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Misteri, crimini e storie insolite delle Marche
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Misteri, crimini e storie insolite delle Marche
E-book335 pagine4 ore

Misteri, crimini e storie insolite delle Marche

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Miti, leggende, storia e cronaca si intrecciano e si confondono restituendo il ritratto di una terra affascinante e tenebrosa

Marche: una terra poco conosciuta. Questo libro racconta gli enigmi del passato e del presente. Segreti inviolati che hanno contribuito a rendere ancora più affascinante un territorio dai mille volti e dalle mille sfaccettature, a volte contrastanti.
Una regione in cui è stata spesso protagonista la cronaca nera, con crimini ancora in cerca di una risposta e casi irrisolti, come la morte dell’ex baronessa de’ Rothschild sui Monti Sibillini o la scomparsa dello studente universitario di Moresco, o ancora la strana fuga di Carlo Crivelli. Ma anche la storia delle Marche è costellata di aspetti oscuri, legati agli intrighi delle corti rinascimentali e a personaggi controversi. Primo fra tutti Cesare Borgia, regista ed esecutore di ben due stragi. Maria Paola Cancellieri e Marina Minelli tracciano in questo libro una vera e propria mappa del mistero marchigiano.

Una delle regioni più misteriose d’Italia, da secoli teatro di fatti insoliti, storie inspiegabili, eventi oscuri

I monti del mistero
Templari e Rosacrociani nelle Marche
Paolo e Francesca, amore o faida familiare?
I lati oscuri del pittore Gentile
Il cimitero degli ebrei
I fantasmi di Pergola: la strage dei da Varano
La Sindone marchigiana
Il giallo della pistola che uccide Gandhi
L’omicidio di Enrico Mattei
Maghi sensitivi e sette sataniche
Il femminicidio: Melania Rea e le altre


Maria Paola Cancellieri
Vive a Osimo. Laureata in Giurisprudenza all’università di Macerata, giornalista professionista, cura la cronaca nera per l’edizione locale di un quotidiano a tiratura nazionale e per un giornale online. Negli anni ha collaborato con vari periodici, portali web e agenzie di stampa. Ha gestito la comunicazione di associazioni, enti pubblici e istituzioni. È appassionata di letteratura giapponese, di cultura e filosofie orientali.


Marina Minelli
È nata ad Ancona e vive a Falconara Marittima. Laureata in Storia moderna a Bologna, giornalista, scrittrice, blogger, per molti anni ha lavorato per quotidiani e periodici locali ed è stata responsabile dell’ufficio stampa di associazioni ed enti pubblici. Nel gennaio del 2009 ha creato www.altezzareale.com, il primo sito italiano dedicato alla storia e alla cronaca delle famiglie reali. Con la Newton Compton ha pubblicato Le regine e le principesse più malvagie della storia, 101 storie di regine e principesse che non ti hanno mai raccontato, 101 storie sulle Marche che non ti hanno mai raccontato e, con Maria Paola Cancellieri, Misteri, crimini e storie insolite delle Marche.
LinguaItaliano
Data di uscita16 dic 2013
ISBN9788854158979
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    Anteprima del libro

    Misteri, crimini e storie insolite delle Marche - Marina Minelli

    es

    173

    Prima edizione ebook: ottobre 2013

    © 2013 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-5897-9

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Corpotre, Roma

    Maria Paola Cancellieri - Marina Minelli

    Misteri, crimini e storie insolite delle Marche

    Miti, leggende, storia e cronaca si intrecciano e si confondono restituendo il ritratto di una terra affascinante e tenebrosa

    omino

    Newton Compton editori

    Ai nostri genitori: Antonella ed Enrico Cancellieri, Fernanda e Marcello Minelli.

    Introduzione

    La scienza e le discipline umanistiche, la tecnica e la sapienza, il rifiuto di ogni eccesso e il guardare oltre, verso idee nuove. Come in un enigmatico capolavoro del Rinascimento. La forza dei pensatori marchigiani nei secoli, siano essi l’alchimista Cecco d’Ascoli, il gesuita Matteo Ricci, il grafologo Girolamo Moretti o lo speleologo Maurizio Montalbini, è riposta proprio nella capacità di immaginare il progresso attraverso intuizioni semplici, quasi timide ma originali. L’immagine migliore dell’Italia che coniuga il bello al funzionale, così come è ammirata, quasi invidiata, nel resto del mondo.

