un passato che deve restare sepolto
«Ann Cleeves descrive alla perfezione la vita sull’isola, le aspettative, le delusioni e i silenzi ostinati. Tutti i lettori dovrebbero dare all’ispettore Perez un’opportunità.»
Kirkus Reviews
«Ann Cleeves si conferma la regina del crime-thriller con questo eccellente romanzo.»
Sunday Mirror
«Ann Cleeves non sbaglia un colpo.»
The Globe and Mail
Ann Cleeves
Vive nel West Yorkshire con il marito e i due figli. Come membro della Murder Squad, Ann collabora con altri scrittori per promuovere la crime fiction. È autrice di moltissimi thriller e del ciclo di romanzi incentrati sulle indagini dell’ispettore Perez (la Newton Compton ha pubblicato in Italia La maledizione del corvo nero e Gli occhi della notte), a cui è ispirata la serie TV Shetland. Ha vinto il prestigioso Premio Duncan Lawrie Dagger come miglior thriller dell’anno.
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Anteprima del libro
L'isola dei cadaveri - Ann Cleeves
1736
Titolo originale: Red Bones
Copyright © Ann Cleeves 2009
This edition is published by arrangement
with Sara Menguc Literary Agent and Donzelli Fietta Agency srls
Traduzione dall’inglese di Antonio David Alberto
Prima edizione ebook: ottobre 2017
© 2016 Newton Compton editori s.r.l.
Roma, Casella postale 6214
ISBN 978-88-227-1299-8
www.newtoncompton.com
Realizzazione a cura di Librofficina
Ann Cleeves
L’isola dei cadaveri
Indice
CAPITOLO UNO
CAPITOLO DUE
CAPITOLO TRE
CAPITOLO QUATTRO
CAPITOLO CINQUE
CAPITOLO SEI
CAPITOLO SETTE
CAPITOLO OTTO
CAPITOLO NOVE
CAPITOLO DIECI
CAPITOLO UNDICI
CAPITOLO DODICI
CAPITOLO TREDICI
CAPITOLO QUATTORDICI
CAPITOLO QUINDICI
CAPITOLO SEDICI
CAPITOLO DICIASSETTE
CAPITOLO DICIOTTO
CAPITOLO DICIANNOVE
CAPITOLO VENTI
CAPITOLO VENTUNO
CAPITOLO VENTIDUE
CAPITOLO VENTITRÉ
CAPITOLO VENTIQUATTRO
CAPITOLO VENTICINQUE
CAPITOLO VENTISEI
CAPITOLO VENTISETTE
CAPITOLO VENTOTTO
CAPITOLO VENTINOVE
CAPITOLO TRENTA
CAPITOLO TRENTUNO
CAPITOLO TRENTADUE
CAPITOLO TRENTATRÉ
CAPITOLO TRENTAQUATTRO
CAPITOLO TRENTACINQUE
CAPITOLO TRENTASEI
CAPITOLO TRENTASETTE
CAPITOLO TRENTOTTO
CAPITOLO TRENTANOVE
CAPITOLO QUARANTA
CAPITOLO QUARANTUNO
CAPITOLO QUARANTADUE
CAPITOLO QUARANTATRÉ
CAPITOLO QUARANTAQUATTRO
CAPITOLO QUARANTACINQUE
Ringraziamenti
mappa.tifCAPITOLO UNO
Anna aprì gli occhi e vide due mani, lucide e insanguinate. Nessuna faccia. Nelle orecchie, urla assordanti. All’inizio pensò di essere a Utra, con Ronald che stava aiutando Joseph ad abbattere un altro maiale. Questo avrebbe spiegato il sangue, le mani rosse e il terribile suono acuto. Improvvisamente, capì che il frastuono era causato dalla sua voce urlante.
Qualcuno le posò una mano asciutta sulla fronte e mormorò parole che lei non riuscì a comprendere. Anna lo insultò.
Altro dolore.
Allora è così che si muore.
L’effetto dei farmaci stava svanendo, perché ebbe un lampo improvviso di lucidità aprendo gli occhi in un’abbagliante luce artificiale.
No, questo è partorire.
«Dov’è il mio bambino?». Sentiva le parole ovattate a causa della petidina.
«Faticava a respirare da solo. Gli abbiamo appena dato un po’ di ossigeno. Sta bene», disse una voce di donna. Una delle Shetland, un po’ paternalistica, ma convincente, e tanto bastava.
Poco più in là, un uomo con un gomito sporco di sangue sogghignò goffamente.
«Mi spiace», disse lui. «Placenta ritenuta. Meglio farlo qui che in sala operatoria. Pensavo che non lo volessi dopo un parto col forcipe, ma non deve essere stato molto piacevole».
Pensò ancora a Joseph, alle pecore che belavano sulla collina, ai corvi che volavano via con la placenta stretta nei becchi e negli artigli. Non era quello che si aspettava. Non pensava che il parto sarebbe stato così violento e crudo. Si voltò e vide Ronald; le stava tenendo la mano.
«Mi spiace di averti urlato contro», disse Anna.
Vide che stava piangendo. «Ero così spaventato», mormorò lui. «Pensavo stessi per morire».
CAPITOLO DUE
«Anna Clouston ha partorito ieri sera», disse Mima. «Un parto difficile, a quanto pare. È stata in travaglio per ventiquattro ore. La ricoverano per qualche giorno per tenerla sotto osservazione. È un maschio. Un altro uomo per la Cassandra». Lanciò uno sguardo complice a Hattie. Sembrava che il parto difficile di Anna divertisse Mima. Mima amava il caos, il disordine, i problemi delle altre persone. Le davano qualcosa su cui spettegolare e la facevano sentire viva. Era lei stessa a dirlo, almeno, quando si sedeva nella sua cucina davanti a una tazza di tè o un whisky, raccontando a Hattie cosa succedeva sull’isola.
Hattie non sapeva che dire del bebè di Anna Clouston, non aveva mai avuto interesse per i bambini e non li capiva. Si trovavano a Setter, nel campo sul retro della casa. Un raggio di sole primaverile illuminò un frangivento improvvisato di plastica blu, le carriole, gli scavi delimitati col nastro. Vedendolo come se fosse la prima volta, Hattie pensò al caos che avevano causato alla fattoria. Prima che la sua squadra dell’università si presentasse, Mima poteva vedere il prato vicino al lago. In quel momento, all’inizio della stagione, il posto era fangoso quanto un cantiere e la vista di Mima era interrotta dagli ammassi di rifiuti. La carriola aveva scavato dei solchi sull’erba.
Hattie guardò oltre il disordine, verso l’orizzonte. Era il sito archeologico più esposto in cui avesse mai lavorato. Le Shetland erano solo cielo e vento. Non c’erano alberi a fare da riparo.
Amo questo posto, pensò all’improvviso. Lo amo più di ogni altro posto al mondo. Voglio rimanere qui, per sempre.
Mima stava stendendo il bucato, era incredibilmente agile nonostante l’età. Era così piccola che doveva allungarsi per raggiungere il filo. Hattie pensò che sembrava un bambino che saltellava in punta di piedi.
Il cesto del bucato era vuoto. «Rientriamo e facciamo colazione», disse Mima. «Se non metti su un po’ di peso, volerai via».
«Senti chi parla», replicò Hattie mentre seguiva la donna attraverso il prato, verso casa. E pensò che Mima, che trotterellava davanti a lei, sembrava così fragile e leggera che sarebbe stata portata via facilmente da una tempesta. Avrebbe di sicuro continuato a parlare e ridere mentre il vento portava via il suo corpo come la coda di un aquilone, fino a scomparire.
In cucina, un vaso di giacinti era appena sbocciato sul davanzale, riempiendo di profumo l’intera stanza. Erano di un blu pallido, con striature bianche.
«Sono belli». Hattie si sedette a tavola, spingendo via il gatto dalla sedia. «Sembra primavera».
«Non ne capisco il senso». Mima si allungò per prendere una padella sulla mensola. «Sono davvero brutti e puzzano. Evelyn me li ha dati e si aspettava che le fossi grata. Ma li farò morire presto. Non sono mai riuscita a tenere viva una pianta».