    Allo stesso tempo le Marche continuano a essere ritenute un’isola felice, un luogo ameno e sereno, un tantino isolato, fuori dalle normali rotte (dei viaggi, dei commerci, delle guerre e anche della criminalità), perfetto per diventare un buen retiro dove respirare la vita autentica, farsi dimenticare o dove dimenticare il resto del mondo. E anche se il sommo poeta Leopardi farà di tutto per abbandonare la noia e le ristrettezze mentali del suo «natio borgo selvaggio», se la nipote di Napoleone Bonaparte (sposata con un marchigiano) troverà Ancona mortalmente noiosa tanto da volerne fuggire, in questa regione accade di tutto. Ieri come oggi, però, la comunicazione difetta e, spesso, le vicende locali restano sigillate fra i confini regionali.

    Le Marche e i marchigiani hanno una certa propensione bonaria a chiudersi e a restare isolati in una sorta di orgogliosa autarchia mentale e in questo contesto i fatti insoliti, le storie inspiegabili, gli eventi oscuri, i crimini e i misfatti, non sconvolgono la quotidianità. Anche quando il protagonista è un personaggio come Cesare Borgia che di stragi efferate qui ne compie non una sola (quella molto nota di Senigallia celebrata persino da Machiavelli), ma addirittura due.

    Uno scrigno di segreti che contribuisce a rendere ancora più vitale questo angolo verde e pullulante di cultura del Bel Paese, quasi timoroso di osare ma ricco di potenzialità, dalle molteplici sfaccettature e contraddizioni. In queste pagine abbiamo raccolto i miti, le leggende, la storia dei grandi santi e personaggi che hanno contribuito a progettare un cambiamento. Racconti umani ed epici che, intrecciandosi e confondendosi, restituiscono il ritratto di una regione affascinante, persino seducente e tenebrosa tra fantasmi, esoterismo, logge massoniche, ufo e cerchi sul grano. Una regione dove la cronaca nera getta un’ombra con i casi di femminicidio o degli scomparsi e nasconde arcani rimasti fino a oggi inviolati, dall’assassinio di Oddantonio da Montefeltro nella metà del Quattrocento alla morte misteriosa, forse per veleno, di Francesco Maria della Rovere, fino ad arrivare alla scomparsa sui Sibillini della ex baronessa de Rothschild, alla partenza da Tolentino della pistola che uccise Gandhi, all’omicidio della custode del college di Urbino e alla vicenda mai chiarita dello studente universitario di Moresco il cui corpo è stato restituito dal mare alla costa di Bari.

    Ma i misteri marchigiani sono racchiusi anche nelle opere d’arte (I Bronzi di Cartoceto, la Flagellazione di Piero della Francesca e la Muta di Raffaello per esempio), nella rocca di Sassocorvaro e soprattutto nell’energia spirituale che promana dalla Santa Casa di Loreto, luogo sacro onorato da templari e rosacroce fin dalla notte dei tempi e oggi da migliaia di pellegrini in arrivo da ogni latitudine del pianeta. Tra scienza e fede, tra miracoli e guarigioni inspiegabili avvenute per intercessione della Vergine lauretana.

    I Bronzi di Cartoceto

    Ritrovati per caso in un campo, contesi fra due città con tanto di sequestro e carte bollate, i Bronzi di Cartoceto di Pergola costituiscono un vero e proprio enigma storico e artistico che però le complicate vicende giudiziarie relative alla loro collocazione hanno finito con il mettere in secondo piano.