Evelyn era la nuora di Mima e la causa di molte sue lamentele.
Tutte le stoviglie e le posate in casa di Mima erano leggermente sporche, eppure Hattie, di solito così schizzinosa, così capricciosa nel mangiare, buttava giù tutto quello che Mima le cucinava. Quel giorno Mima stava preparando le uova strapazzate. «Le galline vanno alla grande, di nuovo», disse. «Dovrai portarne un po’ con te al Bod». Le uova erano coperte di fango e paglia, ma Mima le ruppe direttamente in una ciotola e cominciò a sbatterle con una forchetta. L’albume traslucido e il tuorlo denso schizzarono sulla cerata. Usando la stessa forchetta prese un pezzo di burro da un pacchetto e lo mise nella padella sul Rayburn. Quando il burro cominciò a sfrigolare buttò le uova. Lanciò un paio di fette di pane direttamente sul fornello e subito ci fu odore di bruciato.
«Ma dov’è Sophie stamani?», chiese Mima mentre cominciavano a mangiare. Aveva la bocca piena e non riusciva a scandire bene, perciò Hattie ci mise un po’ a capire quello che stava dicendo.
Sophie era l’assistente di Hattie negli scavi. Di solito Hattie faceva la pianificazione e la preparazione. Era il suo dottorato di ricerca dopotutto, il suo progetto. Era ossessionata dal pianificare ogni cosa. Ma quella mattina era ansiosa di andare al sito il prima possibile. Era bello allontanarsi da Sophie a volte, ed era anche contenta di avere l’occasione di chiacchierare con Mima da sola.
A Mima piaceva Sophie. La stagione prima le ragazze erano state invitate a un ballo al municipio e Sophie era stata l’anima della festa, così tanto che gli uomini si erano messi in fila per farla ballare. Aveva flirtato con tutti, persino con gli sposati. Hattie aveva osservato, con disapprovazione e ansia, ma anche con gelosia. Mima era arrivata alle spalle di Hattie e le aveva urlato in un orecchio, sovrastando la musica: «Quella ragazza sembra me alla sua età. Anche io avevo gli uomini che mi ronzavano intorno. È solo un po’ di divertimento per lei. Non significa nulla. Dovresti rilassarti un po’».
Quanto mi è mancata Whalsay lo scorso inverno!, pensò Hattie. Quanto mi è mancata Mima!
«Sophie lavorerà nel Bod per un po’», disse lei. «Sai, scartoffie. Ci raggiungerà presto».
«Allora?», chiese Mima, i suoi occhi brillarono oltre l’orlo della tazza. «Hai trovato un uomo mentre eri là fuori? Magari un bello studioso? Qualcuno per tenerti caldo il letto in queste lunghe giornate d’inverno?»
«Non prendermi in giro, Mima». Hattie tagliò un angolo dal toast, ma non lo mangiò. Non aveva più fame.
«Forse dovresti trovarti un uomo delle isole. Sandy stesso non ha ancora trovato moglie. Potrebbe andarti peggio. Ha più vitalità di sua madre, almeno».
«Evelyn è una brava donna», disse Hattie. «È sempre stata gentile con noi. Non tutti hanno supportato lo scavo, sull’isola, ma lei è sempre stata dalla nostra parte».
Ma Mima non era ancora pronta a lasciar stare l’argomento vita sentimentale di Hattie. «Fai attenzione, ragazza. Trova quello giusto. Non vuoi rimanere scottata. So tutto al riguardo. Il mio Jerry non era il santo che tutti pensavano fosse». Poi, aggiunse in dialetto: «Sai, si può vivere senza uomini. Ho vissuto senza un uomo per quasi sessant’anni».
E le rivolse l’occhiolino, facendo pensare a Hattie che forse Mima non aveva più il marito da sessant’anni, ma aveva sicuramente avuto abbastanza uomini nel corso della sua vita. Hattie si chiese cos’altro intendesse dire l’anziana.
Subito dopo aver lavato i piatti, Hattie tornò al sito. Mima rimase dentro. Era giovedì, il giorno in cui si intratteneva con Cedric, il suo nuovo corteggiatore. Il pensiero di quel luogo aveva tenuto compagnia a Hattie tutto l’inverno, scaldandola come un amante. La sua ossessione per l’archeologia, l’isola e i suoi abitanti erano diventati un tutt’uno nella sua testa: Whalsay, un singolo progetto e un’unica ambizione. Per la prima volta da anni aveva sentito ribollire l’eccitazione. Sul serio, pensò, non ho alcuna ragione per cui mi dovrebbe piacere tutto questo. Che mi prende? Si sorprese a sorridere. Devo controllarmi. Le persone penseranno che sono pazza e mi rinchiuderanno di nuovo. Ma quel pensiero la fece solo sorridere ancora.
Quando Sophie arrivò, Hattie la mise a preparare uno scavo di prova. «Se Evelyn vuole fare la volontaria dobbiamo addestrarla bene. Sistemiamo un’area lontana dallo scavo principale».
«Merda, Hat! Dobbiamo per forza averla qui? Cioè, è gentile ma è anche una noia mortale». Sophie era alta e snella con lunghi capelli rossicci. Lavorava come cameriera in uno chalet sulle Alpi durante l’inverno, per aiutare un amico, e la sua pelle era bronzea e luminosa. Sophie era pacata e serena e gestiva tutto senza problemi. Faceva sentire Hattie un drone nevrotico.
«È una condizione del nostro lavoro nelle Shetland, incoraggiare il coinvolgimento della comunità», disse Hattie. «Lo sai». Oddio, pensò, ora assomiglio a una maestra di mezza età. Sono così altezzosa!
Sophie non rispose. Sollevò le spalle e continuò a lavorare.
Più tardi, Hattie disse che sarebbe andata a Utra per parlare con Evelyn riguardo all’addestramento per lavorare agli scavi. Era una scusa. Non aveva ancora avuto l’opportunità di visitare i suoi posti preferiti a Lindby. Il sole splendeva ancora e voleva approfittare al massimo del bel tempo. Mentre camminava davanti alla casa, Cedric stava passando in macchina. Mima lo salutava dalla finestra della cucina. Quando vide Hattie le aprì la porta.
«Vuoi entrare per una tazza di caffè?».
Ma Hattie pensò che Mima voleva solo estorcerle altre informazioni e darle altri consigli. «No», rispose. «Non ho tempo oggi. Ma Sophie ha bisogno di una pausa, se vuoi chiamarla».
E si avviò giù per il vialetto, col sole che le illuminava il viso, sentendosi come un bambino che marinava la scuola.
CAPITOLO TRE
Il bambino di Anna trascorse la prima notte di vita in terapia intensiva. Le ostetriche dissero che non c’era nulla di cui preoccuparsi. Stava andando tutto bene, era un bambino adorabile. Ma aveva ancora bisogno di aiuto per respirare e lo avrebbero tenuto in rianimazione ancora un po’. Inoltre, Anna era esausta e aveva bisogno di riposare. In mattinata le avrebbero portato il bambino e le avrebbero insegnato a dargli da mangiare. Entro un paio di giorni sarebbero tornati a casa.
Dormì a intermittenza, quasi in dormiveglia. Il dottore le diede altri antidolorifici e i suoi sogni furono molto intensi. Svegliandosi improvvisamente, si domandò se fosse quello l’effetto di essere sotto l’influsso di droghe. All’università non era mai stata tentata di provarle. Per lei era importante rimanere lucida.
Sapeva che Ronald era vicino a lei. Un paio di volte lo sentì parlare al telefono. Pensava che avesse chiamato i suoi genitori. Cominciò a dirgli che non doveva usare il cellulare all’ospedale, ma la letargia la sovrastò e le parole non le uscirono del tutto.
Si svegliò per la luce, sentendosi molto meglio, un po’ ammaccata e malconcia, ma vigile. Ronald si era addormentato sulla sedia nell’angolo, con la schiena all’indietro, la bocca aperta, russava rumorosamente. Arrivò un’ostetrica.