    La storia di questo gruppo scultoreo – non un capolavoro, solo una «discreta opera artigianale», secondo gli esperti, ma pur sempre l’unico gruppo di bronzo dorato esistente al mondo giunto dall’età romana ai nostri giorni – inizia nel 1946. Il 26 giugno di quell’anno due agricoltori, Giuseppe e Pietro Peruzzini, stanno dissodando un campo a Santa Lucia di Calamello a due passi da Cartoceto di Pergola, quando fanno una scoperta straordinaria. In una fossa sono ammassati dei resti bronzei (nove quintali in tutto) evidentemente antichi, forse anche di grande valore. Il rinvenimento è segnalato dal canonico Giovanni Vernarecci, all’epoca ispettore onorario di Fossombrone, il quale, preoccupato per la sorte dei reperti, chiama la Soprintendenza alle antichità delle Marche che, giunta sul luogo, fa completare gli scavi e impedisce il trafugamento dei frammenti e la loro vendita sul mercato antiquario clandestino. I reperti sono immediatamente recuperati e trasferiti ad Ancona e vengono anche effettuati saggi di scavo, per comprendere le modalità di seppellimento e per ricostruire un loro eventuale contesto archeologico. Indagini che però, come quelle ripetute nel 1958, non danno alcun risultato, tranne quello di accertare che i reperti sono stati deposti unitariamente, in epoca imprecisabile, ammassati in una cavità appositamente scavata nel terreno, ma non a grande profondità. Il primo restauro, condotto tra il 1948 e il 1959, non rivela nulla sulla loro origine, ed è molto complesso a causa del numero elevatissimo dei pezzi che, fra l’altro, sono stati intenzionalmente stesi prima del sotterramento. Vengono ricostruite, comunque, due coppie costituite da due figure femminili ammantate e velate, e due cavalieri in veste militare d’alto rango, con cavalli riccamente ornati. Le sculture, realizzate a cera persa indiretta in una lega rameica assai ricca di piombo e dorate a foglia, costituiscono una testimonianza preziosa di quella politica di diffusione di immagini monumentali come simbolo e propaganda di potere, comune nel mondo romano dalla tarda repubblica in poi, che si esplicita, in questo caso, in un’opera di ottimo livello tecnico.

    I Bronzi, rimessi insieme come un immenso puzzle, sono esposti al Museo nazionale archeologico delle Marche di Ancona fino al 1972, quando il terremoto rende inagibile la sede di palazzo Ferretti. Il secondo e più importante intervento conservativo (che permette di integrare nelle statue altri numerosi frammenti precedentemente non assemblati) è condotto con nuove metodologie tra il 1975 e il 1986 presso il Centro di restauro della Soprintendenza per i beni archeologici della Toscana, con a seguire una grande mostra a Firenze. Anche questa seconda indagine, però, non riesce a squarciare il velo di mistero. Chi sono dunque questi quattro personaggi? Il cavaliere quasi completo è un uomo maturo, fra i 40 e i 50 anni, vestito con paludamentum e tunica (l’abbigliamento degli ufficiali romani in tempo di pace), il che porta alla sua identificazione con un militare di alto livello, un patrizio o un senatore il quale, insieme all’altro cavaliere (del quale ci sono giunti solo pochi frammenti), deve avere assolto con pieno merito importantissimi incarichi militari. Il braccio destro alzato deve considerarsi un segno di pace e non di saluto, poiché la mano arriva solo all’altezza del capo, senza superarlo. La figura maggiormente integra è una dama avanti negli anni, i capelli divisi ordinatamente al centro della fronte, un’acconciatura di derivazione ellenistica, in uso fra le matrone romane della seconda metà del i secolo a.C., elemento che ha contribuito all’elaborazione delle teorie più recenti. All’anulare della mano sinistra la dama porta un anello d’oro, che indica l’appartenenza della sua famiglia all’Ordine equestre, a testimonianza dell’altissimo rango sociale dei personaggi del gruppo. Persino l’atteggiamento dei cavalli è maestoso, il collo eretto, una zampa anteriore sollevata e una posteriore avanzata ad accennare il passo, esempio di una posa poi cara al gusto trionfalistico romano. I due stalloni non portano una sella, ma un panno a orlo dentellato, fermato da un sottopancia e, sul davanti, da un pettorale riccamente decorato con un thiasos marino (Nereide e Tritone che reggono uno scudo, più cavalli marini e delfini). Le stupende bardature delle teste sono arricchite con piastre di metallo (fàlere) che riproducono dèi della religione romana. Anche in questo caso non si tratta di semplici ornamenti, ma di decorazioni equestri con funzione di protezione divina. Due uomini e due donne di una certa importanza, dunque, ma chi, e poi dove si trovavano queste sculture e come sono finite sottoterra, lontano da un centro abitato, ma nei pressi dell’intersezione fra la Via Flaminia e la Via Salaria Gallica? Il luogo di ritrovamento, isolato e periferico nel contesto storico antico, fa pensare che il gruppo sia stato rimosso e accantonato in un ripostiglio in età tardoantica o bizantina, forse persino a causa di una damnatio memoriae.