«Come sta il mio bambino?». Anna non riusciva a credere di avere un bambino adesso, di non aver solo immaginato l’intera esperienza del parto. Si sentiva molto sfasata fin dalla sera precedente.
«Te lo porto. Sta molto meglio adesso, respira da solo».
Ronald ebbe un fremito e si svegliò. Assomigliava molto a suo padre con quel pizzetto sul mento, il suo sguardo era ancora assente a causa del sonno.
Il bambino era sdraiato, sulla schiena, in una scatola di plastica che ricordava ad Anna una boccia per i pesci. La sua pelle era giallastra; Anna aveva letto qualche libro e sapeva che era normale. Aveva soffici capelli neri e una macchiolina rosa su entrambi i lati della testa.
«Non ti preoccupare di quelle», disse l’ostetrica. Indovinò quello che stava pensando Anna. «È il forcipe. Se ne andranno in un paio di giorni». Sollevò il bambino, lo avvolse in un lenzuolino e lo diede ad Anna. Anna guardò quelle piccole, perfette orecchie.
«Dovremmo dargli da mangiare?».
Ronald si era svegliato completamente. Si sedette sul letto vicino ad Anna, di fronte all’ostetrica. Allungò il dito e guardò il bambino afferrarglielo.
L’ostetrica stava mostrando ad Anna il miglior modo per nutrire il bambino. «Metti un cuscino in grembo così e tieni la testa con questa mano guidandolo verso il tuo capezzolo, in questo modo…». Anna, di solito brava nelle cose pratiche, si sentì goffa e impacciata. Poi il bambino si attaccò e cominciò a succhiare e lei riusciva a sentirne la forza fino alla pancia.
«Ecco fatto», disse l’ostetrica. «Sei un talento naturale. Se tutto andrà bene domani sarete a casa, senza dubbio».
I due rimasero sul letto a guardare il bambino anche quando l’ostetrica se ne andò. Si addormentò all’improvviso e Ronald lo sollevò delicatamente e lo mise di nuovo nella culletta. Anna aveva una stanza singola con vista sulle case sul mare.
Abbozzarono insieme la notizia da mettere sullo «Shetland Times»:
Ronald e Anna Clouston, 20 marzo, hanno avuto un figlio, James Andrew. Primo nipote di Andrew e Jacobina Clouston di Lindby, Whalsay, e di James e Catherine Brown di Hereford, Inghilterra.
La nascita di James era stata ben pianificata, così come ogni cosa nella vita di Anna. Pensava che la primavera fosse la stagione perfetta per avere un bambino e che Whalsay sarebbe stato il posto migliore per crescerlo. L’intero processo era stato un po’ più doloroso e problematico di quanto previsto, ma ora era finita e non c’era ragione per cui andasse storto qualcos’altro.
Ronald non riusciva a staccare gli occhi di dosso a suo figlio. Era sicura che sarebbe stato un padre affettuoso.
«Perché non vai un po’ a casa?», disse lei. «Fatti una doccia e cambiati. Tutti vorranno sapere del bambino».
«Lo farò». Anna sapeva che lui non era a suo agio in ospedale. «E se venissi a trovarvi stasera?»
«No», rispose lei. «Troppa strada da fare, più il tempo sul traghetto. Dovrai essere riposato per riportarci a casa domani». Pensò che avrebbe voluto passare un po’ di tempo da sola col bambino. Sorrise pensando a Ronald che faceva il giro dell’isola, per annunciare la nascita di suo figlio. Avrebbe dovuto visitare tutti i parenti, raccontando ancora e ancora di come le acque si fossero rotte mentre facevano shopping alla Co-op, il travaglio difficile e il bambino che era nato piangendo.
CAPITOLO QUATTRO
Hattie avrebbe potuto fare a meno di avere lì Evelyn, a Setter, quel giorno. Erano a Whalsay solo da una settimana e aveva altre cose a cui pensare, ansie che si erano annidate nella sua mente insieme ai momenti felici. Inoltre, voleva continuare con gli scavi. Il suo scavo, che era rimasto fermo dall’autunno. Adesso, i giorni più lunghi e il clima più favorevole l’avevano riportata nelle Shetland per finire il progetto. Era ansiosa di tornare nella fossa principale, di continuare a cercare e datare, di completare i suoi dati meticolosamente. Voleva provare la sua tesi e perdersi nel passato. Se avesse dimostrato che Setter era il sito di una casa di un mercante medievale, avrebbe avuto un importante pezzo di ricerca per il suo dottorato. Inoltre, il ritrovamento di manufatti che permettessero di datare l’edificio e confermassero la sua natura le avrebbe concesso di chiedere finanziamenti per ampliare lo scavo. Così avrebbe avuto una scusa per fermarsi nelle Shetland. Non poteva sopportare l’idea di lasciare le isole. Non sarebbe potuta tornare a vivere in città.
Ma Evelyn era una volontaria locale e aveva bisogno di addestramento, e Hattie doveva tenerla al suo fianco. Hattie sapeva che non se la cavava molto bene coi volontari. Era impaziente e pretendeva troppo da loro. Usava un linguaggio che non potevano capire. Quel giorno non sarebbe stato facile.
Si erano svegliate con un’ottima luce, ma dopo la nebbia era arrivata dal mare, coprendo i raggi del sole. La casa di Mima era un’ombra distante e tutto appariva più soffice e organico. Sembrava che i pali di misurazione fossero cresciuti dal terreno come salici e che i detriti fossero naturali, una semplice falda del terreno.
Il giorno prima, Sophie aveva delimitato uno scavo di pratica un po’ più lontano rispetto al sito principale e aveva tolto l’erba. Aveva scavato fino alle radici e raggiunto una parte di terreno asciutta e sabbiosa, livellando l’area con un piccone in modo da cominciare con lo scavo di pratica. Il terriccio era stato buttato sui detriti già depositati. Era tutto pronto per quando Evelyn si presentò, alle dieci, proprio come aveva detto, indossando pantaloni di velluto a coste e un vecchio maglione spesso. Aveva quelle maniere ansiose, tipiche dello studente che vuole adulare il proprio insegnante. Hattie le spiegò il processo passo passo.
«Cominciamo, allora?». Hattie sapeva che Evelyn era davvero entusiasta, ma avrebbe dovuto prendere le cose più seriamente, scrivendo qualche appunto, per esempio. Hattie aveva spiegato nel dettaglio come documentare un sito, ma non era sicura che Evelyn si ricordasse tutto. «Vuoi fare una prova con la cazzuola, Evelyn? Noi non setacceremmo tutto in un sito come questo, invece lavoreremmo sulle vasche di galleggiamento, e ogni scoperta andrebbe così collocata nel giusto contesto. Hai capito l’importanza di tutto questo?»
«Sì, sì».
«E lavoriamo dal conosciuto allo sconosciuto, scaviamo sempre all’indietro. Non vogliamo calpestare le cose che abbiamo già scoperto».
Evelyn la guardò. «Certo, non starò prendendo un dottorato», disse lei, «ma non sono nemmeno sorda. Ti ho davvero ascoltata». Le aveva parlato con molto garbo, ma Hattie si sentì arrossire. Non sono molto brava con le persone, pensò. Solo con idee e oggetti. Riesco a capire come funziona il passato ma non come vivere con gli altri nel presente.
Evelyn si lanciò nella fossa e cominciò a scavare con la cazzuola, cominciando in un angolo, sollevando lo strato più superficiale del suolo, arrivando poi a buttarlo nel secchio.
Si accigliò come una ragazzina concentrata sui compiti del giorno. Per tutta la mezz’ora successiva, ogni volta che Hattie la guardava, vedeva sempre la stessa espressione sulla sua faccia. Hattie aveva appena controllato il lavoro di Evelyn quando quest’ultima la chiamò.
«E questo cos’è?».