    L’archeologo Sandro Stucchi pensa che la figura femminile di cui si conserva il volto sia Livia, già moglie di Livio Druso e poi di Augusto, e madre di Tiberio, mentre il cavaliere potrebbe essere Nerone Cesare, lo sfortunato figlio di Germanico caduto in disgrazia, a opera del tirannico reggente Seiano, insieme con il fratello Druso e la madre Agrippina, nel 28 d.C., cioè le figure mancanti. Sempre secondo questo autore, il gruppo, originariamente collocato in uno dei centri romani vicini alla località di rinvenimento (Sentinum – Sassoferrato, Forum Sempronii – Fossombrone, o Suasa – Castelleone di Suasa) oppure in uno di quelli costieri (Fano, Pesaro), sarebbe stato, a seguito di tale sfortuna politica, distrutto e sepolto per una abolitio. L’altra ipotesi è quella del monumento onorario di una famiglia d’alto rango, quasi certamente senatorio, sufficientemente abbiente da permettersi la realizzazione di un gruppo simile, e nella quale le donne hanno un ruolo non secondario. Su questa linea si muovono John Pollini e Filippo Coarelli, i quali hanno successivamente reimpostato il problema datando il gruppo nel i secolo a.C., tra gli anni Cinquanta e Trenta, ossia, tra l’età cesariana e gli inizi di quella augustea. Per Coarelli, la famiglia potrebbe essere di origine locale, di un territorio prossimo al luogo di ritrovamento: lo studioso propone di identificare in uno dei due personaggi maschili Marco Satrio, noto, oltre che dalle fonti letterarie, da iscrizioni di Suasa e di Sentinum, definito "patronus agri Piceni", luogotenente di Giulio Cesare in Gallia, ma poi tra i congiurati che lo uccidono. Marco Satrio arriva all’ordine senatorio attraverso l’adozione da parte dello zio materno Lucio Minucio Basilio, originario di Cupra Maritima, adozione patrocinata dalla madre, sorella di quest’ultimo. Coarelli ipotizza anche che il gruppo, raffigurante appunto i personaggi citati, si trovasse a Sentinum, dove, presa la città da Ottaviano nel 41 a.C., sarebbe quindi stato distrutto per motivi politici, e seppellito a Cartoceto. John Pollini propone invece di attribuire il gruppo ai Domizi Enobarbi, antichissima, celebre e ricca famiglia romana, proprietaria di sterminati possedimenti terrieri, confluita poi in quella imperiale giulio-claudia; i personaggi proposti sarebbero Gneo Domizio Enobarbo, console nel 32 a.C., con sua madre Porcia, la moglie e il padre Lucio Domizio.

    Nel 2001 Lorenzo Braccesi, ordinario di Storia antica all’Università di Padova, ipotizza possa trattarsi della copia di un monumento pubblico voluto dal potere centrale di Roma e destinato a uno dei centri periferici. L’ipotesi che i Bronzi dorati possano essere stati commissionati da una singola comunità municipale è improbabile a parere di Braccesi, in quanto nessuna città della zona può aver avuto interesse, o forza economica tale da realizzare un’opera così grandiosa. Da escludere anche la damnatio memoriae che, in un mondo rigidamente e giuridicamente definito come quello romano, ha delle regole ben precise, fra cui la decapitazione delle statue e la raschiatura delle iscrizioni, operazioni che non sono avvenute nei Bronzi.

    Sulla datazione Braccesi concorda con Corelli: il cavaliere è un personaggio di tarda età repubblicana, ma questo non esclude che il gruppo sia stato realizzato posteriormente, in età augustea, dettato dal potere centrale. Il problema però è che tutti i volti ritratti all’epoca più o meno si assomigliano e anche la zona del ritrovamento, in un triangolo compreso fra Rimini, Ancona e Gubbio, non facilita le indagini. Ma guarda caso proprio a Pisaurum – l’antica Pesaro – in tarda età repubblicana, è nato Marco Livio Druso Claudiano, il padre della moglie di Augusto, Livia. Un personaggio che, seppur periferico, godeva di una certa importanza nell’Impero tanto che nell’isola di Samo, nel mar Egeo, è stata rinvenuta un’iscrizione onoraria a lui dedicata. Quindi se il suocero di Augusto viene omaggiato nella lontana Samo è assai probabile che tributi simili siano presenti anche a Pisaurum, la sua città natale. Manca un tassello del mosaico e cioè la questione del seppellimento proprio a Pergola, e Braccesi, pur non escludendo la possibilità che i Bronzi siano stati rimossi per coniare, con il loro metallo, delle monete, è più propenso a pensare a una razzia da parte dei barbari.