Hattie si allungò e diede un’occhiata. Qualcosa di solido sbucava dal terreno sabbioso e dai gusci di conchiglia. Hattie era eccitata. Forse era un frammento di vasellame. Un vasellame d’importazione avrebbe confermato le sue teorie come sperava. Avevano scavato la fossa di prova proprio perché non volevano che nessun dilettante trovasse nulla di importante, ma forse si erano imbattute in una estensione della casa. Si accucciò vicino a Evelyn, quasi scostandola, e spazzolò via il terreno vicino all’oggetto. Non era vasellame, nonostante il colore marrone-rossiccio tipico dell’argilla. Osso, lo vedeva ora. Da studentessa si aspettava che le vecchie ossa fossero bianche, crema o grigie ma era rimasta stupita dalla ricchezza dei possibili colori. Un grande pezzo di osso, rotondo, pensò, nonostante fosse stata scoperta solo una frazione.
Era delusa, ma provò a non farlo vedere. I principianti sono elettrizzati dai loro primi ritrovamenti. Negli scavi alle Shetland si rinvenivano sempre frammenti di ossa, per lo più di pecora; una volta persino lo scheletro di un cavallo quasi interamente conservato.
Cominciò a spiegarlo a Evelyn, per raccontarle come potevano scoprire qualcosa dei precedenti insediamenti dai resti degli animali.
«Non possiamo semplicemente tirar fuori un oggetto», disse lei. «Dobbiamo mantenerlo nel contesto, continuare a scavare, strato dopo strato. Sarà un ottimo esercizio. Ti lascio questo compito e tornerò più tardi». Pensò a quanto le sarebbe sembrato strano scavare mentre qualcuno la fissava. In più, aveva anche il suo lavoro da fare.
Più tardi andarono nella casa per una pausa. Mima fece dei panini, poi uscì per vedere cosa stava succedendo fuori. Quando Evelyn tornò a lavorare nella fossa di pratica, l’anziana rimase a fissarla. Mima indossava pantaloni neri di tessuto sintetico e stivali al ginocchio. Uno scialle grigio consunto a coprirle le spalle. Hattie pensava che assomigliasse a un corvo incappucciato, impalata a guardare lavorare la nuora. Un corvo incappucciato pronto ad agguantare un pezzo di cibo.
«Evelyn, allora, cosa sembri?», disse Mima. «A quattro zampe, come un animale. Con questa luce potresti sembrare uno dei maiali di Joseph che scorrazza in giro. Fa’ attenzione o ti taglierà la gola e ti mangerà come bacon». Si mise a ridere così forte che tossì e sputacchiò.
Evelyn non rispose. Si inginocchiò e la guardò in cagnesco. Hattie si sentì dispiaciuta per lei. Non sapeva che Mima potesse essere così crudele. Hattie saltò nella fossa vicino a Evelyn. L’osso sporgeva dal terreno ormai, quasi tutto esposto. Hattie estrasse la cazzuola dalla tasca dei jeans. Con enorme concentrazione scavò via gran parte del terreno, poi diede una spazzolata. La forma dell’osso era ormai chiara: c’era una curva dolce, una cavità scolpita.
«Pars orbitalis», disse lei. Lo shock e l’eccitazione le avevano fatto dimenticare di dover parlare in modo semplice perché Evelyn capisse.
La donna la fissò.
«L’orbita frontale», spiegò Hattie. «Questo è un pezzo di teschio umano».
«Oh, no», disse Mima. Hattie la guardò e vide che era impallidita. «Non può essere, no. Non può essere».
Si voltò e si precipitò in casa.
CAPITOLO CINQUE
Sandy Wilson attraversò il campo barcollando. Fu un paio di settimane dopo che Hattie aveva trovato il teschio, una di quelle notti buie tipiche della primavera. Non era fredda, ma l’isola era avvolta da una nuvola bassa, e una densa, incessante pioggerellina copriva la luna e le stelle e persino la luce delle finestre della casa alle sue spalle. Non aveva una torcia, ma non ne aveva bisogno. Era cresciuto lì. Se vivi su un’isola lunga meno di dieci chilometri e larga quattro, all’età di dieci anni ne conosci ogni palmo a memoria. E la mappa ti rimane impressa anche dopo essertene andato. Sandy viveva in città ormai, a Lerwick, ma sapeva che se lo avessero lasciato bendato in qualsiasi angolo a Whalsay, dopo pochi minuti sarebbe stato in grado di dire dove si trovava, solo sentendo il terreno sotto i suoi piedi e tastando il canale più vicino.