    Nel 271 d.C., alla foce del Metauro, è documentata la vittoria delle truppe del’imperatore Aureliano sui Germani Jutungi. È molto probabile che i barbari, in fuga disordinata, siano scappati verso l’Appennino, risalendo non la Flaminia (presidiata dai Romani) ma la valle del Cesano. La seconda battaglia, di Totila, è datata 552 d.C. e lo storico greco Procopio racconta che il bizantino Narsete sconfigge il goto Totila in un triangolo compreso fra La Scheggia, Pergola e Sassoferrato. È dimostrato che sia i Germani Jutungi, sia i Goti, compiono delle razzie a Pesaro e i Bronzi potrebbero essere stati il bottino di uno di questi saccheggi.

    La tesi di Viktor H. Böhm dell’Università di Vienna è ancora più affascinante e tira in ballo addirittura Marco Tullio Cicerone. Il professore austriaco pensa che i Bronzi dorati provengano dall’isola di Samos, nella regione della Cilicia, dove Cicerone era stato proconsole. Le sculture a quanto pare s’incastonano perfettamente con un’esedra presente nell’isola sulla quale, come riportano delle incisioni, era posizionato un gruppo bronzeo dedicato al famoso oratore e alla sua famiglia. Per Böhm la testa del cavaliere è in pratica un ritratto di Cicerone e le decorazioni della bardatura dei cavalli sono legate a episodi della vita del celebre oratore. Ulteriori studi porterebbero a identificare l’altro cavaliere con il fratello di Cicerone, le due donne con la moglie Terenzia e la cognata Pomponia. Ma come ci sono arrivate queste sculture nelle Marche? Semplice, Marco Antonio, che ha già fatto uccidere il suo nemico giurato Cicerone, vede il gruppo scultoreo a Samos e va su tutte le furie. Così, per cancellare ogni traccia dell’uomo che lo ha inchiodato con le sue Filippiche, fa distruggere il monumento e trasportare le statue, come personale bottino verso Roma, seguendo la via più facile: la rotta navale che dall’Oriente portava ad Ancona e da qui l’antica Via Flaminia.

    A ogni modo oltre all’enigma rappresentato dalle sculture in sé e dai motivi per i quali sono finite sepolte in quel campo nei pressi di Cartoceto, c’è anche da risolvere il mistero della loro collocazione futura. I Bronzi infatti oggi sono aspramente contesi tra Ancona e Pergola. La lunga diatriba inizia nel 1988, quando il piccolo Comune della provincia di Pesaro e Urbino si rifiuta di restituire il gruppo, prestato per un’esposizione temporanea poco dopo il rientro da Firenze. La guerra per il possesso del gruppo porta a strane alleanze trasversali, campanilistiche e apartitiche: sono infatti il comunista Giorgio Tornati e il missino Giuseppe Rubinacci a costruire con le loro mani il muro di mattoni che sigilla i Bronzi in un salone a Pergola. Di fatto ne viene impedito così il trasferimento programmato, mentre le due Province si combattono a colpi di carte bollate. Nel 2001 il ministero dei Beni culturali stabilisce un compromesso: i Bronzi dorati originali e una perfetta copia si alterneranno tra il Museo archeologico nazionale delle Marche di Ancona e il Museo dei Bronzi dorati e della città di Pergola, appositamente creato. Nel 2008 però una sentenza del Consiglio di Stato interrompe il pendolarismo – solo teorico, in effetti, visto che dal 1988 i Bronzi non si sono più mossi dal piccolo centro del pesarese – delle sculture, affidando in via definitiva le opere al Comune di Pergola e al suo museo. Ovviamente il Comune e la Provincia di Ancona presentano subito ricorso contro questa decisione. Il 26 novembre 2011 il Consiglio di Stato ci ripensa e annulla la decisione del 2008, rimettendo in vigore la convenzione del 2001 sul pendolarismo, ma chiedendo decisioni condivise da parte delle Province e dei Comuni interessati. L’idea di spostare avanti e indietro un gruppo, composto da oltre trecento fragilissimi frammenti, però non piace alla Soprintendenza archeologica per le Marche, che evidenzia i rischi e soprattutto i costi di una operazione del genere. Pergola dal canto suo si prepara a dare battaglia, perché intorno alle sculture ha costruito la sua notorietà, ma anche il capoluogo dorico conta molto sui Bronzi di Cartoceto che, riprodotti nella loro originaria integrità, compresa la doratura, guardano il porto di Ancona dalla terrazza superiore di palazzo Ferretti, sede del museo archeologico di cui sono ormai diventati il simbolo, anche se assenti da venticinque anni. Il 9 maggio 2012 il comitato dei tecnici del ministero per i Beni e le Attività culturali decide di affidare il gruppo bronzeo alla collezione archeologica più importante del territorio, ovvero al Museo archeologico nazionale delle Marche di Ancona, ma i Bronzi non si sono mossi da Pergola.