Sapeva di aver bevuto troppo, ma si congratulò con sé stesso per essere riuscito a uscire dal Pier House Hotel. Sua madre lo aspettava. Un altro paio di drink e sarebbe stato completamente sbronzo. Poi aveva ripensato alle vecchie lezioni sull’autocontrollo e a Michael, suo fratello, che aveva rinunciato completamente all’alcol. Sandy pensò che avrebbe potuto chiamare e andare dalla nonna, così lei gli avrebbe preparato una bella tazza di caffè nero così da essere abbastanza sobrio quando sarebbe tornato a casa. Gli aveva telefonato durante la settimana precedente dicendogli di chiamare quando sarebbe stato a casa. A Mima non aveva mai dato fastidio vederlo messo un po’ male. Era stata lei a dargli il primo goccetto, una mattina, quando stava per andare a scuola. Era un giorno freddo e lei gli disse che il whisky avrebbe tenuto lontano il freddo. Lui aveva sputato e tossito come se fosse la peggiore delle medicine, ma da allora aveva sviluppato una predilezione per l’alcol. Pensava che Mima avesse quella predilezione dalla culla, anche se sembrava non avesse mai avuto effetto su di lei. Non l’aveva mai vista ubriaca.
Il campo scese verso il vialetto che conduceva alla fattoria di Mima. Sentì uno sparo. Il rumore lo spaventò per un minuto o due, ma poi continuò a camminare. Forse era Ronald, fuori a caccia di conigli. Ne aveva parlato quando Sandy era andato a trovare il bambino e, in fondo, quella era una buona notte per la caccia. I conigli, abbagliati dalla torcia, rimanevano impietriti come statue, pronti per essere uccisi. Era illegale, ma quegli animali erano una tale seccatura che a nessuno importava. Il resto della sua passeggiata verso Setter fu condita dal rumore occasionale degli spari.
C’era una curva nel vialetto e Sandy vide, come aveva previsto, la luce che usciva dalla finestra della cucina di Mima. La casa era nascosta in mezzo alla collina e sbucava all’improvviso. Molti degli abitanti delle isole erano contenti che fosse nascosta alla vista perché era un posto trascurato, il giardino coperto di erbacce, gli infissi senza pittura e scrostati. Evelyn, la madre di Sandy, era mortificata dall’aspetto della fattoria di Mima e se ne lamentava regolarmente con suo padre. «Andrai o no a mettere a posto per lei?». Ma Mima non ne aveva nessuna voglia. «Basta e avanza così», rispondeva lei. «Mi piace così com’è. Non voglio tutte queste noie». Joseph prestava più attenzione alla madre che alla moglie, per questo Mima aveva l’ultima parola.
Setter era la fattoria più riparata dell’isola. Un archeologo che era arrivato lo scorso anno da un’università del sud diceva che quella zona era abitata da migliaia di anni. Aveva chiesto se potevano fare degli scavi vicino alla casa. Un progetto di dottorato di una studentessa, che pensava potesse esserci una grande villa sotto la fattoria. Avrebbero rimesso tutto a posto, come l’avevano trovato. Sandy pensava che Mima avrebbe dato comunque il permesso. Gli aveva parlato dell’archeologo. «È un bel ragazzo», disse a Sandy, con gli occhi che brillavano. Sandy aveva visto quella che doveva essere da ragazza. Audace. Senza vergogna. Nessun dubbio sul perché le altre donne dell’isola erano diffidenti nei suoi confronti.
Ci fu un rumore da un campo lì vicino. Non uno sparo questa volta, ma un borbottio, un calpestio. Sandy si girò e vide la sagoma di una mucca qualche metro più in là. Mima era l’unica persona rimasta a Whalsay a mungere a mano. Gli altri avevano smesso