    I monti del mistero

    Nel Piceno, tra gli Appennini umbri e le colline che scendono all’Adriatico, i monti Sibillini sono un angolo di mistero. Al mito della Sibilla appenninica, infatti, si affianca quello di Pilato, che per secoli ha attirato maghi e seguaci dell’occulto. Secondo la tradizione popolare, nel lago sotto il monte Vettore, proprio il governatore romano della Palestina sarebbe stato annegato dal demonio. Poco lontano, poi, si trova la gola dell’Infernaccio, nella quale ancora oggi aleggiano i ricordi di antichi riti negromantici. Poi ci sono i miti molto reali di Giacomo Leopardi e di Guido Piovene. Il primo dal suo colle recanatese rimira in lontananza quelli che vengono chiamati monti azzurri, elevandoli a simbolo inafferrabile, il secondo, che negli anni Cinquanta gira la penisola per cercare di capirla e farla capire agli italiani, parlava dei Sibillini come monti più leggendari dell’Italia centrale. Insomma, il maestoso e suggestivo massiccio, che attraversa quattro province (Ascoli Piceno, Fermo, Macerata e Perugia) e due regioni (Marche e Umbria), è speciale sotto molti punti di vista, anche perché pare sia popolato dalle fate. Ci sono due grotte a loro dedicate, una sul monte Sibilla e un’altra sul Vettore, esistono sentieri delle fate, le fontane delle fate, i cerchi delle fate e non mancano le leggende su queste creature magiche e misteriose che amano danzare nelle notti di plenilunio. Sono le fate a rapire nottetempo i cavalli per potersi muovere più velocemente fra un paese e l’altro; sono sempre queste fanciulle bellissime a irretire i giovani del luogo, sottraendoli al mondo reale per condurli verso una specie di immortalità. A volte, raccontano i pastori, i cavalli condotti liberi al pascolo sui monti tornano con la criniera pettinata a treccioline, naturalmente attorcigliata dalle fate. Demonizzate per secoli dalle prediche di santi e di frati e costrette a rifugiarsi nelle viscere della montagna per diventare quasi invisibili, sono davvero solo frutto della fantasia e della immaginazione di contadini e pastori facilmente suggestionabili? Forse no, specie guardando molto indietro nella storia della regione, esattamente agli anni intorno al 295 a.C., quando nel territorio fra Sassoferrato e Camerino viene combattuta una terribile guerra che culmina con la battaglia del Sentino. Lo scontro fra i Celti senoni e le legioni romane è talmente sanguinoso che persino al fiume della zona rimane un nome estremamente significativo: Sanguerone. Le legioni romane in campo sono guidate dai consoli Publio Decio Mure e Quinto Fabio Massimo Rulliano, mentre il fronte antiromano comprende i Celti comandati dai Senoni e una confederazione di popoli italici tutti nemici di Roma. Il capo della coalizione antiromana Gellio Egnazio muore per difendere le sue truppe, ma anche il console Publio Decio Mure perde la vita nella battaglia. Nelle cruente lotte corpo a corpo che si svolgono a Sassoferrato e dintorni non cadono però solo i comandanti, anche moltissimi valorosi combattenti subalterni restano sul campo. Tito Livio descrive i Celti come uomini con «corporature imponenti, chiome fluenti e dipinte di rosso, grandi scudi e spade lunghissime», e racconta che in battaglia «le grida e le danze selvagge, il fragore pauroso delle armi quando agitano lo scudo secondo le loro usanze patrie [...] sono tutte cose attuate di proposito per generare terrore». Nonostante ciò i Romani hanno la meglio e nella battaglia del Sentino perdono la vita circa trentamila guerrieri (ma c’è chi parla di cinquantamila) e circa diecimila vengono fatti prigionieri. Le tribù celtiche rimaste senza uomini giovani e validi si disperdono; per salvarsi i druidi si nascondono nei boschi marchigiani (divenuti poi i famosi boschi sacri celtici, tagliati all’avvento del cristianesimo e oggi sostituiti dalle chiese della Madonna della Quercia e dagli agglomerati urbani chiamati Cese e Ceselli), mentre migliaia di donne fuggono sulle montagne. Sono giovani, belle, sole e molto probabilmente la loro presenza in zone isolate favorisce la nascita di leggende e storie fantasiose. D’altronde, se nel Maceratese non fossero in qualche modo arrivati i Celti, come si spiegherebbe l’esistenza, nel comune di Cingoli, di un borgo che si chiama Troviggiano, ovvero druido Giano? L’individuazione della parola druido nella toponomastica della zona potrebbe indicare che nel territorio sarebbe vissuto un personaggio celtico, un sacerdote depositario della conoscenza ed esperto di astronomia. Forse è questo il druido maceratese che andava sui monti Sibillini a studiare le stelle usando il misterioso uovo di Sarnano, una grande pietra dalla forma ovoidale con una vaschetta scavata sulla sommità. Secondo alcuni l’uovo, oggi collocato in piazza Alta a Sarnano, potrebbe essere un osservatorio astronomico celtico e assomiglia molto a una roccia, con una vaschetta quadrata nella parte alta, che si trova nei pressi di Terni e che era utilizzata probabilmente per lo stesso scopo. L’incavo, riempito d’acqua, rifletteva il cielo e le stelle che potevano essere osservate nella pietra, indicando cosi il trascorrere delle stagioni, o il momento in cui si avvicinavano festività particolari, proprio come in un vero calendario astronomico.

    I santi venuti dal mare: san Ciriaco e san Benedetto

    Fra il 303 e il 305 d.C. si abbatte sull’Impero romano l’ultima grande ondata di persecuzioni. In questo periodo una serie di editti, di particolare durezza, colpiscono i cristiani. Il quarto della serie, emanato nella primavera del 304, impone a tutta la popolazione di «sacrificare agli dèi», mostrando la radicalità dell’azione dell’imperatore Diocleziano. I cristiani che rifiutano vengono sottoposti a torture di ogni genere e sono uccisi. L’ordine giunge con qualche mese di ritardo anche nell’ager Cuprensis, dove a presiedere questa piccola unità amministrativa c’è un dux di nome Grifus. La persecuzione è durissima anche in questa lontana provincia e si abbatte con particolare violenza su chi è legato in qualche modo allo Stato centrale e quindi, naturalmente, sui soldati. Benedetto, che ha circa ventotto anni all’epoca, è uno di questi e il 13 ottobre del 304 d.C. viene decapitato sul ponte del fiume Menocchia, nei pressi dell’attuale Cupra Marittima. La sua storia fin qui assomiglia a quella di tanti alti neo convertiti, ma il seguito è strabiliante. La testa e il corpo dell’uomo vengono subito gettati in mare separatamente, onde evitare che le spoglie siano raccolte, conservate e fatte oggetto di venerazione, come sta accadendo in altre zone dell’Impero. Una precauzione che però non serve a molto, perché un corteo di delfini trasporta i poveri resti del soldato cristiano sulla spiaggia, alle pendici del colle dove sorgerà poi la torre dei Gualtieri. I coloni tumulano il corpo, miracolosamente intatto, vi edificano sopra una chiesa intitolata a San Benedetto Martire, questo misterioso soldato che ha sacrificato la vita pur di non rinnegare la sua fede. Sul santo però non esistono documenti scritti e il culto, fervente nella zona, si basa soprattutto sulla tradizione orale. Le uniche testimonianze sono una lapide e le spoglie conservate nella chiesa, che una recente radio-datazione ha datato proprio a un periodo compreso fra il 250 e il 350 d.C. Quindi un martire, che dà il nome a un paese, ma è nella realtà muto, silenzioso, ignoto alla storia ufficiale e persino misconosciuto

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